di Antonio Lucio Giannone
Il brigantaggio e l’emigrazione sono stati, com’è noto, due tra i fenomeni di maggiore rilevanza politica e sociale dell’Italia post-unitaria, i quali hanno inciso profondamente, in particolare, sulla vita delle popolazioni meridionali. Essi sono stati fatti oggetto di innumerevoli indagini da parte di storici, sociologi, antropologi, ma hanno suscitato anche l’interesse dei letterati, che all’epopea brigantesca e all’odissea dei nostri emigranti hanno dedicato romanzi, racconti, composizioni poetiche, libri di memorie, diari di viaggio, ecc. Questa consistente e variegata produzione è presa ora in esame da Sebastiano Martelli, docente di Lingua e letteratura italiana nell’Università di Salerno, nel volume intitolato Letteratura contaminata. Storie parole immagini tra Ottocento e Novecento (Salerno, Pietro Laveglia editore, 1994).
Martelli conduce un’esplorazione a tutto campo, andando al di là delle tradizionali distinzioni tra generi letterari, livelli ‘alti’ e ‘bassi’ dell’elaborazione artistica, ambiti specifici, invadendo anzi territori contigui, come quelli del giornalismo e del cinema, nel tentativo di ricostruire la mappa della letteratura sul brigantaggio e di quella sull’emigrazione. Anche gli strumenti metodologici di cui si serve, oltre che alla filologia e alla critica, attingono largamente ad altre discipline, come l’antropologia e la storia, in un fecondo scambio di esperienze e in una concezione autenticamente interdisciplinare della ricerca letteraria.
Il fenomeno del brigantaggio viene affrontato, così, attraverso l’esame sia delle memorie dei sequestrati, compilate da autori italiani, tedeschi e inglesi nella seconda metà dell’Ottocento, sia dei romanzi di Nicola Misasi e Francesco Jovine. E mentre i libri di memorie offrono una straordinaria documentazione sul mondo dei briganti, sia pure attraverso la particolare angolazione ideologica e le differenti matrici culturali dei singoli autori, le opere di Misasi e di Jovine mirano a dare un’ interpretazione del fenomeno e a individuarne le cause.
A Misasi, in particolare, attraverso la narrazione delle truci storie di briganti, interessava rappresentare soprattutto l’identità storico-antropologica della sua terra, la Calabria. Non a caso la fine dell’epopea brigantesca, che lo scrittore colloca ai primi del Novecento, coincide per lui con la scomparsa di un mondo, di un’intera civiltà. L’abruzzese Jovine invece, in alcuni scritti saggistici, che Martelli legge “in sovrimpressione” con Signora Ava, il romanzo pubblicato nel 1942, sviluppa un’approfondita riflessione, individuando una delle cause del fenomeno del brigantaggio nel ruolo svolto nell’Ottocento dalla borghesia, la qua le cercò di sostituire l’aristocrazia nel possesso delle terre. E a questa classe sociale appartengono infatti alcuni personaggi del romanzo, alla base del quale esiste appunto, secondo il critico, “un’indagine storica di notevole spessore” (p. 78), condotta alla luce del più avanzato pensiero meridionalistico.
Passando alla letteratura sull’emigrazione, Martelli mette costantemente in rapporto le opere analizzate con le posizioni politiche a favore o contro questo fenomeno, succedutesi in Italia dagli ultimi decenni del secolo scorso fino a tutti gli anni Trenta del Novecento. Il libro di Edmondo De Amicis, Sull’Oceano (1889), che ha svolto “un ruolo primario e archetipico” (p. 108) in questo campo, è, ad esempio, una celebrazione dell’emigrazione italiana, in linea con le tesi di F. S. Nitti, anche se in esso non vengono nascoste neppure le difficoltà e le traversie affrontate dai nostri connazionali, mentre invece due altri grandi scrittori, Pascoli e Pirandello, rispettivamente nel poemetto Italy, compreso nei Primi Poemetti (1904), e nella novella L’altro figlio, apparsa nel 1905, vedono nell’esodo 1a fonte di malattia e di morte. Il secondo inoltre, influenzato dal pensiero positivista, considera l’emigrazione quasi il prodotto di una legge naturale e quindi un fatto ineluttabile.
Una posizione antiemigrazionistica, che Martelli ricollega al “settore più conservatore, politicamente e socialmente, nell’ultimo ventennio dell’Ottocento” (p. 167), è visibile anche in altre opere esaminate nel libro, dalle novelle della siciliana Maria Messina, riscoperta recentemente da Leonardo Sciascia, a Emigrati (1880-81) di Antonio Marazzi, una “vera e propria enciclopedia dell’emigrazione” (p. 152) in tre volumi, da I due fratelli ovvero il ritorno dell’emigrante (1893) di Giorgio S. a Verso l’ignoto, il romanzo dell’emigrante (1903) di Achille Salzano, opere nelle quali l’emigrazione è perennemente associata a immagini di malattia, disperazione, morte.
Un altro romanzo che affronta specificamente questo problema è Emigranti (1928) di Francesco Perri, di cui Martelli offre una convincente lettura in chiave prevalentemente antropologica. Anche qui le tragiche vicende dei protagonisti sono la logica conseguenza dell’atto traumatico dell’emigrazione, vista, per dirla con Ernesto De Martino, come “equivalente critico della morte”, in quanto essa ha portato al distacco definitivo dalla comunità familiare e da quella del villaggio d’origine.
Ma, come s’è detto, lo studioso non si ferma al campo strettamente letterario ed esplora anche il settore cinematografico, dove rinviene un progetto di film sull’emigrazione del 1931, di cui resta il soggetto, Il fabbricatore di città, dovuto ad Anton Giulio Bragaglia con la collaborazione di Cornelio Di Marzio e Lina Pietra Valle. Nel testo, che è un “concentrato di molti materiali della propaganda politico-ideologica e della strategia del consenso operate dal fascismo” (p. 235), è evidente il rovesciamento di alcuni stereotipi dell’emigrazione meridionale. Qui infatti è l’Italia che diventa ora il paese del progresso, del futuro, dove i figli dei vecchi emigrati possono ritornare e diventare anch’essi costruttori, “fabbricatori” di città, nel momento stesso in cui si stava costruendo il nuovo stato fascista. Su questo progetto, che Martelli pubblica in appendice del saggio, in una stesura inedita, sono chiare anche le influenze della posizione nazionalista di Enrico Corradini e delle sue opere sull’emigrazione, che nei primi decenni del Novecento prendono il posto dell’archetipo deamicisiano. Corradini vedeva nel fenomeno migratorio un processo di decadenza della razza e auspicava il ritorno in patria degli italiani per combattere nella prima guerra mondiale e dare una nuova dignità alla nazione, dopo le numerose umiliazioni subite.
A una destrutturazione dell’ideologia corradiniana attraverso notazioni ironiche e umoristiche si assiste invece, secondo Martelli, in due opere di Massimo Bontempelli, al quale è dedicato l’ultimo saggio del libro, il romanzo Gente nel tempo e Noi, gli Aria. Interpretazioni sudamericane (1934), che non a caso preludono al suo distacco dal fascismo. In quest’ultima, originata da un’esperienza diretta di viaggio in Sud America compiuto con Luigi Pirandello, lo scrittore assegna agli immigrati italiani in Argentina il compito primario di costruire una nuova identità nazionale.
[Le scritture del testo. Salentini e non, Milella, Lecce, 2003]