di Gianluca Virgilio
VII
Sulla scrittura diaristica. Come ogni scrittura, anche la scrittura diaristica ritaglia e copre uno spazio limitato della vita, al di là del quale ve n’è un altro molto più grande, lo spazio del non detto.
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Riflessione sulla stanchezza serale, accumulata in una giornata di lavoro, alla fine della quale diventa difficile persino leggere. Viene più naturale distendersi sul letto, davanti al televisore e guardare passivamente le immagini che trascorrono, finché un sussulto d’orgoglio e di dignità ci spinge a spegnerlo. Il televisore rimane lo strumento ideale per ridurre al silenzio, all’inattività, al sonno, la massa degli umani, al termine della giornata produttiva.
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Ho trent’anni di insegnamento sulle spalle, ma per me il primo giorno di scuola è sempre molto emozionante. Alla vigilia del primo giorno di scuola sono sempre inquieto come alla vigilia di un lungo viaggio. Domani incontrerò – mi dico – i miei studenti, conoscerò moltissime persone, sarò solo davanti a loro, dovrò parlare, dire perché siamo lì insieme, io e loro, e dovrò trovare le parole giuste per farlo. Sembra una sciocchezza, ma il primo giorno di scuola è il giorno dell’imprinting, da cui dipende la qualità del rapporto docente-studente, che dovrà poi essere tutto costruito nei mesi avvenire.
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L’aspetto desolato dei luoghi di villeggiatura, al mare, alla fine di settembre. Percorrendo la litoranea semideserta tra Santa Caterina e Rivabella, passando per Santa Maria al Bagno e Lido Conchiglie, tra migliaia di case vuote, usate due mesi, chiuse e semiabbandonate per il resto dell’anno. Un grande spreco!
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Gita nella campagna salentina con i miei amici-traduttori francesi, Annie e Walter Gamet. Ci siamo fermati nei pressi della Masseria dei doganieri, sul ponticello che valica il Canale dell’Asso. Una donna anziana era intenta a raccogliere i caki. Ci ha offerto dei frutti e ci ha invitato a entrare. Quando ha saputo che i miei amici erano francesi, ci ha raccontato che suo marito, contadino di Galatone, tanti anni fa, presumibilmente negli anni sessanta, “faceva la stagione delle bietole” in Francia. Partiva tutti gli anni da Galatone e percorreva più di mille e cinquecento chilometri per lavorare la terra. Sapevo di salentini che emigravano per lavorare nelle fabbriche e nelle miniere del Nord Europa, ma che lavorassero nei campi a così grande distanza dalle loro case, e per dei lavori stagionali, mi risultava nuovo. Ma di che mi stupisco? L’africano che lavora d’estate nei campi di Puglia, quanti chilometri ha fatto per il suo magro salario?
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Alcune tipologie di insegnante. Insegnante ragioniere: sta sempre lì a far conti con le sue griglie e la calcolatrice a portata di mano. Insegnante-impiegato: vorrebbe firmare il cartellino per dimostrare d’essere a scuola più del dovuto; va in giro con una borsa piena di carte, che ama più di ogni altra cosa. Insegnante moralista: egli in realtà non insegna, inculca il sapere nelle giovani menti. Insegnante perbenista: se è donna, porta i tacchi alti ed è sposa a un libero e danaroso professionista; se è uomo, porta giacca e cravatta firmata ed ha fatto anche lui un buon matrimonio. Insegnante sfaticato: assegna gli esercizi agli alunni e poi gioca al computer in attesa che gli diano la pensione. Insegnante-che-progetta: non fa altro.
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Mio convincimento profondo che la scuola non è un luogo dove si formano e si valutano gli studenti, meno che mai un luogo in cui negli studenti si inculca alcunché! Formare, valutare, inculcare: che brutte parole! L’insegnante non è né una vasaio né un giudice né una pressa vivente, ma un uomo adulto che dialoga con un giovane e, mentre dialoga, sta a vedere come egli cresce, come evolve il carattere, come si trasforma l’approccio al sapere, come emergono le preferenze individuali, le disposizioni d’animo particolari. Insegnare è dialogare e stare a vedere, intervenendo qua e là quando è necessario per mantenere la rotta, per impedire deragliamenti, ecc; ma scommettendo che tutto vada bene, avendo fiducia nel normale corso delle cose, nel loro necessario divenire. Stare a vedere l’effetto che fa il dialogo con lo studente, consapevoli che non sarà mai possibile stabilire quanto nel risultato finale (lo studente divenuto uomo) spetti all’insegnante e quanto all’allievo. Il risultato finale, infatti, non è mai quantificabile né qualificabile.
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Pioggia sul mercatino di Santa Maria al Bagno. Improvvisamente un fulmine ha squarciato il cielo verso la marina e un boato si è diffuso nell’aria. La reazione di un venditore di verdure è stata immediata: “Se trona allu rinaru, fusci fusci a lu pajaru”. Non avevo mai sentito questo proverbio e mi sono fermato sotto la pioggia per farmelo spiegare bene. In particolare, non capivo cosa fosse “lu rinaru”. Il venditore ha fatto un gesto in direzione del mare, facendomi capire che la traduzione era “l’arenile”, ovvero la soglia che il temporale oltrepassa quando viene dal mare ed investe la terra, ragion per cui è meglio subito trovare un riparo in un “pajaru”.
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Perché dovremmo avere paura di rientrare nel nulla dove siamo già stati per un infinito numero di anni? Il problema vero non è morire, ma vivere, perché alla morte non si potrà mai opporre nessuno, mentre la vita presenta sempre molti oppositori. Chi sono gli oppositori della vita? Coloro che, credendo che la loro vita si prolunghi all’infinito, cioè di essere immortali, limitano quella degli altri, e lo fanno nei modi più meschini: con la maldicenza, con l’invidia, cercando di importi il loro punto di vista, con la loro supponenza, sfruttando il prossimo, ecc. Bisognerebbe fare un elenco degli oppositori della vita, perché tutti sappiano chi sono, li riconoscano e li scansino, al fine di vivere bene il tempo che ci è dato prima di rientrare nel nulla.
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Leggere e scrivere. A proposito dell’opera di Robert Burton, Anatomy of Melancholy, Jean Starobinski, L’inchiostro della malinconia, Einaudi, Torino 2014, p. 142, scrive: “Trasferire le cose lette nelle cose scritte, questa era stata anche l’occupazione di Montaigne…”; il che mi fa riflettere su come vado scrivendo questo mio zibaldone. Non leggo anch’io, in definitiva, per operare un trasferimento dalle cose lette nelle cose scritte? Quante cose lette non ho qui trascritto! A ben guardare, ogni scrittore opera in questo modo, sicché, contro ogni spocchia individuale che ama fregiarsi del titolo di originalità, la letteratura altro non è che un continuo, incessante trasferimento delle cose lette in quelle scritte, che saranno a loro volta lette e poi scritte, e così ad infinitum…
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Agli inizi di ottobre, in alcune contrade galatinesi e dei paesi vicini si fa festa. A Sirgole, le campane della chiesetta poco distante dal fondo di mio suocero si sono messe a suonare per annunciare la fine della stagione in campagna e la festa che si terrà come ogni anno. Nella contrada, intorno alla chiesetta, dove è stato approntato un piccolo apparato di luminarie, si radunano le famiglie dei proprietari; c’è il nocellaro, interviene qualche cantante, ci si guarda in faccia e da ultimo si sparano i fuochi. Ma guai a voltarsi verso il campo di pannelli fotovoltaici impiantato dove prima c’era un vigneto! Si rimarrebbe delusi!
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Che cosa significa quest’ansia di valutare che attraversa la scuola italiana? Che ci sia una svalutazione in corso?
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Idea risolutiva, certo. Le idee infatti servono a risolvere… , cioè a sciogliere i nodi che tengono legata la nostra vita. Le idee servono a mantenersi liberi. Perciò solo chi non ha idee è uno schiavo.
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29 giugno, a Galatina. Lo spettacolo della devozione popolare va in scena nella Chiesa Madre: una massa disciplinata di persone converge verso il luogo del culto per rendere omaggio al Santo. Lo spettacolo non è per me nuovo, eppure ogni volta è fonte di meraviglia. Davanti al popolo devoto che compattamente ripete da secoli gli stessi comportamenti rituali, ogni pensiero critico non può che farsi autocritico. Sono io, qui, fuori luogo? Mi guardo intorno, in mezzo a tanta gente, un corpo tra innumerevoli corpi, meravigliato e disincantato, il sole sta per tramontare e la sera incipiente getta la sua ombra su ogni velleità illuministica.
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In spiaggia, guardo i corpi che mi passano davanti e mi circondano, pensando di farne il racconto, un racconto senza trama, un semplice racconto dei corpi con tanti aggettivi: corpi più o meno abbronzati, obesi smilzi atletici flaccidi palestrati, corpi slanciati appesantiti stanchi rilassati, corpi giovani vecchi impuberi, corpi di adolescenti, di uomini e di donne, corpi di vecchi e di vecchie, corpi in piedi, seduti sdraiati distesi proni e supini, corpi bagnati dalla salsedine e corpi sudati, corpi sporchi di rena e corpi spalmati di creme solari, corpi semicoperti e corpi nudi, corpi italiani e francesi e inglesi e tedeschi e americani e marocchini e senegalesi, corpi di mille paesi diversi, vicini e lontani, corpi corpi corpi… Pensavo di scrivere un racconto che parlasse di tutti questi corpi, ma un racconto breve, come questo qui, che parla dei corpi che ho visto in spiaggia e che molto probabilmente non rivedrò più.
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“Vado in campagna”, ho detto a Ornella, “ho la sensazione di essere atteso”. Mi chiede: “Da chi?”. “Dalle piante”, rispondo. È così dunque che si va in campagna a coltivare l’orto, col piacere – e anche con l’urgenza – di chi sa di essere atteso.
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Per i miei scritti cittadini devo tener conto di quanto afferma Friedrich Dürrenmatt, La città, in Racconti, Feltrinelli, Milano 2003, p. 78: “… la base della fiducia – e in questo consiste la grandezza della città – non è la fede, bensì la paura.”
La paura di chi? Di che cosa? La paura dell’uomo, di ciò che l’uomo può fare contro di noi. La paura è reciproca, tutti hanno paura di tutti, e solo perché si ha paura del prossimo e si sa ch’egli ha paura di noi, reciprocamente ci accordiamo una certa fiducia. Una tale fiducia è anche il fondamento della fede in un dio. Crediamo in un dio perché ce lo figuriamo infinitamente più forte di noi, tale che potrebbe ucciderci con un battito di ciglia, ad nutum; e dunque, bisogna avere fede…
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Ho incontrato Nicola G. De Donno molti anni fa, avrò avuto poco più di vent’anni. Accompagnai in auto a Maglie mio padre e ci fermammo nei pressi della sua abitazione. Mio padre rimase in auto e mandò me con un pacchetto di suoi scritti, da consegnare al preside del Liceo Capece. Io bussai alla sua porta, egli mi aprì e mi fece entrare in uno stanzone zeppo di libri, che a me parvero messi alla rinfusa. Spiegai le ragioni della mia visita, gli consegnai il plico, ricevetti una pacca sulla spalla e fui congedato. Non ricordo altro, se non che ero intimidito davanti a lui, sebbene fossi più alto di una spanna.
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Per comprendere che cosa sia lo snobismo, leggere quanto scrive Marcel Proust su Legrandin, in La strada di Swann, ne Alla ricerca del tempo perduto, vol. I, Mondadori, Milano 1983, pp. 156-157: “… amava molto gli abitatori dei castelli e davanti a loro veniva assalito da una tale paura di dispiacere che non osava mostrare di avere per amici dei borghesi, dei figli di notai e di agenti di cambio, e preferiva, se la verità doveva essere scoperta, che questo avvenisse in sua assenza, lontano da lui e “in contumacia”; era uno snob.”.
Da mettere in relazione con quanto scrive Tomasi di Lampedusa nel Il Gattopardo a proposito di don Ciccio Tumeo, definito snob, “essendo lo snob il contrario dell’invidioso”.
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Questi nostri paesi sono davvero brutti e la bruttezza nasce dall’assenza di una visione urbanista quale che sia, poiché ognuno ha costruito come e dove ha voluto, abbattendo e riedificando oppure costruendo ex novo senza alcun piano e senza che nessuna autorità pubblica si levasse a impedire lo scempio del territorio, ma solo assecondando una logica geometrile di tecnici ignoranti che soddisfano una committenza altrettanto ignorante. Questo paesaggio urbano si può apprezzare solo se si abbandona ogni riferimento estetico storicamente dato, e si adotta il punto di vista della “pura vita”, che qui fa una sua prova come conglomerato di cose diverse e prive di qualsiasi coerenza, caos originario che crea altro caos, senza alcun intervento del logos.
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Dostoevskij, I demoni II, v, Einaudi, Torino 1974, p. 306, racconta di un adolescente suicida, il cui corpo giace sotto lo sguardo dei curiosi, e dice: “Tutti i nostri lo contemplavano con avida curiosità. In generale, in ogni disgrazia del prossimo, c’è sempre qualcosa che allieta l’occhio di un estraneo, chiunque egli sia”. Ho pensato a Lucrezio, De rerum natura, e a chi, al sicuro sulla terraferma, vede il marinaio in difficoltà tra i marosi, e si sente bene!
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Marc Fumaroli, Lo Stato culturale, Adelphi, Milano 1993, p. 149, traggo questa chiara sintesi sulle posizioni pedagogiche in campo: “… o si ritiene che ogni bambino porti con sé un germe fecondo che l’educazione ha il dovere di far crescere, seguendo la sua particolarissima disposizione, oppure il bambino stesso è solo una materia informe alla quale bisogna imporre delle forme già pronte, che sono l’orgoglio e la felicità dei maestri”.
La scelta di campo ha conseguenze enormi sul comportamento dell’insegnante e sull’educazione del bambino. Insomma, si vuol fare del bambino un uomo oppure un automa?