di Antonio Errico
Procedendo per nuclei semantici, per interdipendenza di concetti, per delineazione di scenari, nell’editoriale di domenica scorsa, il direttore di “Nuovo Quotidiano di Puglia”, Claudio Scamardella, arriva ad un punto in cui dice che la cultura appare di fatto espulsa dalla storia, nel senso di non incidere più sui processi, di non riuscire più a indicare direzioni di marcia, a costruire il senso.
Probabilmente è proprio questo l’aspetto drammatico del tempo che corre: ancora più drammatico se si ammette che molto spesso si tratta di una condizione che viviamo inconsapevolmente. Si improvvisano i processi di costruzione delle idee; le direzioni non ci interessano perché non abbiamo orizzonti; il senso che attribuiamo alle storie è relativo esclusivamente all’immediato. Senza nemmeno rendercene conto abbiamo frantumato i nessi logici della cultura che sono costituiti essenzialmente dalla relazione che questa stabilisce con la storia, affidandoci all’assemblaggio di forme e di significati elaborati dalla tecnologia con la sola finalità dell’istantaneità e del pragmatismo.
La cultura non riesce più a produrre linguaggi nuovi, dice Scamardella. E’ così. Ogni linguaggio nuovo rappresenta il risultato provvisoriamente ultimo di una stratificazione di linguaggi di cui entra a far parte per poi trasformarsi generando un altro linguaggio che sarà a sua volta provvisoriamente ultimo e che a sua volta si trasformerà.
La stratificazione di linguaggi si chiama cultura. La comprensione e la narrazione della storia avvengono attraverso la cultura. Di conseguenza, l’assenza di una relazione tra storia e cultura, estromette dalla dimensione sociale ed esistenziale sia l’una che l’altra. La fine delle grandi narrazioni, si è verificata anche per questo motivo. L’avvento del linguaggio spot, come dice Scamardella, del linguaggio senza stratificazione, senza storia, è accaduto anche per questo. Le grammatiche, le sintassi, non servono più. Le connessioni sono date da un clic: sono immediate, comode; non costano pensiero, né nuovo né vecchio.
Però qualcosa stiamo perdendo, abbiamo già perduto. Senza rendercene conto, drammaticamente, stiamo perdendo o abbiamo già perduto, un tesoro.
Usare il termine tesoro, significa fare retorica o esprimere un sentimento assoluto.
Marìa Zambrano, è stata una delle grandi figure intellettuali del Novecento. Nella prima pagina dell’introduzione ad una sua antologia di Seneca, tradotta in Italia da Angelo Tonelli nel 1998, dice che avere una cultura, vivere in una cultura, significa che la vita personale di ciascuno ha dietro di sé un tesoro alle volte anonimo, alle volte con un nome e un volto. Significa poter ricordare, poter richiamare alla memoria. In un momento difficile significa anche poter chiarire al suo riflesso le nostre angosce e le nostre incertezze.
Allora, forse il termine tesoro non assume una valenza retorica ma una assolutezza sentimentale. E’ l’eredità che non si può e quindi non si deve disconoscere. E’ la condizione che consente la maturazione di un sentimento di appartenenza. E’ la possibilità di fare riferimento ad una sapienza che può costituirsi come rispecchiamento. E’ il collocamento di sè nel contesto di una comunità che in quanto tale mette in comune storie, esperienze, valori, orizzonti, linguaggi.
Pertanto viene da chiedersi quali possano essere le storie, le esperienze, gli orizzonti che riesce a mettere in comune il linguaggio spot, quello privo di stratificazioni, quello che si riduce ad un significante con un superficiale significato, il linguaggio che esprime soltanto un senso approssimativo e condizionato da un rapporto impersonale e spersonalizzato.
Guardarsi indietro, riconoscere i volti, richiamare alla mente il passato vicino attraverso il ricordo e quello lontano attraverso le forme della cultura, vuol dire configurare un tessuto di memoria nelle cui maglie si ritrova il senso dell’essere in un tempo, in un luogo. Spesso si dice che questo tempo si ritrova privo di memoria. Se questo è vero, allora si deve integrare il concetto dicendo anche che questo tempo si ritrova privo di un’identità. Quindi non abbiamo la possibilità di un riconoscimento. Non riconosciamo noi stessi. Non sappiamo quali sentieri abbiamo percorso per arrivare qui dove siamo, per essere nel modo in cui siamo. A volte pensiamo perfino che quello che abbiamo sia stato generato da noi, non calcolando che invece proviene da quel tesoro che abbiamo considerato retorico e fors’anche banale, da quella eredità smisurata che non apprezziamo per il fatto che non ne abbiamo conoscenza, da quei volti anonimi o identificati che hanno prodotto progresso e sviluppo. Abbiamo angosce. Abbiamo incertezze. Zygmunt Bauman ne ha compilato cataloghi: inevitabilmente incompleti. Ciascuno di noi potrebbe compilare il proprio. Esprimiamo le angosce e le incertezze con un linguaggio inadeguato che quindi non può essere compreso, oppure che può essere compreso inadeguatamente. Ci ritroviamo disorientati, muti o gracidanti come rane nei canali: nei nostri canali virtuali e ristagnanti. Ci ritroviamo dispersi. Soli nelle folle rassicuranti. Con linguaggi che non accedono al profondo perché non hanno profondità e che di conseguenza non riescono ad esprimere la profondità delle angosce e delle incertezze, ma nemmeno delle felicità e delle speranze.
Per raggiungere le profondità dei significati, e soprattutto dei significati esistenziali, si ha bisogno di una cultura. Ma la cultura, dice Claudio Scamardella, appare di fatto espulsa dalla storia, non impronta processi, non traccia direzioni, non si fa fondamento dei progetti.
Si possono fare due cose, a questo punto e in questa situazione.
La prima è quella di prendere atto e di assecondare.
La seconda è quella di reagire e di rifondare il senso delle cose e delle storie.
Si può scegliere la prima: facilmente, comodamente. Si può continuare a guardare la propria ombra, senza porsi la domanda su quale sia il corpo da cui provenga. Ci si può affidare ai robot, rinunciando al proprio pensiero.
Si può scegliere la seconda: è difficile davvero, è scomodo davvero. Bisogna imparare a guardarsi indietro, a recuperare la memoria. Bisogna restituire alla cultura la cittadinanza e la preminenza che le spettano nella storia.
Ma se si sceglie la seconda non si può delegare la civiltà, astrattamente, a compiere la scelta. Deve farlo ciascuno di noi, personalmente, in un confronto con la propria coscienza.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di Domenica 23 settembre 2018]