di Maurizio Nocera
Certe volte, di notte, oggigiorno, d’inverno, più verso la mattina ormai, un piccolo rumore, un sospiro in più, il battere di ali di una civetta cornuta, il tonfo di una goccia di rubinetto che per formarsi ha impiegato tutta la notte, il cincischìo di due lumache che non riescono a raggiungere la foglia alta della begonia “pinta”, il richiamo dell’uomo dei curli che come te ora non dorme, mettici poi il bagnato del breve sogno di una betissa sinuosa che tuttagambe poco prima ti ha camminato davanti come cavalla murgese dall’ampio bacino, aggiungici ancora un po’ di disperazione urbana che ti sei portato appresso nel letto ieri dopo aver fatto i tuoi bravi compitini del giorno innanzi, ed ecco che sei bell e pronto sulla sponda del letto, alla ricerca del calzino, che come sempre, ogni notte, si va a ficcare tra la pila di libri non letti e la colonnetta e che ora per tirarlo fuori ti tocca spostare, togliere, far rumore, trattenere il sospiro, trattenere l’acqua che ti sta dentro e trattenere anche la voglia di soffiarti il naso e di stiracchiarti un po’. Il nostro primo caffè, al mattino prima delle quattro, è di solito amaro, perché spesso non è dolce la vita. Allora per omogeneità, si comincia così. Poi il solito colpetto di tosse, la bardatura del corpo come si conviene in questi casi d’inverno, il controllo dei documenti in tasca, il controllo delle tumefazioni al viso, il conteggio delle rughe agli angoli degli occhi, un altro vigile controllo alla “pendaia” sotto il mento, e poi via verso l’ignoto, il misterico, verso l’amore che ha atteso lì aggrappato alla roccia per tutta la notte.
Che strano! Mi accorgo solo ora che per me ed Antonio, questo ignoto, questo misterico, questo vento aggrappato alla roccia è sempre stato andare verso sud, sempre a sud del sud, sud Salento. In 18 anni della nostra disperazione urbana non una volta ci è capitato di andare al nord, di oltrepassare le nostre colonne di Ercole, i nostri confini segnati dalle sgangherate porte e muraglie del nostro Castello di Munot, o a chi piace altrimenti, il luogo Belloluogo di Maria d’Enghien, appena poco fuori le mura di Lecce. Quindi sud, giù, verso il basso, il basso del basso, basso Salento. La strada è ormai sufficientemente conosciuta, cioè quella di sempre; però, inspiegabilmente, tutte le mattine, ci appare diversa da quella del giorno o settimana o mese precedente. Eppure i muretti a secco, le cui pietre cominciamo francescanamente a contare, sono quelli; poi controlliamo i colori delle pietre, anche essi sono quelli; poi controlliamo se vi è stato spostamento di pietra piccola sovrastante la pietra grande, niente, tutto è a posto; come al posto vediamo stare le pietre delle “pajare-nido”, dentro cui abbiamo nascosto certe cose che ora non possiamo dire; poi cominciamo a contare i nostri fratelli dalle foglie rivoltate d’argento – Verri è espertissimo in questo tipo di conteggio, ne Il pane sotto la neve ne ha dato brillante prova -, anche essi nel numero giusto, al posto giusto, che ci parlano di come è andata la notte. Capiamo che qualche problema c’è stato anche per essi. Antonio fa qualche tentativo per capire cosa, ma il vento porta via le parole. Procediamo verso l’ignoto, il misterico, verso l’amore aggrappato alla roccia dei nostri mari del sud. Finché non giungiamo alla Specchia dei mori, o come noi diciamo Specchia del serpe nero, o, se meglio preferite, Specchia degli amanti, che sta un po’ prima di Martano, un po’ prima anche del cimitero, dove sono sepolti certi nostri messapi in tombe a terra che solo noi sappiamo ancora individuare. Il primo rito del giorno, ma è ancora notte, lo compiamo qui, davanti a questa sacra massa di pietre del Salento, che ha resistito moribonda persino alla violenza dei costruttori della vecchia via Malemnia. Siamo lì che ancora la luna è all’altezza giusta: cioè sta baciando la Specchia. Quando ancora non c’erano gli alberelli d’olivo, com’è oggi, con Antonio percorrevamo lo spiazzo che ci separava dalla Specchia attraverso un percorso fatto di piccola macchia mediterranea. Giunti sull’orlo di base della nostra grande Madre-pietra, Antonio sceglieva il masso più possente, che poi era sempre lo stesso, sul quale sedersi e cominciare lì il suo rito: odorare le “Ms blu”, tirarle fuori dal pacchetto una ad una, scegliere la signora del momento, passarsela fra le mani timidamente, accarezzarla fino al punto da stordirla, poi umettarla nei punti cruciali che sapeva solo lui, quindi dare fuoco alla “prateria”, fare tre o quattro lunghi e spaziosi respiri, chiudere infine gli occhi, e sognare la luna che bacia la Specchia che ora sta veramente sotto. Sapevo che Antonio non poteva fare altrimenti da questo suo rito, per via della sua dannata “corea”. Altro era invece il mio rito. Consisteva nel seguire un percorso in verticale verso la cima della Madre, scegliendo di mettere i piedi su dei massi particolari che avevo scoperto grazie alla continua frequentazione. Si trattava di pietre concave che mi davano un immenso senso di sicurezza. Una volta raggiunta la cima, la prima parte del rito si compiva attraverso uno sguardo a tutto campo che metteva alla mercé dei miei poveri occhi le deboli e tremolanti luci di Calimera, della stessa Martano e giù in fondo, al di là del boschetto dei Cistercensi, della lontana Borgagne. Ma lo sguardo trovava poi respiro solo quando si rivolgeva ad Otranto e al suo mare e alle prime fievolissime trasparenze d’orizzonte d’Albania. Allora sospiravo, quindi mi mettevo giù supino a fianco del robusto fusto del caprifico che testardamente era cresciuto e continuava a crescere proprio al centro della cima della grande Specchia. In quella posizione cominciava la seconda parte del rito, che consisteva nel farmi toccare dal raggio verde della luna, sapendo che mi ritrovavo disteso sul manto pietroso e odoroso di mia Madre la neolitica. Nascostamente da Antonio, tutte le volte che compivo queste delicatissime funzioni, cercavo di rompere un rametto dell’albero selvatico nella vana speranza di fargli capire che non era per niente necessario che andasse a crescere proprio lì, al centro del grande ventre di nostra Madre-pietra, perché sicuramente essa ne avrebbe avuto dei danni. Il tempo era sempre scandito dal fumo della sigaretta di Antonio.
Per giungere alla Pietra della fertilità, a Terenzano, nei pressi della Marina di san Giovanni di Ugento, anche questa volta il percorso da fare è sempre lo stesso, rituale appunto. Lunghissime strade sterrate, cordonate da bellissimi muretti a secco, caprifichi e olivi ai fianchi, fichidindia e uluzzi verdissimi, qualche spaventatissima donnola per amica lungo la strada, l’attraversamento precipitoso di qualche vecchia civetta cornuta, l’ascolto lontano dei respiri profondi di Patience Gray e di Norman Mommens, il nostro Ar, anch’egli cartografo sapiente, quando di notte si attraversava Spigolizzi di Presicce, un loro territorio guardato perennemente a vista da bianchissime statue marmoree, e giungere infine alla vista dello Ionio, e discendere verso la sacra Pietra. Il rito lo compivamo facendo la riverenza prima al menhir che sulla piccola strada guarda ad Oriente, poi cominciavamo la scalata agli innumerevoli ostacoli frapposti fra noi e la Pietra della fertilità. Tutte le volte era un grand’affare. E questo sempre per via della “corea” di Verri. Antonio, a causa di questa sua debolezza fisica, non poteva assolutamente staccare i piedi da terra, pena tremendi capogiri, deambulazione clowunesca, senso della morte. Ma per giungere, allora come oggi, alla sacra Pietra, i problemi non sono stati mai pochi. Essa infatti è prigioniera secolare di una proprietà privata, che non ammette passaggi “stranieri”. La proprietà appunto va difesa, e come se va difesa!, però difesa adeguatamente non è la Pietra-Madre. Con Antonio giunsi sul luogo in un tempo di morti e di assonnati, per cui avrebbero potuto costruire attorno a nostra Madre-Pietra anche delle montagne, oppure metterci dei cani famelici, noi li avremmo sempre e comunque superati. Solo la “corea” di Antonio ingarbugliava i movimenti: al primo ostacolo, tremendo, un alto cancello verde in ferro battuto, mi toccava arrampicarmi per primo sull’orlo del cancello e da lì tirarmi appresso Verri come se fosse un secchio pesantissimo che tiravo da una profonda cisterna; la stessa operazione, ma al contrario, la dovevo eseguire dalla parte opposta del cancello, dove facevo delicatamente discendere Antonio. I rimanenti ostacoli consistevano in una serie di muretti a secco incementati che, ponendomi a cavalluccio sotto al muro, venivano superati da Antonio che mi saliva e scendeva sopra le spalle. Non era un peso insopportabile, comunque si trattava sempre di un quasi cento chili. Alla fine, lo sforzo veniva ripagato: arrivavamo alla Pietra della fertilità, di cui Strabone ci aveva parlato. La Pietra, per chi non l’avesse mai vista, è veramente eccezionale. Non è una pietra caduta dal cielo, non è una pietra trasportata da altro luogo, non è una pietra mobile, non è una pietra diversa dalle altre nostre pietre del Salento, e meno che mai è una banale trappola per lupi. La Pietra della fecondità è una Pietra-pietra, cioè una Pietra-Madre, o, se meglio vi piace, una Madre-Pietra. Si tratta di una pietra scolpita in forma di enorme cono capovolto all’interno di una vasta massa granitico nostrana, fortunosamente oggi circondata da una vecchia inferriata arrugginita. Quando le prime volte andammo a far visita a questa Pietra, essa aveva addosso ancora tutto il peso di enormi caprifichi sicuramente secolari e attorcigliatissimi rovi di more di bosco. Poi, qualcuno, anche di nostra conoscenza, ebbe il coraggio di liberarla di tanti rami e tante foglie. Qui il nostro rito consisteva per Antonio nel ripetere la medesima funzione svolta ai piedi della grande Specchia del serpe nero, per me invece consisteva nell’appoggiare il viso sull’orlo della Madre-Pietra e lì sostare per alcuni minuti, almeno fino a quando il freddo non cominciava a indolensire la nervatura. Poi un colpetto di tosse di Antonio, mi faceva capire che l’ultima boccata di fumo era stata consumata e che era ora di ripartire. L’ultima operazione del rito la compiva Verri, che prendeva dai pantaloni una moneta di carta e la gettava nel ventre profondo e nero della Pietra declamando alcune frasi a cui era legato moltissimo e che sapevo che aveva tratto dall’Ulisse di Joyce.
Per giungere al Cisternale di Vitigliano, che noi però abbiamo chiamato sempre lo “Scannatoio”, per via del fatto che alcuni contadini salentini ci spiegavano di denominarlo così, perché in quel luogo, molto probabilmente gli antichi messapi sacrificavano delle giovani vergini per propiziarsi qualche temuta divinità del luogo, la strada da percorrere era quella di sempre: muretti a secco; “pajare”; “tajate”; un querceto; alcune grotte dentro le quali – si dice – si nascondono ancora oggi dei discendenti di quei turchi, cioè albanesi della Vallona, che al comando di Ahmed Pascià, qualche secolo fa (oppure ieri?) attaccarono il Salento; una chiesa paleocristiana, bellissima ed abbandonata; un aranceto; un’infinita triste teoria di pietre dell’antica città di Baste, che oggi, desolate, recingono ancora qualche campo agricolo tra Poggiardo, la nuova Vaste, e Ortelle e Vignacastrisi, Giuggianello e Sanarica. Anche qui, il nostro rituale consisteva nel fare la riverenza prima al grande menhir nascosto ad occhi profani alla periferia del paese, quindi nel portarci nei pressi dello Scannatoio-vorace, per via del fatto che questo antichissimo tempio seminterrato non aveva mai conosciuto il senso della pienezza di acque, perché al suo interno aveva una grande vora che si portava via tutto ciò che le capitasse a portata di bocca. La bellezza del grande Vecchio di pietra (era questo un altro appellativo trovato dal Verri) non era stata offuscata dallo scempio edilizio (una vergogna di cui porteranno ancora rosso il viso anche i salentini del 3001) che gli era stato fatto attorno, né dalla sporca ed offensiva inferriata postagli tutt’attorno, pensata non da un nostro bravo fabbro ma da qualche stupido e tangentaro politicante di turno, la sua bellezza – dicevo – consiste nella sontuosità dei grandi blocchi di pietra salentina lavorati e ben sistemati (almeno quelli che si ritrovano ancora sistemati, ma ce ne sono di altri che vanno e vengono come delle formiche di passaggio), nella solennità del luogo che soprattutto all’alba, e certe albe, quando da quelle parti sta per alzarsi il sole, assume un colore e una superbia divina tipica della sacralità delle nostre Pietre-Madri di qui. Il rituale che qui consumavano era abbastanza elaborato, per via del fatto che le case sono così vicine al luogo che da un momento all’altro puoi vedere uscire un suo abitante che, ingenuamente, ti pone la domanda a cui tu non sai rispondere: «Chi sei? Che fai qui?» Antonio, seguendo un percorso non molto difficile, si calava dentro al recinto del Tempio, sceglieva il più grande blocco di pietra e lì su di esso si sdraiava. In questa difficile posizione, iniziava poi il suo rituale del fumo. Io invece, dopo aver scavalcata la stupida inferriata arrugginita, scendevo ancora più giù verso il basso ventre del Tempio, là dove c’è uno di questi grandi blocchi di pietra perennemente in bilico, là sostavo per un po’, poi cercavo di accovacciarmi ad angolo in modo tale da far sì che il mio viso giungesse a lambire la parete su cui crescevano certi capelvenere delicatissimi. Mi dovevo tenere con tutte e due le mani per non sprofondare nell’abisso di quel ventre nero ed umido di questo nostro grande Vecchio di pietra. La funzione di Antonio terminava con un colpetto di tosse e un respiro da gigante. Il mio rito invece terminava quando riuscivo con le labbra a strappare e poi mangiare qualche acidula e amarostica fogliolina del capelvenere. Solo allora risalivo. Ma tutto ciò non era facile e non sempre riusciva a perfezione. Era proprio una brutta giornata quella in cui invece che con le labbra mi dovevo aiutare con le mani per strappare la fogliolina. Per questo Verri spesso, anche in presenza di altre persone che non capivano e non sapevano tutto ciò, rideva, rideva, rideva.