Vittore Fiore: la questione meridionale, la poesia e il socialismo

Vittorio Pagano, Vincenzo Ciardo, Vittorio Bodini e Vittore Fiore.

di Maurizio Nocera

«Caro, carissimo Maurizio, / bello, forte e fresco il tuo poemetto dedicato al tuo, al nostro Antonio. La tua ostinata (e rispettabile) obbedienza ai linguistici giuochi poco toglie all’empito della poesia. / Grazie per quanto tu ed Ada fate per presentare nelle scuole “Il Nuovo Risorgimento”, che contiene firme salentine care alla mia memoria. / Fammi sapere del convegno sull’opera di Antonio. / Con Ada abbimi tuo / Vittore». Era il 15 giugno 1995 quando Vittore m’inviò questa lettera. Da poco, da appena due anni (9 maggio 1993) Antonio L. Verri se n’era andato via per sempre da questo mondo. Proprio Vittore lo aveva ricordato con commozione nella chiesa di Caprarica di Lecce, parlando a un numeroso pubblico di amici e compagni costernati e gemebondi davanti al feretro dell’uomo dei curli che ora non “curlava” più. In quell’occasione Vittore aveva pronunciato parole belle, poetiche, di grande, grandissimo spessore umano. Perché Vittore aveva amato Antonio Leonardo, ovviamente ricambiato con altrettanto affetto. La redazione de «La Gazzetta del Mezzogiorno» (cfr. quella dell’11 maggio 1993, Bari, p. 14), e la redazione di «Produzione e Cultura» [Rivista del Sindacato Nazionale Scrittori] (cfr. quella dell’anno VII, n. 3-4, maggio-giugno 1993, Roma, pp. 37-38), avevano pubblicato per intero la sua orazione funebre. La «Gazzetta» l’aveva intitolata “Qualcuno volò sul nido del ‘merlo’”, chiaro riferimento al titolo del film “Qualcuno volò sul nido del cuculo”.

Con la voce tremante dall’emozione, proprio lui, già vecchio di 73 anni, i capelli bianchissimi, le mani un po’ tremolanti a causa dell’ostinato morbo di Parkinson, disse: «L’ultima volta che ho sentito la voce di Antonio Verri, che mi chiamava a Caprarica, è stato venerdì scorso. Dovevo, su suo consiglio, conoscere le opere del suo amico Cazzolla a Noci, e incontrare il sindaco-poeta Vittorino Curci. Antonio tesseva ancora una volta la tela delle amicizie, degli incontri e degli scontri, delle scoperte, ben oltre Caprarica e Lecce, da straordinario organizzatore di cultura qual era. Due giorni dopo alle otto del mattino mio nipote Mimmo Fazio da Lecce: “Antonio è morto, Antonio Verri. Sì, morto, morto in un incidente”. / Quando l’ho conosciuto? Tutto registrato. Il 
31 dicembre ’79 gli scrivevo da Bari: alla fine ci conosceremo! E lui, a rinfrescarmi la memoria, in una noticina: “Ci ha sempre considerati come gallipolini, suo luogo di memoria e di poesia. Incontri e abbracci nella Fiera del Levante, nella redazione di ‘Delta’ (noi gli scrivevamo cartoline dalla Gallipoli storica […] Sconvolto, dopo ore di disperazione e di ricordi, riesco ad aprire il libro della sua storia, […]  Quante storie intorno a Verri, quanti amici! Il tavolo del “Laboratorio” di Aldo D’Antico a Parabita ne sa qualcosa: i fondatori del “Pensionante”, stesi sopra per ricordo, tredici in tutto, per suggerimento di Dòdaro. / Trovo appena la forza per leggere la deliziosa sorvegliata nitida paginetta che precede il suo ultimo libro Luoghi di frontiera». E poi Vittore disse dell’altro ancora. Nitidissimo nella mente è per me il ricordo della sua ieratica figura davanti all’altare del tempio caprarichese. Era così l’uomo, era così il poeta, nato appunto nel 1920 sui mari del tonno, in quella – sono parole sue – «mia Gallipoli, ora bella ora brutta, seducente e riottosa come la donna che si intravede nel mio canto».

Qui, in questa occasione, non c’è molto da dire di suo padre, Tommaso, perché tutta la Puglia, tutto il Salento, tutta Lecce ed ogni più piccola contrada di questa nostra terra, persino le pietre, e gli alberi, e il vento, parlano del grande meridionalista altamurano Tommaso Fiore. Di sua madre, invece, Maria Piccolo, c’è da dire che era una gallipolina forte e tenace come tutte le donne della città ionica. Tutta la vita, però, Vittore l’aveva vissuta in quel di Bari. Queste dunque le sue origini, gallipoline, per le quali Antonio Verri l’aveva definito «il barese più salentino ed europeo». Io avevo conosciuto Vittore alla fine degli anni ’60. Era stato suo padre, don Tommasino appunto, assieme al quale ero socio dell’Associazione Italia-Albania, a presentarmelo. Poi c’era stata di mezzo Gallipoli, la sua e la mia città, il suo mare, le sue formidabili donne, il suo profumo di abissi ancestrali, a rafforzare la nostra amicizia. Nel gennaio 1990, Vittore compiva 70 anni, e quella fu l’occasione buona per intervistarlo, per stargli vicino, per mangiare e “galoppare” assieme per l’intero Salento, muovendoci per tutto il giorno da Capo Palascìa a Punta Pizzo, dal  grande Faro del Capo di Leuca a Santa Maria di Cerrate.

Quel giorno dell’intervista Centomila parole, (cfr. «On Board», Lecce, novembre-dicembre 1990, pp. 1-3), con noi c’era pure Antonio L. Verri, che sembrava un bambino felice accanto al grande poeta civile che aveva dato e continuava a imprimere forti impronte alla cultura meridionale, pugliese e salentina. Chiesi a Vittore del suo rapporto col meridionalismo. «Io appartengo a un filone critico – rispose – che risale a Salvemini, alla svolta salveminiana. Quando i grandi personaggi, sia meridionalisti classici sia socialisti, come ad esempio Ciccotti, o come tanti altri socialisti dello stesso nord Italia, pensarono che una volta risolta la questione sociale, una volta andato al potere il proletariato, la questione meridionale si sarebbe automaticamente risolta. A questo discorso Gaetano Salvemini oppose ben altri strumenti di analisi e di azione contemporaneamente. Il punto di partenza per me è proprio il meridionalismo rivoluzionario di Salvemini, che uno studioso e storico ha definito essere uno dei grandi padri del meridionalismo rivoluzionario, la cui opera si è articolata attraverso altre grandi figure del passato come Antonio Gramsci, Guido Dorso e Tommaso Fiore… (e ancora) Manlio Rossi Doria…  ed altri».

Quel giorno Antonio L. Verri, al quale non interessava molto la politica, mi stimolò a sottoporgli delle domande sulla letteratura e la poesia, cosa che puntualmente feci.  «Io ho avuto e ho ancora molti amori […] rispose Vittore. Come strumento di analisi critica ho filtrato la poesia. Se dovessi dire i poeti che mi piacciono dovrei andare dai francesi agli spagnoli, ad alcuni 
poeti italiani come Montale, o come il pazzo di Marradi [Dino Campana], che mi piaceva molto. Però, non credo di avere ascendenze dirette. Ad esempio, nella sua recensione ad “Ero nato sui mari del tonno”, Sciascia scrisse su “Letteratura”, riferendosi a me, a Bodini e a Scotellaro, che noi avevamo sentito molto la lezione di Garcia Lorca. È un riferimento come un altro […] Bodini, Scotellaro ed io stesso abbiamo fatto un passo avanti rispetto alla solitudine eterna e senza nome di Montale. A parte i risultati, che sono giudicabili liberamente dalla critica, il grande tentativo è stato quello di dare storicità alle cose che facevamo. Noi soffriamo, la nostra angoscia è visibile, è reale, esistono questi fatti. E perché esiste questo paesaggio, questa storia? Come poi tutto ciò diventi trasfigurazione, diventi logos, diventi assoluto, diventi amore, e beh!, questo è un fatto che va approfondito. Secondo me questa caratteristica della nuova poesia va studiata dagli specialisti, dagli studiosi, dai critici letterari, altrimenti rimane sempre un po’ al di fuori. Ritornare a discutere di realismo, di neo-realismo, di ermetismo, di superamento dell’ermetismo, di ascendenze, secondo me sono tutte cose importanti. Bisogna solo capire che cosa ha significato la nuova poesia meridionale, che era sottoposta a tutte le difficoltà, a tutti i rischi di una poesia che in fondo era una poesia della libertà e del riscatto, che coinvolgeva altri uomini, che coinvolgeva i contadini, gli operai, però, salvandosi sempre dalla retorica, dal populismo e conservando intatte tutte le conquiste formali che non possono essere annegate nella poesia europea e italiana del Novecento».

E ancora sulla poesia e sul fare poetico, nella Prefazione alla raccolta poetica Segni del diluvio di Giovanni Bernardini (Lacaita, Manduria 1981), Vittore ci aveva avvisati: «Chi saprà decifrare il “male che è dentro di noi” (singoli e forze storiche progressiste) nel concreto dei nostri giorni, il male che è nella foresta, liberamente scoperto dai poeti, per meglio combatterlo, da soli e con gli altri, con partecipazione e distacco, con identificazione e “ambiguità”? / Non tocca ai poeti specificare il senso e la portata della crisi (parola che ormai dice poco), né progettare. Ma essi, quando hanno realmente qualcosa da dire, di fronte alle tragiche illusioni, a vecchie e nuove insufficienze storiche, ai compromessi, alle schizofrenie, alle impotenze, alle separatezze fra chi comanda e decide e chi soltanto parla, ai brutali scontri, agli egoismi e ai particolarismi, alla prepotenza e alla violenza, possono, in trasparenza o a gola aperta, ammonire ad andare oltre le parole d’ordine di unione sacra, di unità nazionale o europea, che mostrano tutta la loro sterilità, il loro ritualismo, finanche stucchevole, quando non muovano dall’analisi profonda e seria, dalle radici, di tutte le esperienze, positive e negative, che ci hanno portato a lacerazioni e immani pericoli cui pochi pensavano saremmo arrivati, nel nostro Paese e nel mondo». Noi (Salvatore Toma, Antonio L. Verri, io e il poeta della fotografia Fernando Bevilacqua) questo ammonimento di Vittore cercavamo di capirlo, di acquisirlo, di farlo nostro fin nel profondo. Per questo vivevamo la nostra vita con selvaggia spensieratezza, e in essa cercavamo di coinvolgere chi aveva la ventura (ma anche la sventura) di avvicinarci. Giravamo in tondo come delle trottole, come dei curli, diceva il buon Verri. E così accadde pure quel giorno dell’intervista Centomila parole, con Vittore che, nonostante il tremore alla mano, si dimostrò in piena forma. Non ci furono occasioni che si volle perdere. Anzi, là dove il Verri, a causa della sua “corea”, non riusciva ad arrivare, egli ci teneva a compiere lo sforzo dovuto. Volle così arrampicarsi fino al piano superiore del Faro di Capo d’Otranto, perché – diceva – di là si poteva vedere meglio l’Oriente. E a Badisco, volle superare la caletta del “guado” ed inseguirci lungo tutta la costa che circonda la Grotta dei Cervi per arrivare poi fino alle pendici di Torre sant’Emiliano, dove anche lui sapeva esserci stati gli antichi itachesi. A Giurdignano sostammo davanti al grande dolmen delle Quattro Macine e a san Mauro di Gallipoli (oggi però agro di Sannicola) si arrampicò fin sulla collina per guardare la città che mai aveva tradito e alla quale aveva dedicato i suoi versi più belli. Inevitabilmente però, alla fine dell’intera giornata di folli giravolte salentine, andavamo a finire a Parabita, nella casa di campagna di Franca Capoti e Aldo d’Antico, e qui, finalmente, Vittore sentiva come essere ritornato alla casa delle sue origini, all’affetto di veri amici. Aldo d’Antico ha ricordato tutto ciò in un commosso ricordo – Parabita nella vita e nella poesia di Vittore Fiore – dell’amico poeta sulla rivista «nuov’Alba» (cfr, il n. 1, anno II, Parabita, marzo 2002, pp. 14-15), in cui scrive: «Quando nel 1972, invitai Vittore Fiore a far parte della Giuria della 2^ edizione del Premio Salento, non avrei mai immaginato (né penso lo immaginasse lui) che fra Parabita e uno dei più rigorosi intellettuali e robusti poeti della cultura italiana contemporanea si sarebbe potuto stabilire un rapporto tanto duraturo dal punto di vista umano e proficuo sotto il profilo letterario. / Vittore venne a Parabita in un periodo della sua vita tutto dedito ai problemi del Mezzogiorno […] il ritorno al suo amato Salento […] la scoperta di Parabita, il fervore del nostro impegno civile, ma soprattutto l’incontro con ormai dimenticati affetti giovanili improvvisamente ritrovati proprio qui, fece prorompere in lui l’ansia della scrittura poetica […] L’incontro con Parabita è decisivo per la sua vita. Da allora ritroverà l’ispirazione poetica e scriverà versi straordinari, ormai pilastro della storia della letteratura italiana. Qui, incontrò [o rincontrò] Vallone, De Sanctis, Valli, Bonea, Cinanni, Compagna, Scardaccione, Mancino, Accrocca, Pisanò, Giannone, ritessendo una tela di rapporti tanto feconda per la produzione saggistica e letteraria. […] Le frequenti presenze fra noi lo riempivano di vitalità. Nel mio studio e nella mia casa intrattenne rapporti con Aldo De Jaco, Gilberto Cavicchioli, Raffaele De Grada, Martin Andrade, Luigi Scorrano, Maurizio Nocera, Antonio L. Verri, Antonio Errico, Aldo Bello, Gerardo Trisolino, Massimo Melillo e [….] Rina Durante, Fabio Grassi […] Fiore si sentiva a casa sua, si era affezionato tanto alla “mia Parabita” […] che ci sembrò doveroso proporre all’Amministrazione Comunale il conferimento della Cittadinanza onoraria. Nell’aprile 1994 Vittore divenne nostro concittadino».

Una volta, d’inverno, mi chiese di condurlo a Gallipoli. Lo feci e ricordo che, dal bavero rialzato del cappotto scuro, i suoi occhi si posarono su tutto, sulle case basse del centro storico, sui palazzi signorili, sulla biblioteca con i ritratti di Antonietta de Pace, Epaminonda Valentini, del garibaldino Francesco Valentini, e dell’umanista Emanuele Barba, sulla chiesa di san Francesco, sul faro muto e solitario sull’isola di sant’Andrea, sull’insegna della Lega dei Bottai, sulla casa dell’agronomo di fama mondiale Giovanni Presta, sul palazzo degli Starace. Sostò silenzioso per alcuni minuti su quella che era stata la dimora del grande e sfortunato pittore Giuseppe Forcignanò. Per due volte volle passare e sostare davanti al torrione dov’era ubicato, agli inizi del ‘900, il laboratorio di cartapesta di Agesilao Flora, nel luogo in cui suo padre, Tommaso,  venne iniziato all’impegno meridionalista e socialista. Ritornando a Lecce, guardai non visto Vittore, e solo allora mi accorsi di una patina di tristezza sul suo volto. Antonio L. Verri, che quel giorno dell’intervista parlò molto anche lui, mi chiese di chiedergli della poesia salentina. Vittore amava immensamente il Salento, lo viveva dentro, e in questo dentro c’era tanta poesia, quella dei suoi amici prediletti. «Se pensiamo a Bodini – disse con un volto più luminoso che mai – ci viene subito in mente “L’esperienza poetica” rivista, che ha rappresentato qualcosa di importante. Eppure, mi ha detto Oreste Macrì che il suo libro su Bodini è andato al macero. È una cosa colossale. Se prendiamo il “Corriere della sera” e leggiamo Raboni, vediamo che i poeti sono tanti, fra l’altro citati dall’alto di questo pulpito, e questo viene fatto senza neanche porsi il problema di verificare se c’è in Italia una critica letteraria, perché il nostro vero problema è questo, il vero dramma, se cioè una critica letteraria invece che porre serietà pone problemi sbagliati, fasulli […] I critici letterari sono distratti, dalla scena sono scomparsi i critici più attenti, più rispettosi dei testi. Faccio dei nomi, la lettura di De Robertis, la lettura di Pancrazi, non sopraffacevano gli autori, ma raccontavano cosa facevano questi cristi, sia narratori sia poeti. Solo dopo interveniva il loro giudizio critico. Adesso, invece, oltre alla sopraffazione c’è anche l’ermetismo dei recensori. Non si capisce cosa vogliono dire, usano linguaggi astrusi. Quindi non aprono le porte della poesia alla gente […] Per questo credo che oggi la battaglia della poesia finisca per essere una battaglia di libertà, di democrazia».

A queste parole Verri si emozionò a tal punto che volle offrirci un bicchiere di vino rosso, di quello che fa sollevare le felicità segrete di ogni uomo, e Vittore, che mai rifiutava un bicchiere di buon salentino, fu contento di brindare alla poesia e alla lotta per la risoluzione della questione meridionale e per la liberazione dell’Italia dal nazifascismo. Per questi due massimi impegni politico-culturali egli aveva speso non poche energie. Parafrasando la bella Nota biografica, curata da Franca Capoti e pubblicata alla pagine 57-59 del volume Qualcosa di nuovo intorno (Parabita 1993), c’è da dire che Vittore fu antifascista militante sin da giovanissimo come esponente di primo piano nel Movimento Giovanile Liberalsocialista di Bari; che nel 1942 fu arrestato e confinato prima a Camerino poi, come soldato dell’esercito, fu mandato a Galatone e Copertino. Arrestato nell’aprile 1943 e detenuto nelle carceri baresi, fu liberato il 28 luglio dello stesso anno; «quel giorno – scrive la Capoti – fu segnato dal tragico eccidio di via Nicolò dell’Arco quando le truppe badogliane, a seguito di un folle editto del generale Roatta, spararono sul corteo di giovani manifestanti che si recavano a liberare dal carcere i prigionieri politici, fra i quali Tommaso Fiore, Guido Calogero, Guido De Ruggero, Michele Cifarelli e una trentina di giovani. Tra le venti vittime antifasciste cadde Graziano, uno dei fratelli di Fiore, che l’anno prima, appena diciassettenne, era stato anche arrestato». Anche Vittore aveva appena varcato la soglia del carcere e, fra quei morti ammazzati, scoprì esserci suo fratello. Ma in casa Fiore altri membri della famiglia avevano subìto persecuzioni e carcere, primo fra tutti il padre, Tommaso, poi anche il fratello Vincenzo. Vittore fu dirigente e militante nel Partito d’Azione e nel Partito socialista italiano, ma fu soprattutto e sempre un meridionalista. Giovanissimo, fondò e diresse la rivista «Il Nuovo Risorgimento»; fu redattore del quotidiano barese «La Voce»; fondò e diresse «Delta», rivista della Cassa di Risparmio di Puglia; fu redattore e curatore della rivista «Civiltà degli Scambi», organo della Fiera del Levante e della Camera di Commercio di Bari. Qui, nel Salento, partecipò a non poche iniziative culturali assieme a Vittorio Bodini, Oreste Macrì, Rina Durante, Ennio Bonea, Enzo Panareo, Antonio L. Verri, Fabio Grassi, Aldo D’Antico, molti altri ancora. Intensa è stata la sua attività giornalistica (ha scritto per testate nazionali e pugliesi), e di poeta e scrittore. Alcuni dei suoi libri pubblicati: Strumenti della lotta meridionale (Lacaita, Manduria 1949); Chi lega i fili, a cura di Mario Dilio e Pasquale Satalino (Adriatica, Bari 1950); Dal cemento al cervello, quaderno n. 9 di «Delta», rivista da lui diretta dal 1982 al 1992; il poemetto Ero nato sui mari del tonno (Schwarz, Milano 1952); il poemetto Il male è dentro di noi (Mondadori, 1973);  il poemetto Qualcosa di nuovo intorno (Il Laboratorio, Parabita 1993) con la bella, suggestiva lettura critica di Luigi Scorrano; curò (con A. Vitelli) la raccolta degli scritti di Manlio Rossi Doria sulla Puglia (1994); e la ristampa anastatica de “Il Nuovo Risorgimento (1944-46)” (Palomar, Bari 1995); poi Tommaso Fiore e la Puglia (Palomar, Bari 1996); Io non avevo la tua fresca guancia. Poesie 1952-1996 (Palomar, Bari 1996); e Nicola a Copertino (I Quaderni del Bardo, Copertino 2003) con uno scritto introduttivo di Rina Durante e la Postfazione di Massimo Melillo, densa di inediti e annotazioni utili a chi oggi voglia continuare l’impegno per il riscatto del Mezzogiorno. Ha scritto: «”Tenete alta la bandiera della critica” era l’esortazione che Vittore rivolgeva a noi più giovani: una lezione e un’eredità che nel tempo diventa ancora più attuale e che conserviamo nella sua interezza, soprattutto oggi, quando più incerto si fa l’orizzonte di questa nostra Italia. Vittore non si è mai risparmiato, non ha mai rinunziato, pur nelle avversità della vita, a mantenere generosamente vivo un patrimonio culturale e politico da consegnare alle nuove generazioni: “I giovani del Sud […] da soli non ce la fanno. Ai partiti il compito dell’unificazione politica su basi di riequilibrio tra Nord e Sud. Qui la sinistra si gioca il suo avvenire e lo giocano i sindacati sul terreno della vera alternativa: politiche sociali, distribuzione del reddito. Non servono gli appelli moralistici ai giovani del Sud. Che rompano i giochi, attraverso una severa milizia politica, e si gettino nella mischia, sapendo che oggi la battaglia è più difficile di ieri, che sono cambiati, anche socialmente, i dati della questione meridionale, che è necessaria una più agguerrita progettualità». Il 21 febbraio 1999, Vittore morì di vecchiaia a Capurso, nei pressi di Bari.Aveva 79 anni appena compiuti.Tuttisanno che era stato meridionalista coerente e conseguente e che dentro al cuore custodiva fieramente il crogiuolo delle grandi tradizioni risorgimentali e socialiste della storia di Puglia, per molti versi la stessa storia dell’intero Mezzogiorno d’Italia. La poetessa Anna Santoliquido, di Bari, presidente del movimento “Donne e poesia” e segretaria regionale del Sindacato Nazionale Scrittori, sul giornale «Produzione e Cultura» (cfr. n. 1/3, gennaio/giugno 1999, p. 7), lo ricordò con queste parole: «Vittore svolgeva un’intensa attività che non gli impediva di coltivare le amicizie e di frequentare i cenacoli di poesia. Sapeva unificare gli interessi, dandoci lezioni di umiltà e di fermezza. L’esperienza acquisita, anche come manager, si combinava con l’animo di fanciullo sempre pronto a stupirsi e a sperare. Era, dunque, uno dei rari esempi di intellettuale organico e disorganico, radicato alla sua terra e sempre alla ricerca dei più vasti orizzonti. Nei componimenti spaziava dall’impegno civile all’amore, esaltando la bellezza del Salento e del sud, la ricchezza della Magna Grecia, il fascino delle donne mediterranee, la forza del riformismo che passa anche attraverso uomini come Giuseppe Di Vittorio, Guido Dorso, Benedetto Croce, che a ragione sono entrati nella scrittura di chi era fiero di essere nato “sui mari del tonno”».

Sul tema della morte, nell’intervista del 1990, posi a Vittore l’ultima domanda. Mi rispose: «Vedo una mia vecchiaia difficile e terribile. Vedo una vecchiaia piena di angosce. Spero solo che le difficoltà che ho superato finora siano sufficienti a darmi la forza di superare quelle successive. Sarà la vecchiaia nel senso fisico, i problemi che si pongono in questi anni sono per me problemi nuovi, che dovranno essere affrontati con una forza cento volte superiore a quella impiegata finora. Il problema del recupero dei sentimenti, i problemi stessi delle rampate amorose. In una poesia di alcuni anni fa ho scritto: “prima che si abbatta l’ala del desiderio”, volendo dire con ciò cosa significa diventare vecchi e cosa significa quando ci si sente meno forti, meno agguerriti rispetto a quei problemi che sono ora divenuti più difficili del passato. Quindi, il non sentire a disposizione per questo tipo di nuova lotta le forze che una volta, invece, con la giovinezza, c’erano, pone dei nuovi problemi. Nell’antichità essi hanno avuto anche i loro cantori, per me, invece, spero che mi sia concesso di avere la forza di riuscire ad analizzare ancora i sentimenti, senza nasconderli con un velo di pietà».

Ma ora è bene andare alla conclusione di questo ricordo. E mi piace farlo con gli stessi versi del buon Vittore, tratti da “Ero nato sui mari del tonno” e dedicati alla nostra e sua terra: «Salento estremo // Venivano al nostro fresco mare, a Leuca, / fedeli avventure, / ecco sui dorsi dell’onda / c’erano secoli alla deriva, / uomini secoli per cercare / meridiane paure / e sulla costa abbandonata / fiato e fiato d’altri cieli, / d’altre case marine, / navi precoci di morte, / di silenzi. Di mare in mare / uomini prima di noi / costruirono una casa, una tomba, / nei secoli anche, / come sonno dalle paludi, / le distrussero, / più nessuno sa quanti anni / dietro di noi, / quando già molti destini / erano emersi dagli scogli. / Uniamoci contro la morte, amici, / lo dicono non uno, ma mille anni / nel vasto mare di Leuca. / Per sempre l’avrei taciuto / se da secoli intorno / non avessero invocato le notti. / I cespugli, le case fanno questo, / fanno freddo nel cuore / se pietre e pietre / reggono l’aria calda del Salento. / Anche le lapidi sono entrate, / erano forse storie necessarie, / come una giovinezza sfiorita / laggiù dentro di noi / ai cieli dei paesi senza gridi / presso case cretose, / quando ognuno in estate / da anni ed anni / ha un sole negli occhi, / s’affila una pianura. / Uniamoci, amici, ogni giorno / crepita una nuova tomba, / i morti riposavano sul cuore / compresi i vivi / attraverso una sola terra ormai. / Chi l’aveva detto? / Dove ogni rupe è sola, / dove ogni albero è duro silenzio, / ogni uomo fuga sulla labbra, / uniamoci, amici, è Leuca, / in un deserto d’erica, quell’aria».Versi bellissimi, e magici, che scavano nel profondo. E tanto. Con Rina Durante, che fu amica e sodale di Vittore, da sempre ci chiedevamo quale fosse il fascino misterioso della sua poesia. Poi, un bel giorno, in occasione della pubblicazione della plaquette Nicola a Copertino, edito dai Quaderni del Bardo, Maurizio Leo chiese a lei la Prefazione. E così che Rina riuscì a darci un’utile interpretazione. Ha scritto: «Ho sempre pensato che il segreto di Fiore, della sua esistenza come della sua poesia, fosse appunto questa sua capacità di vedere le cose in sé, liberate dagli orpelli, da tutto ciò che le definisce in senso positivo o negativo; il non aver bisogno di connessioni che in qualche modo le connotino, senza per questo perdere l’attitudine di coglierne la valenza poetica più genuina. Solo Vittore è riuscito a stabilire con le cose, anche le più banali, un rapporto emozionale profondo (“Bisognerà leggere un bilancio comunale come una poesia”, disse una volta). Da questo sono nati gli straordinari poemetti dell’ultima fase, dove gli bastava fare i nomi dei luoghi o delle persone, perché il risultato fosse di grande suggestione poetica».

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