di Rosario Coluccia
I pronomi personali hanno un ruolo fondamentale nella codifica delle relazioni sociali che si instaurano tra i partecipanti all’evento comunicativo. Gli usi allocutivi di essi (ne abbiamo visto un esempio in Carducci, la scorsa settimana) sono finalizzati a rivolgersi a qualcuno, a interloquire con lui e a richiamare la sua attenzione; forniscono informazioni sullo status di parlante, ascoltatore e persona (/ entità) di cui si parla, sulla gerarchia esistente tra di loro, ecc. In italiano esistono oggi tre forme principali di pronomi allocutivi: “tu”, “voi”, “lei”. Chi prende la parola in uno scambio conversazionale si rivolge all’interlocutore con “tu” se è in rapporti familiari, paritari e amichevoli; con “lei” se è in rapporti formali, di estraneità o in caso di grande distanza d’età. Il “voi” va considerato a parte, ne vedremo dopo la ragione. E non consideriamo, per il momento, allocutivi ancor meno diffusi.
Così dettano le regole. Ma, nel concreto, le cose vanno diversamente. In un negozio di abbigliamento ho assistito a questa scena. Entra una signora sui cinquant’anni, fa una richiesta del tipo «Mi può dire dove sono le giacche…», la commessa molto giovane risponde con un sorriso, si rivolge alla cliente sconosciuta con il “tu”. Mi pare di notare una certa perplessità sul volto della signora ma prontamente si adegua, passa anche lei al “tu”, la conversazione tra le due prosegue in tranquillità. Alcuni anni fa su «Repubblica» Umberto Eco raccontò che in un emporio una sedicenne ingenuotta (ma non aggressiva) si era rivolta a lui (quasi ottantenne e con la barba bianca) familiarmente con il “tu”. Eco capiva bene che la ragazza non intendeva insultarlo, semplicemente trasferiva nella conversazione i modelli televisivi a cui era abituata, senza rendersi conto che la lingua possiede anche altre forme, che bisogna saper scegliere e variare a seconda dei momenti. Eco considerava il comportamento della ragazza un sintomo della perdita di memoria che caratterizza la società contemporanea: viviamo appiattiti in un eterno presente che per molti ha un solo tono, dimenticando l’importanza della variazione che il passato ci consegna. Ma forse, più semplicemente, la ragazza conosceva solo quel pronome, sapeva usare solo quello. La lingua cambia nel tempo. Il sistema dei pronomi allocutivi è cambiato più volte, dal Medioevo ai nostri giorni. Oggi, nella pratica, la scelta più frequente è limitata al “tu” e al “lei”, mentre il “voi”, riferito a un singolo individuo, si usa solo in condizioni particolari (vedremo quali). La scelta del pronome allocutivo è determinata dal contesto (formale o informale) in cui si realizza il dialogo e dal tipo di relazione esistente tra parlante e ascoltatore. La scelta deve essere coerente con i saluti, i titoli, il tono della voce e con i comportamenti non-verbali.
Il “tu” reciproco indica familiarità, il “lei” reciproco indica distanza. Quando questo avviene secondo modalità corrette gli interlocutori si collocano su un piano di parità e, di conseguenza, adottano reciprocamente lo stesso pronome. Ma esistono anche rapporti asimmetrici, nella lingua e nella società. Se uno dei due interlocutori è in posizione di maggior potere spesso si ha un rapporto asimmetrico: l’uso di “tu” da parte del superiore (o ritenuto tale) e di “lei” da parte dell’inferiore (o ritenuto tale). A volte il rapporto asimmetrico è ampiamente ammesso nella pratica. A scuola, alle elementari e alle medie, quando gli studenti sono molto giovani, il professore dà del “tu” agli alunni ma questi si rivolgono al professore con il “lei”; all’università, con studenti di vent’anni e oltre, il rapporto asimmetrico non sarebbe consentito, dovrebbe essere normale il “lei” reciproco (talora non è così, per varie ragioni, ma parlarne sarebbe un altro discorso).
In un’Italia che fatica a colmare le distanze sociali, economiche, politiche, culturali e linguistiche, in certi casi il “tu” appare a volte la scorciatoia per connettere le classi e i singoli individui. E invece no. In un’ideale grammatica immorale della lingua italiana metterei ai primi posti la predominanza invasiva ed egemone del “tu” nelle più disparate situazioni comunicative. Il suo uso continuato, in tutte le circostanze, cela una finta familiarità che nel concreto rischia di assumere valori opposti. Dovrebbe indicare familiarità e invece, paradossalmente, può esprimere subordinazione anche in chi lo usa. Il “tu”, usatissimo dagli extra-comunitari arrivati da noi e rivolto indistintamente verso chiunque, ricorda il terribile «zì, badrone» (con il “tu”, appunto) che ascoltiamo nelle pessime traduzioni italiane di certi film americani sulla schiavitù. Un corretto uso dell’alternanza “tu” ~ “lei” va ripristinato nei parlanti italiani. Ma va insegnato, oltre che agli italiani, anche a chi arriva in Italia, recuperando una variazione formale che dà dignità a chiunque la pratichi, emittente e ricevente. Il “tu” è figlio di una spinta egualitaria senza uguaglianza (ha detto una volta De Mauro). I migranti imparano tante cose, possono imparare benissimo anche il “lei”. Che conviene a tutti e non contiene ipocrisie. Dare del “tu”, dall’alto in basso o in maniera fintamente orizzontale, a coloro che vengono a vivere da noi è inaccettabile. Va dato loro del “lei”. E loro vanno abituati a dare del “lei” perché così si dovrebbe fare, nella lingua italiana, tra persone che non si conoscono. La demagogia del “tu” non è irrefrenabile. Adottiamo il modo di parlare non ipocrita che si incarica, attraverso l’uso paritario e variabile dei pronomi, di indicare solo legittime e obiettive distanze di ruolo tra persone diverse.
Non ho dimenticato il “voi”, oggi in regresso. Il regime fascista aveva giudicato il “lei” capitalista e plutocratico e aveva imposto il “voi”, sembrava più virile e bellicoso. Ma questo di fatto corrispondeva all’inglese “You” e al francese “Vous”, le lingue dei paesi ritenuti nemici; mentre il “lei” veniva dalla Spagna, in quegli anni politicamente vicina. A volte i risultati furono buffi. Si arrivò a sostituire il titolo delle rivista femminile Lei con un nuovo nome, Annabella. Ma Lei di quel titolo non era pronome personale di cortesia, indicava che la rivista era dedicata alle donne e non agli uomini, a Lei e non a Lui.
Dal punto di vista geografico, l’uso degli allocutivi è molto variegato. Nell’italiano di livello medio-basso di un’ampia area dell’Italia centrale (Marche, Umbria, Lazio, Abruzzo), soprattutto nel contado, si usa quasi soltanto il “tu”. Il “voi” resiste nel Meridione, in molti dialetti dell’Italia del sud, senza collegamenti espliciti con la politica linguistica del periodo fascista. Viene sentito come una forma di rispetto. Capita, seppur raramente, che uno studente chieda: «Professore, mi dite a che ora cominciano gli esami?». A Napoli sono ancora frequenti domande del tipo: «Vi piace questa camicia? La volete comprare?». Specie nelle realtà rurali è ancora abbastanza diffuso l’uso del “voi” (spesso “vui”) quando ci si rivolge a genitori, persone anziane o di grande importanza e superiorità morale.
Non si tratta di restare ancorati al passato, riproponendo le forme della comunicazione di un tempo. La forma allocutiva “ella” è di scarsa frequenza, salvo che in circostanze solenni: «Prego che ella voglia ascoltarmi, Signor Presidente…» (a volte con l’iniziale maiuscola, per sottolineare deferenza e rispetto: «Prego che Ella voglia ascoltarmi, Signor Presidente…»). Nella seconda stesura del romanzo Manzoni scrive: «Ella sa che noi altre monache siamo vaghe di intendere le storie per minuto»; ma in quella definitiva le parole della monaca di Monza diventano meno formali: «Lei sa che noi altre monache, ci piace di sentir le storie per minuto (I Promessi Sposi IX)». Così parla la monaca di Monza in quello che, per il costrutto irrelato («noi altre monache, ci piace di sentir le storie»), qualcuno ha definito il più bell’anacoluto della nostra storia linguistica e letteraria.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di Domenica 10 settembre 2018]