di Antonio Errico
Abbiamo tutti paura. Abbiamo tutti una paura stravolgente. Al principio della sua Ultima lezione, Zigmunt Bauman si domanda per quale motivo oggi siamo tutti così inquieti, perché si fanno così tante oscure premonizioni su quello che ci aspetta, tanto che a volte non riusciamo neppure a mettere bene a fuoco la questione nei termini di fine del mondo ma la percepiamo come qualcosa di completamente nuovo e sconosciuto e, pertanto, minaccioso. Perché viviamo questa condizione in questa fase della nostra storia, si domanda. Anche quando ci divertiamo, da qualche parte del profondo avvertiamo ansia. Non ci sentiamo sicuri di riuscire a controllare le nostre vite, di averne la capacità, l’abilità, le risorse. Non riusciamo a dare alle nostre vite la forma che vorremmo, dice. Siamo spaventati perché viviamo una condizione di costante incertezza, con la sensazione di non poter prevedere come sarà il mondo quando ci sveglieremo la mattina seguente. Il mondo ci coglie sempre di sorpresa, impreparati per il futuro.
Bauman fa alcuni esempi come possibili risposte. Ma con molta probabilità, ciascuno ha una propria risposta che è determinata da una molteplicità di fattori, soggettivi, intersoggettivi, economici, sociali, culturali, psicologici, sentimentali: relativi al sentimento che si ha nei confronti delle creature che abitano il mondo, delle storie che lo attraversano, dei fenomeni che lo coinvolgono, delle cose di cui si compone, delle condizioni in cui si ritrova.
Ecco. Forse una delle possibili risposte può essere questa. Semplicissima. Può essere il mondo.
Il tempo che viviamo ci ha fatto carico del mondo. Ne abbiamo assunto la responsabilità. Fino ad un certo punto, ciascuno si faceva carico di quello che riguardava la propria casa, il proprio piccolo paese, poi la nazione. In qualche maniera riusciva a governare o supponeva che insieme, tutti, si potesse riuscire a governare gli avvenimenti, a indirizzarli verso un orizzonte chiaro o di schiarita. In qualche maniera aveva conoscenza e a volte anche esperienza di quello con cui si confrontava. Da un certo punto in poi si è ritrovato la soma dei destini del mondo sulle spalle. E’ accaduto quando l’informazione è diventata dilagante. Quando i canali da cui provengono le notizie si sono moltiplicati a dismisura, in modo anche incontrollato.
Siamo inquieti, dice Bauman; siamo spaventati. Forse perché il livello che ha raggiunto l’informazione non ci dà il tempo e la possibilità di stabilire con i fatti una relazione razionale.
Uno sfoglia rapidamente i giornali il mattino presto e si ritrova a scegliere fra due condizioni: l’indifferenza o la partecipazione a quello che accade nel mondo.
A volte uno prova a restare indifferente, ma dopo qualche istante si vergogna. Allora partecipa. La partecipazione provoca inquietudine, paura. Il mondo è troppo grande e lui è troppo piccolo; non può portarselo addosso. L’informazione globale ha annullato le dimensioni del lontano e del vicino. E’ tutto inevitabilmente vicino, sovrastante, incombente.
Per tutto il giorno le notizie arrivano da ogni parte. Poi a sera uno riprende i giornali e guarda la tv. Dallo schermo il mondo si rovescia dentro casa. Frammenti di mondo. Si cerca di ricomporli in una forma. Ma molti di quei frammenti appartengono a realtà estranee, sconosciute, che non si possono decodificare, interpretare.
Così l’incognito, l’impossibilità di decifrare e interpretare, alza il livello dell’inquietudine, dell’ansia, della paura.
Spesso ci si domanda se sia meglio sapere di più ed avere più paura oppure sapere di meno ed avere meno paura.
Anche in questo caso le risposte non possono essere che soggettive; anche in questo caso, razionali e sentimentali, allo stesso tempo; oppure sentimentalmente razionali. Per esempio: quando si sceglie di non restare indifferente, quando si sceglie di partecipare, la decisione si può definire sentimentalmente razionale.
Ma probabilmente è meglio sapere di più anche se la conoscenza provoca più paura. Essere nel proprio tempo, significa anche mettere in conto di poter avere paura del tempo.
D’altra parte, forse non c’è mai stato un tempo in cui l’uomo non abbia avuto paura. Certamente per cause diverse, per motivi diversi. Ma un tempo senza paura non è mai esistito, anche se è vero che il tempo che viviamo è quello di una paura globale e di ogni sorta. Sappiamo che i nostri destini hanno fili annodati con quelli di genti lontane. Sappiamo che quello che accade a migliaia di chilometri di distanza, in altri continenti, ci riguarda direttamente e condiziona le nostre esistente. Il villaggio è globale anche per questo; forse soprattutto per questo: per la paura che lo attraversa e che accomuna tutti coloro che lo abitano, più di quanto possa farlo ogni cultura e ogni altra condizione.
Se sapessimo di meno avremmo meno paura, dunque. Ma avere meno paura ci costerebbe, inevitabilmente, una sorta di separazione dal mondo. Se volessimo ammettere che questo possa accadere, dovremmo anche accettare l’inappartenenza e la marginalità come conseguenze della separazione. Ma a quel punto si frantumerebbe il senso dell’esistere in un tempo e in un mondo che è fatto in un modo e non in un altro. Significherebbe fare la scelta di Paperino che nel suo giardino si costruisce l’habitat per una vacanza. Dipinto. Falso. Illusorio.
Certo, si può anche smettere di leggere i giornali, di accendere il televisore, si possono ostruire tutti i canali dai quali arriva l’informazione. Si può fare. Così si sa di meno, si ha meno paura. Ma non saprei dire se una tale condizione non comporterebbe in qualche maniera una paura inconscia e maggiore determinata dalla consapevolezza di aver scelto di non sapere, mentre tutto intorno continua ad accadere senza che si abbia la possibilità di intervenire o almeno di riflettere.
Ma poi. Non sapere significherebbe rinunciare tanto alla bruttezza del mondo quanto alla sua bellezza. Perché il mondo ha una bellezza così smagliante che sarebbe davvero un peccato doverci rinunciare.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, Domenica 9 settembre 2018]