di Adele Errico
“L’uomo mortale, Leucò, non ha che questo d’immortale. Il ricordo che porta e il ricordo che lascia”, confida Circe a Leucotea in “Dialoghi con Leucò”, pensando al destino degli uomini che, da creature mortali, vivono pienamente ogni singolo istante, consapevoli che mai più si potrà ripetere. Così Cesare Pavese definisce il senso dell’essere al mondo, unico senso al quale un mortale può aspirare durante il proprio passaggio brusco e immediato sulla terra, continuamente teso verso un’immortalità che si può raggiungere solo entrando a far parte della dimensione memoriale. Quale ricordo, dunque, ha lasciato quest’uomo mortale?
Sono trascorsi 110 anni dal 9 settembre del 1908, giorno in cui Cesare Pavese nacque a Santo Stefano Belbo, in Piemonte, paese di origine del padre Eugenio che, cancelliere al tribunale di Torino, dal paese si era trasferito nel capoluogo insieme alla madre di Cesare, Fiorentina Mesturini, figlia di una ricca famiglia di commercianti. Il piccolo paese delle Langhe piemontesi era per Pavese il luogo delle vacanze estive, un luogo dell’anima che custodisce l’universo infantile dell’autore e che si innalza a luogo letterario in quanto ambientazione delle vicende dell’ultimo romanzo, “La luna e i falò”, del 1950. Questo romanzo diventa opera di addio al paese d’origine e tutto quello che, nel corso della narrazione, prende vita tra le “quattro baracche e un gran fango” del Belbo, altro non è che una dedica d’amore a questo luogo, sentimento che Saba avrebbe definito “amore doloroso”, l’amore di un Odisseo che, fuggendo le onde, insegue la sua Itaca. Il paese dell’origine è sinonimo di identità. Avere un paese al quale tornare dopo una lunga assenza vuol dire restituirsi alle radici, “vuol dire”, come realizza Anguilla, protagonista del romanzo, “non essere mai soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo che anche quando non ci sei resta ad aspettarti”. E per Pavese nessuna città avrebbe rubato la dolcezza del suono di quel nome: ambizioso com’era, voleva girare il mondo per poi fermarsi e pronunciare quel suono alle orecchie degli estranei e dire “Ebbene, io vengo di là”.
Perché leggere Pavese oggi? Perché Pavese, come una luce che scava nel buio, raggiunge le sensazioni umane più segrete, quelle primordiali, quelle intime, collega il passato al presente, la realtà al mito. “La luna e i falò” è il romanzo dell’infanzia e della maturità, dell’illusione e della delusione: cos’è un falò per Anguilla? E’ il bagliore delle feste contadine che viveva da bambino o il corpo di Santa a cui Nuto dà fuoco perché non venga scovato dai nemici? E’ il romanzo di una dimensione primitiva e mitica di cui la luna diventa simbolo, luna che da lassù guarda compiersi i destini dei personaggi, che delimita il confine tra cielo e terra, che scandisce l’alternarsi delle stagioni e con esso il ritmo del romanzo.
Pavese è attuale perché attuale è la dimensione mitica che vuole rappresentare, perché è il mito stesso a collocarsi perfettamente nella modernità. Il mito trova nella poetica pavesiana un luogo di approdo da tutta la tradizione classica e, al tempo stesso, un luogo di partenza per essere letto e interpretato dalla critica novecentesca.
Pensiamo ai “Dialoghi con Leucò”: Pavese prende quello che di più antico vi è al mondo e lo rende tanto moderno da farlo risultare indispensabile. Leggere il mito aiuta ad alimentare il lato irrazionale e primordiale presente in ogni uomo, mette l’uomo moderno di fronte alla propria dimensione esistenziale e profonda. Pavese riscrive il mito antico e lo fa con la consapevolezza e la sensibilità dell’uomo moderno che ha bisogno di riscoprire la propria passione, la propria irrazionalità. Come scrive ne “Il mestiere di vivere”, “La tua modernità sta tutta nel senso dell’irrazionale”; l’irrazionale è passione che dona unicità alle cose e la passione è arte, è esplorazione del primordiale e del primitivo. Pavese è la chiave di lettura della classicità nella modernità, ci insegna a leggere il mito con gli occhi dell’uomo contemporaneo e ci riesce attraverso un linguaggio preciso e al tempo stesso personale, linguaggio che, ad esempio, nel bellissimo dialogo “Le streghe”, ripercorre il celebre mito di Circe e di Odisseo. Servendosi di metafore e figure retoriche, Circe descrive l’amore occasionale e caduco che ha offerto ad Odisseo e il linguaggio pavesiano svela con naturalezza i sentimenti di entrambi i protagonisti, di una Circe malinconica perché sa che non riuscirà ad ottenere l’amore di Odisseo e di un Odisseo nostalgico che desidera tornare da Penelope.
Ed è sempre Odisseo nei “Dialoghi” a discorrere con l’affascinante ninfa Calipso di immortalità. Odisseo sogna la vita immortale, supponendo che immortale sia chi non teme la morte. Ma Calipso lo ammonisce: “immortale è chi accetta l’istante”. Ma questo punto minuscolo nell’universo, qual è l’uomo, ha solo un modo per sfuggire all’oblio della memoria, ovvero lasciare un ricordo di sé a chi verrà dopo. Forse era a questo che Pavese pensava un attimo prima di suicidarsi, il 27 agosto del 1950, in una camera dell’albergo “Roma” di Piazza Carlo Felice, a Torino, mentre appuntava su un foglietto la citazione tratta dal dialogo tra Circe e Leucò. Il 1950 è l’anno del Premio strega per “La bella estate”, l’anno dell’ultimo romanzo e l’anno della morte. Come quegli eroi tragici del mito che Pavese vuole raccontare, sceglie il suicidio, tormentato da un disagio esistenziale, sofferente d’amore per l’attrice Constance Dowling, alla quale dedica la poesia “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi”. Alla sua morte fu ritrovato il diario, pubblicato nel 1952 con il titolo “Il mestiere di vivere”, attribuitogli dallo stesso autore. Le ultime parole scritte, lapidarie, gelide: “Non parole. Un gesto. Non scriverò più.” Oggi avrebbe compiuto 110 anni. Pavese, l’uomo, è riuscito ad ottenere la sola immortalità che un mortale può ottenere: “il ricordo che porta e il ricordo che lascia”.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, domenica 9 settembre 2018]