di Guglielmo Forges Davanzati
Sgombriamo il campo da un luogo comune. Le Università del Nord non sono migliori di quelle meridionali.
L’ultimo rapporto SVIMEZ restituisce la fotografia di un’economia del Mezzogiorno in caduta libera. Pressoché tutti gli indicatori macroeconomici (tasso di crescita, occupazione, saldo demografico e migrazioni) assumono valori negativi, segnalando un sentiero recessivo che dura ormai da oltre un decennio con continua crescita dei divari regionali. Ciò che maggiormente desta preoccupazione è l’inarrestabile emorragia di giovani istruiti che vanno via, senza flussi di rientro, e di giovani che scelgono di studiare in sedi del Nord o all’estero, anche in questo caso senza flussi di rientro.
Nell’anno accademico 2016-2017, a fronte dei 685mila meridionali iscritti all’Università, il 25.6% (pari a 175mila unità) studia in un Ateneo del Centro-Nord. La quota di residenti al Centro-Nord che studia nel Mezzogiorno è solo dell’1.9%, pari a 18mila studenti. Il saldo migratorio netto è di circa 157.000 unità, ed è in continuo aumento. Gli studenti emigrati per motivi di studio costituiscono lo 0.7% circa della popolazione meridionale residente.
Sgombriamo il campo da un luogo comune. Le Università del Nord non sono migliori di quelle meridionali. Probabilmente lo sono nella percezione delle famiglie meridionali e lo sono quasi sempre nelle classifiche pubblicate periodicamente. Sgombriamo il campo allora da un altro equivoco: quelle classifiche – che pure contribuiscono a orientare le scelte di immatricolazione – hanno ben poco di scientifico. Molto spesso sono costruite su indicatori che fanno risultare ciò che i committenti vogliono far risultare. Alcuni esempi. La prima graduatoria delle università mondiali fu prodotta nel 2003 ed è nota come la classifica di Shangai. Lì, tra i vari criteri, si pesano le Università sulla base del numero di Premi Nobel ricevuti dai docenti e dagli ex alunni, nonché le medaglie Fields per i ricercatori di matematica. Curiosamente non si prendono in considerazione i Premi Nobel per la letteratura. La classifica c.d. QS si basa per ben il 50% su variabili reputazionali: per esempio, in modo autoreferenziale, si chiede ai professori di indicare, a loro avviso, quali sono le Università che, nel loro ambito disciplinare, considerano più prestigiose. Da sola questa voce pesa per il 40% nella classifica, a cui va aggiunto un 10% legato al sondaggio presso i datori di lavoro. La classifica QS è nota, fra gli addetti ai lavori, per presentare risultati estremamente volatili: p.e. fra il 2014 e il 2015 – in un solo anno – l’Università di Siena ha perso ben 221 posizioni. Ciò non aveva a che fare con l’effettiva qualità dell’ateneo: erano semplicemente cambiate le formule usate per normalizzare gli indicatori. Inutile dire che perdite o guadagni sensibili sono sempre sospetti perché il posizionamento di una istituzione dovrebbe rimanere relativamente stabile negli anni.
Le metodologie utilizzate, inoltre, ignorano del tutto i punti di partenza, la storia delle sedi universitarie e il loro patrimonio. E’ sufficiente considerare che le sole Università di Harvard e Yale, negli Stati Uniti, hanno spese operative pari a circa il 75% del Fondo di finanziamento ordinario di tutte le Università pubbliche italiane, per dar conto della scarsissima attendibilità dei “ranking”.
La scelta di immatricolarsi in sedi del Nord può avere molteplici motivazioni, ma è ragionevole pensare che due pesino in modo più rilevante delle altre:
- La convinzione che ciò che si fa al Nord è più efficiente di ciò che si fa al Sud. Si tratta di un bias culturale che non trova alcun fondamento oggettivo (quantomeno non lo trova nel caso delle Università, sebbene lo trovi nelle classifiche) e che segnala un serio problema di auto rappresentazione dei meridionali.
- La convinzione che studiare al Nord sia una necessaria precondizione per trovare occupazione migliore (rispetto al Sud) e trovarla più rapidamente.
La seconda motivazione – che appare molto ragionevole – segnala tuttavia un problema. Nello scegliere dove studiare sembra che le famiglie meridionali si orientino verso qualcosa che somiglia più a un centro per l’impiego che a un luogo nel quale si produce e si trasmette cultura e conoscenza scientifica. Il meccanismo è perverso e si autoalimenta. In un contesto di concorrenza fra sedi universitarie e di continuo definanziamento, l’obiettivo di ogni Ateneo è attrarre studenti. Le classifiche – ancorché prive di senso – orientano in modo rilevante la ripartizione dei fondi e, per conseguenza, contribuiscono in modo rilevante alla perdita di fondi e di reputazione delle sedi meridionali. La fuga di giovani verso il Nord viene così accentuata. L’aumento degli iscritti nelle sedi settentrionali consente a queste ultime di ricevere, in termini relativi, maggiori finanziamenti (che vanno ad aggiungersi ai finanziamenti che riescono a reperire da privati – cosa pressoché impossibile al Sud).
Non stupisce, in questo scenario, il fatto che a più riprese alcuni docenti universitari del Nord consulenti dell’agenzia nazionale di valutazione della ricerca chiedano la chiusura di sedi meridionali o un loro significativo ridimensionamento. Lo fanno avvalendosi di indicatori – spesso costruiti ad hoc – che mostrano che le Università del Sud sono meno attrattive di quelle del Nord e che sono quelle nelle quali la qualità della docenza, della ricerca scientifica e dei servizi agli studenti è peggiore. È falso e gli addetti ai lavori lo sanno. Ma in un gioco a somma zero dove la competizione fra Atenei crea vincitori e vinti ogni strumento utile per acquisire risorse (e dunque per sottrarle ad altri) è ammesso. Molto spesso, o quasi sempre, a danno del Mezzogiorno e delle famiglie meridionali costrette a sostenere spese ingenti per iscrivere i loro figli in Università che di fatto non sono migliori di quelle sotto casa, ma che tali risultano per l’arbitraria selezione degli indicatori che dovrebbero certificare la reputazione di una sede universitaria.