di Antonio Lucio Giannone
Proseguendo nella serie dei ‘bilanci di fine secolo’, dopo il volumetto di Cesare Segre dedicato alla letteratura italiana del Novecento, ecco ora il “libello” di Pier Vincenzo Mengaldo che fa il punto sulla critica letteraria degli ultimi cento anni (Profili di critici del Novecento, Torino, Bollati Boringhieri, 1998). In particolare, qui l’autore prende in esame la cosiddetta critica “militante”, quella cioè che si occupa di contemporanei oppure anche di scrittori del passato ma sempre con “animo ‘militante’, non accademico (e magari anche ‘non sistematico’)”, insomma la critica più direttamente coinvolta nelle vicende letterarie del nostro tempo.
Non si tratta però, è bene chiarire subito, né di un panorama né tanto meno di una storia della critica novecentesca, ma piuttosto di una galleria di sedici ritratti, i quali servono a illuminare anche, di riflesso, la personalità stessa dell’autore, uno storico della lingua italiana che è anche uno dei più autorevoli studiosi della poesia e della prosa con temporanea. Ciononostante questo libro, per la novità delle proposte storiografiche, che sottendono certe scelte, e l’originalità dell’impostazione metodologica, è destinato a diventare un punto fermo sull’argomento, come è accaduto già con un’altra opera di Mengaldo, l’antologia Poeti italiani del Novecento (1978), che costituisce, ancora oggi uno strumento indispensabile per la conoscenza della poesia di questo secolo.
Quali sono allora i critici scelti dall’autore, dei quali egli riesce a delineare la fisionomia in poche ma incisive pagine per ciascuno? Eccoli, i “magnifici sedici” (come sono stati definiti un po’ enfaticamente dalla stampa) che, come lo stesso Mengaldo dichiara, corrispondono grosso modo, almeno per i primi due gruppi, al suo personale “canone”: Croce, Borgese, Montale, Solmi, Debenedetti, Contini; Fortini, Cases, Zanzotto, Pasolini, Calvino; Segre, Garboli, Baldacci, Raboni, Magris.
Già da questo semplice elenco di nomi emergono alcuni dati significativi, sui quali è opportuno soffermarsi. Innanzitutto c’è da notare la presenza piuttosto rilevante di critici-scrittori, non apprezzati però da Mengaldo in quanto tali, ma proprio come critici tout court. In secondo luogo, la scomparsa, quasi totale, dei due filoni che hanno dominato la critica italiana per buona parte del Novecento: la critica crociana, qui rappresentata soltanto, anche se al massimo livello, dal suo capostipite e la critica marxista, egemone negli anni Cinquanta e Sessanta, dalla quale provengono due “eretici” come Fortini e Cases. E, ancora, l’eliminazione della critica fiancheggiatrice di gruppi e movimenti, con le conseguenti omissioni dei vociani Boine, Serra e De Robertis, degli ermetici Bo e Macrì e di altri saggisti più giovani, vicini alla neoavanguardia.
Simili scelte implicano, come si diceva poc’anzi, una precisa idea non soltanto della critica ma anche della letteratura del Novecento. Mengaldo rifiuta infatti ogni tipo di approccio impressionistico e di gusto al testo letterario. Da qui l’altra esclusione, ampiamente motivata del resto, di Emilio Cecchi, il “pontefice massimo” della critica della “terza pagina”. Le sue preferenze vanno invece a una critica “di pensiero”, filosofica prima ancora che filologica, come analogamente, in campo poetico, egli privilegia un tipo di poesia raziocinante, basata sull’elaborazione concettuale, rispetto a quella puramente intuitiva, che fa leva sull’illuminazione analogica.
Non a caso Mengaldo mette al vertice della critica di questo secolo Gianfranco Contini, reagendo però a certe interpretazioni che lo vogliono rivolto esclusivamente all’esame degli aspetti linguistici, retorici e metrici di un’opera. Le sue “magnifiche analisi formali – sostiene invece – mirano sempre, lungi dal chiudersi in se stesse, alla posizione mentale dell’autore”. D’altra parte, lo stesso Mengaldo, in questo libro, procede come se si trovasse di fronte a testi creativi veri e propri, mettendo in rapporto lo stile di un critico, comprese le tecniche argomentative usate, con le sue idee, i valori concettuali, proprio per caratterizzarne meglio il metodo e verificarne la coerenza interna.
A questo punto, si potrebbe obiettare però che nemmeno il pensiero, di per sé, può dar vita automaticamente a una critica di alto livello, se non è accompagnato dal gusto, inteso non come superficiale degustazione di un testo, ma come capacità di coglierne gli aspetti essenziali, di penetrare nel suo significato più profondo. Tanto per fare un esempio, lo stesso Croce, nonostante l’altezza indubutabile del pensiero, dimostrò una sostanziale incapacità di comprendere la letteratura e l’arte del suo tempo proprio a causa di un gusto attardato, ancora ottocentesco. E in fatti in questo libro egli risulta, in certo senso, isolato rispetto a tutti gli altri saggisti che invece sono immersi nella modernità. Al contrario, Giovanni Boine, che viene accusato di narcisismo da Mengaldo, riuscì ad entrare subito in sintonia con poeti ‘nuovi’ come Rebora, Sbarbaro e Campana, dei quali scoprì per primo il valore. E ciò significa in fondo, se non ci sbagliamo, che la validità di un metodo si dovrebbe misurare anche (se non principalmente) in base alla bontà dei concreti risultati interpretativi raggiunti da un critico.
[Le strutture del testo, Lecce, Milella 2004]