di Antonio Errico
Calava un tramonto da bestia macellata sul mare tra la Montagna Spaccata e la Torre dell’Alto.
Nel punto dov’è il pizzo dell’Aspide, si consumava un’altra giornata di accamparamento intollerabile e tollerato, la sosta alla stazione di posta di postmoderni carovanieri.
Un polifemo omnitatuato in piedi sulla casamatta ai bordi della scogliera testimoniava una contraddizione della natura nella rappresentazione di quello spettacolo.
Un simbolo. Una metafora. Fra i tanti, fra le tante di questo Salento negli anni che vanno.
Forse si è giunti ad un punto che richiede l’urgenza di un ragionamento su come si possa raccontare, adesso, la terra che abitiamo.
Ma soprattutto come si possa raccontare, adesso, quella che sarà la terra che abitiamo, quale terra abiteranno coloro che verranno o che sono venuti in questi quasi vent’anni di secolo nuovo, di nuovo millennio. Perché probabilmente raccontare quello che è non ha alcun senso. Forse ha senso narrare quello che sarà. Immaginare. Vaticinare. Se così non è, se non possiamo o non sappiamo farlo, forse si dovrebbe definitivamente tacere.
Fino al principio degli anni Duemila, chi ha voluto narrare il Salento ha avuto vasta e profonda materia di racconto. E lo ha fatto tessendo la narrazione intorno ad un nucleo tematico e semantico oscillante tra suggestioni del Mito e interpretazioni della Storia, immaginario collettivo ed esperienza personale, modelli culturali e percorsi di scrittura, processi di costruzione di identità sociale e rispecchiamenti generazionali nelle forme di quella identità, nelle proiezioni di quelle forme, nella molteplicità di quelle fisionomie, tra la coscienza di una condizione di vivere in questa terra e una messa in scena di quella coscienza attraverso la narrazione letteraria. Lo ha fatto Luigi Corvaglia con “Finibusterre”, Fernando Manno con “Secoli fra gli ulivi”, Maria Corti con “L’ora di tutti”, Rina Durante con “La malapianta”, Giovanni Bernardini (in particolare con “Provincia difficile”), Carmelo Bene, Antonio Verri. Certamente mi sfugge qualcuno, e chiedo scusa. In versi lo ha fatto Vittorio Bodini, Vittorio Pagano, Girolamo Comi, Vittore Fiore, Salvatore Toma. Anche questa volta mi sfugge qualcuno; anche questa volta chiedo scusa.
Quando si vuole elaborare un’immagine del Salento, dunque, è alle immagini elaborate da questi ed altri autori che si fa riferimento, alle loro sintesi sostanziali, alle loro cornici culturali, antropologiche, sociali. Consapevolmente o inconsapevolmente.
La contemporaneità si propone al racconto con una sfida epocale. Nei confronti di essa la narrazione pare che avverta una condizione di disagio, di spaesamento, di afasia. Non mancano i tentativi, certamente, e neppure gli esiti apprezzabili. Ma forse non si è ancora riusciti ad individuare la cifra che consenta non di dire il presente ma di raccontare il futuro, di mettere insieme gli elementi del tramonto ( la natura), della ricerca di un senso (la cultura) e della improprietà esistenziale e culturale del selvaggio ignaro in piedi sulla casamatta. Non si è trovata la forma che permetta di spostare nel tempo questi elementi, collocandoli in un processo di trasformazione per tentare di comprendere se esso stia avvenendo ed avverrà in funzione di un progresso o di una involuzione.
Davvero non ha alcun senso raccontare quello che è, oggi, il Salento. Forse avrebbe senso rinarrare, ancora una volta, la sua storia, cercando di rintracciare nella storia quelle situazioni che si costituiscono come prefigurazioni del futuro.
Nella premessa a “La chimera”, Sebastiano Vassalli si chiedeva cosa mai potrebbe aiutarci a capire il presente che non sia già nel presente. Poi rispondeva che nel presente non c’è niente che meriti di essere raccontato. Il presente è rumore, diceva: milioni, miliardi di voci che gridano, tutte insieme in tutte le lingue, cercando di sopraffarsi l’una con l’altra. Per cercare le chiavi del presente, e per capirlo, bisogna uscire dal rumore.
Ecco. Forse è questo che dovrebbe fare chiunque in qualche modo intenda raccontare come diventerà il Salento nel tempo venturo sulla base dell’osservazione e dell’analisi di com’è in questo tempo. Forse dovrebbe uscire dal rumore e individuare da dove provenga il rumore, che cosa lo stia generando, quanto di esso appartenga alla naturale evoluzione dei fenomeni e delle storie e quanto invece sia provocato dal non senso o dalla degenerazione del senso. Probabilmente il Salento di questo tempo non è migliore o peggiore di quello che è stato in altri tempi. Però è radicalmente diverso, in quasi ogni suo aspetto. Negli ultimi vent’anni è cambiato antropologicamente. Ma colui che racconta non deve giudicare. Almeno non esplicitamente. Colui che racconta deve dipingere scene che rappresentino possibili e probabili condizioni di esistenze.
La mutazione antropologica è la cosa più difficile da raccontare. Ancora più difficile è il racconto in presa diretta di questa mutazione, soprattutto quando il divenire risulta accelerato, frenetico, vorticoso.
Allora diventa probabilmente indispensabile uscire dal rumore, darsi il tempo che ci vuole per recuperare la sostanza dei significati, stabilire connessioni, guardare in fondo, proiettare immagini. Formulare nuove categorie di bellezza e di bruttezza. Produrre nuovi simboli o rinnovare gli esistenti. Abolire i luoghi comuni. Tessere nuove storie e caratterizzare nuovi personaggi.
Mettere in scena figure e paesaggi. Pensare e sperimentare forme inedite di narrazione. Costruire nuove metafore, ulteriori allegorie.
Antonio Verri fece questo, per esempio: con “La betissa”. Lo scrisse tra il 2 di agosto e il trenta ottobre dell’Ottantasei. Anche quelli era anni di passaggio, di svolte d’angolo. La struttura di quel romanzo breve non aveva precedenti nella produzione pugliese. Raccontò un microcosmo spiantando completamente quelli che fino a quel momento erano stati i criteri della trama e dell’intreccio, la tipologia dei personaggi, gli sfondi e i paesaggi.
C’era bisogno di una forma nuova, in quel momento; soprattutto c’era bisogno di una nuova visione. Allora come ora. Occorrono visioni e forme nuove per raccontare il Salento, per decodificare, comprendere e interpretare la sua mutazione, per configurare un’ipotesi della condizione di questa terra negli anni a venire. Forse continuerà a cambiare tutto. Forse qualcosa continuerà ad essere com’è. Forse troveremo parole nuove, nuove storie. Forse ci rivolgeremo a vecchie parole, a vecchie storie. Forse non racconteremo niente più. Forse, se Dio vuole, resteremo a guardare il tramonto che cade senza pensare a cosa ed a come raccontare.
Poi l’aria si rabbuia al pizzo dell’Aspide.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, Domenica 19 agosto 2018]