di Rosario Coluccia
Parliamo ancora del congiuntivo, modo verbale controverso e spesso difficile da coniugare correttamente. In una puntata dell’Eredità, gioco televisivo a premi che va in onda su RAI1, una concorrente mette in fila 20 risposte esatte sulla flessione della terza persona del congiuntivo presente di verbi come apparire, cogliere, essere, sporgere, buscare (su questa parola inciampa un paio di volte ma poi indovina) e altre, guadagnando così 20.000 euro. «Venghino, venghino, cari signori, / nel baraccone d’Immanuello / dove la sintesi fatta a priori / spiega a puntino quel macchiavello» recita la filastrocca Filosofi in libertà del Secondo diario minimo di Umberto Eco. Quei versi nati per gioco sono finiti anche in un libretto che raduna 4.400 quesiti per l’ammissione ai corsi universitari dell’area medico-sanitaria, quiz ufficiali e relative soluzioni. Il candidato non deve rispondere sull’uso (volutamente errato) del congiuntivo ma deve identificare il personaggio a cui i versi alludono, che naturalmente è Kant (in una scelta che prevede anche la possibilità di rispondere Croce, Severino, Fichte e Bergson).
Una tradizione la cui attendibilità non è verificabile attribuisce l’invito venghino, venghino allo strillo pubblicitario dell’imbonitore che sollecitava la partecipazione degli spettatori agli spettacoli dei piccoli circhi itineranti. Errori flessionali come venghino (in luogo di vengano) o temino (in luogo di temano) si generano per analogia, modellando sulla prima coniugazione (più produttiva), verbi della seconda e della terza coniugazione. Tanto più che la variazione fonetica e morfologica è legata allo scambio di una sola vocale (a/i) e, nel caso specifico di venghino, può aver agito il richiamo di entrino o di si accomodino, semanticamente contigui.
La riproduzione con intenti umoristici degli usi substandard del congiuntivo e la tendenza al livellamento analogico dei paradigmi verbali è frequente nei film di Totò. Ecco alcuni esempi: «Ma mi faccino il piacere», «venghi», «possino», «se ne vadino», «mi permettino», «mi facci scendere» (esempi da F. Rossi, La lingua in gioco. Da Totò a lezione di retorica, Roma, Bulzoni editore, 2001, pp. 77-78). Più recentemente hanno avuto grande successo i congiuntivi di Fantozzi e degli altri protagonisti dei film di Paolo Villaggio: «batti lei», «vadi, contessa, vadi» e l’onnipresente «venghi» non indicano solo il deficit linguistico di chi li usa. Sono anche simbolo del disperato desiderio di ascesa sociale di questi personaggi, perennemente in bilico tra la esibita cortesia formale e la rozzezza sostanziale dei comportamenti, espressa attraverso la lingua. Altrimenti detto. Da una parte aspirazione alla raffinatezza di fatto irraggiungibile. Dall’altro trappola pronta a colpire, che provoca scivoloni e figuracce. Anche nel parlante comune il congiuntivo è oggetto di atteggiamenti contraddittori. Da alcuni è considerato un modo verbale che spesso può essere sostituito dall’indicativo, senza che la sostituzione generi problemi funzionali o di intellegibilità della frase. Da altri viene visto come elemento di ineliminabile distinzione da preservare accuratamente e oggetto di considerazione particolare, in qualche caso in grado di provocare fenomeni di uso improprio da parte di utenti della lingua meno avvertiti.
Il caso più frequente di abbandono del congiuntivo a vantaggio dell’indicativo si verifica nelle proposizioni ipotetiche del terzo tipo (o dell’irrealtà), in cui i fatti sono presentanti come impossibili. Secondo la norma, sono obbligatori il congiuntivo nella protasi e il condizionale nell’apodosi: «se l’avessi saputo, non sarei venuto». L’uso semplificato del doppio imperfetto indicativo, del tipo «se lo sapevo, non venivo», risulta piuttosto diffuso nella lingua parlata informale, molto meno nella lingua scritta. Ma non si tratta di una tendenza recente della lingua italiana, il fenomeno è di antica data (lo ha mostrato, già molti anni fa, P. D’Achille, Sintassi del parlato e tradizione scritta della lingua italiana, Roma, Bonacci, 1990). Nel francese il costrutto «si je le savais, je ne venais pas» è di assoluta regolarità. Ma rinunciare al congiuntivo significa rinunciare a un mezzo che coglie le sfumature della nostra immaginazione e dei nostri pensieri. Significa rinunciare alla possibilità che la lingua ci offre per esprimere, a seconda dei casi e del verbo reggente, una nostra ipotesi o un nostro giudizio, un nostro dubbio o un nostro pensiero.
Alla domanda sulla (presunta) morte del congiuntivo la risposta può essere «no», senza indulgere a immotivato ottimismo. Sul web e su Facebook si trovano organizzazioni a difesa del congiuntivo, addirittura una Lega Italiana per la Difesa del Congiuntivo (L.I.Di.Co.); il sito http://salviamoilcongiuntivo.blogspot.it/ invita a usare il congiuntivo in modo appropriato nella vita di tutti i giorni. Non occorre arrivare a tanto, nella lingua reale le cose non vanno poi così male. L’uso dell’indicativo avanza a scapito del congiuntivo soprattutto nel parlato e nelle comunicazioni colloquiali o informali, quando ci rivolgiamo a parenti e amici. Nello scritto e nelle situazioni comunicative formali invece il congiuntivo è ben saldo, anche se permangono insicurezze nei parlanti e anche negli scriventi. Si spiegano così gli ipercorrettismi irrazionali, nel parlato formale («Ora vi dico quello che io pensi», citato da Sabatini, Lezione di italiano, p. 198) e perfino nello scritto ufficiale («confermiamo che gli importi siano […]», e-mail del CINECA, consorzio interuniversitario collegato al Ministero dell’Istruzione, citato da S.C. Sgroi, Il congiuntivo nervo scoperto, «La Sicilia», 17 ottobre 2016, p. 9). Anche Totò, una volta, ha usato un ipercongiuntivo: «mi saprebbe dire che significhi Paliatone?» (ancora Rossi, La lingua in gioco, p. 78). Ma lui non faceva sul serio, giocava con la lingua.
Angelo Panebianco, politologo capace di lucide polemiche, in un commento intitolato Un Paese diviso dal verbo apparso su «Sette – Corriere della Sera» sostiene che anche il mondo accademico è favorevole all’idea che si possa rinunciare all’uso del congiuntivo e al suo insegnamento (citando, e fraintendendo, alcune pagine del libro di Sabatini, Lezione di italiano, pp. 195-196). E aggiunge che una simile scelta finirebbe con il separare ulteriormente le classi sociali: «Se ascolto un giovane parlare non ci metto molto a capire se ha fatto scuole buone o mediocri e se il capitale culturale della sua famiglia sia ricco o povero». E tra due persone abbastanza qualificate «assumerei quella che ha una competenza linguistica superiore».
Panebianco ha ragione quando sottolinea l’importanza di un adeguato e flessibile possesso dell’italiano in ambito scolastico e nel campo del lavoro. Ma parte da un presupposto sbagliato, fraintendendo la posizione di Sabatini, che non ha mai proposto di rinunziare al congiuntivo. Sabatini pone una questione diversa: quale criterio di valutazione/giudizio sull’uso del congiuntivo adottare in sedi delicate come la valutazione scolastica, gli elaborati di concorsi, i discorsi di personaggi pubblici? Ed ecco la risposta, riferita testualmente: «Facendo bene attenzione, ovviamente, alla casistica specifica, si potrà considerare solo come un coefficiente di particolare pregio l’aderenza di chi scrive, o parla, alla tradizione dei modelli di stile più meditato e consapevole».
La partita decisiva, come spesso accade, si gioca nella scuola. Il congiuntivo, ben vivo nell’uso scritto e nel parlato di livello medio-alto, richiede ai professori un impegno particolare: addestrino i ragazzi ad usare questo modo verbale in tutte le situazioni comunicative in cui appare necessario o almeno consigliabile, sulla base dei ragionamenti che abbiamo fatto nelle due puntate della nostra rubrica.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di domenica 19 agosto 2018]