La Lecce che amavo saccheggiata dalla folla anonima

di Antonio Errico

Ho amato una città, per quarant’anni. L’ho amata fino a poco tempo fa, fino ai primi giorni di luglio che è passato, fino a quando una sera non l’ho vista invasa, saccheggiata da una folla senza meraviglia, ignara e strafottente della sua bellezza, inconsciamente irriverente e frivola, oleosa e ruttante.

Ho smesso di amare Lecce quella sera. Dopo averla amata quarant’anni. Da quando nel Settantanove incontrai “Un popolo di formiche”, una mattina di febbraio che finiva e il nevischio intirizziva gli uomini e i colombi.

Nel Settantanove Tommaso Fiore era morto da sei anni.

Cominciai a leggere a caso, nella biblioteca dell’Ateneo, a porta Napoli, e nel caso conobbi per la prima volta Lecce.

Leggevo e mi ritrovavo nello smarrimento che mi accerchiava passato il viale della stazione, fra viuzze brevi, tortuose, bitorzolute.

A distanza di molti anni ancora continuo a smarrirmi per le sue strade. Volutamente. Voluttuosamente.

Ogni volta che mi perdo per quelle strade che ho attraversato centinaia di volte, che ad un incrocio mi disoriento, mi viene in mente quel frammento dell’ “Infanzia berlinese” in cui Walter Benjamin dice che ci vuole una certa pratica per smarrirsi in una città come ci si smarrisce in una foresta.

Da provinciale a Lecce, ho sempre fatto pratica di smarrimento.

Forse solo smarrendosi si può avvertire la vertigine che provoca lo splendore del barocco: incontrandolo per caso, a una svolta d’angolo, con uno sguardo distratto in un vicolo, un cortile, su un balcone incorniciato di gerani.

Poi il barocco intimo l’ho conosciuto dopo, nelle pagine di qualche libro.

Si dice che il tempo cambi ogni aspetto di un uomo, meno che il colore degli occhi. Forse anche in un luogo c’è qualcosa che non cambia mai, che riesce a sottrarsi alle metamorfosi, al disarmonico espandersi. Il barocco è il colore degli occhi della città.

Si guarda il barocco e da esso si è guardati. Forse per il provinciale questa relazione di sguardi si sviluppa in modo più intenso, perché non è connaturata, perché è un evento al quale non è abituato.

Il barocco di Lecce innanzitutto si percepisce. Poi si capisce dopo, forse.

Forse ho capito un poco il barocco, se un po’ l’ho capito, quando lessi quelle pagine di “Secoli fra gli ulivi” in cui Fernando Manno dice che esso non è pensiero ma è senso, e va fra i due poli di una colma gioia di vivere e di un abbandono sognante fino ai limiti del possibile; quando dice che si salda alla terra, alla storia, al cuore del paese, non pietra, non arte, non opera. Ma voce del paesaggio. Sangue.

Forse ho capito un poco il barocco, se un po’ l’ho capito, con le poesie e con le prose di Vittorio Bodini e di Vittorio Pagano. Con quel loro scavare nell’aria della città fino a trovarne e a mostrarne gli occhi che non cambiano mai.

Ho capito il barocco, l’orditura di maschere e di putti, la frana della pietra, leggendo le poesie di Vittorio Pagano, uno dei più grandi versificatori europei del Novecento, paragonabile soltanto ai poeti francesi che ha tradotto. Magistralmente.

Ho conosciuto Lecce leggendo Vittorio Pagano. La città che si deforma e poi riprende forma. Che si decompone e poi si ricompone. Che si sfarina e poi si ricompatta. Sempre perduta e sempre ritrovata. La città che batte come il cuore, che fiotta come il sangue. La città dell’alba, della notte. Che muore ad ogni istante e ad ogni istante risorge.

Si può conoscere la città in ogni angolo, in ogni vicolo; si può conoscere il numero esatto dei suoi balconi, delle pietre dei suoi teatri; se ne può conoscere la storia fino alla minuzia, ma non si potrà mai guardarla dentro gli occhi se non si legge “ Via De Angelis” di Bodini ed “Elegia minore” di Pagano.

Non si può.

Non saprei dire se accade ancora, ma allora, negli anni Settanta, Lecce aveva uno sguardo acuto e un provinciale lo vedeva da lontano.

Non saprei dire com’è ora ma allora nei confronti del provinciale Lecce aveva un’elegante supponenza emarginante.

Che Lecce emarginasse i provinciali lo si vedeva già nei corridoi dell’università o durante le lezioni; soprattutto lo si riscontrava quando si facevano gli esami.

Appena finivi l’esame, quelli e quelle che erano di Lecce ti chiedevano quanto avessi preso, e quando rispondevi trenta ti guardavano allibiti e dicevano: ma tu non sei del paese?

Allora il provinciale diceva trenta, anche se non era vero. Trenta trenta trenta. Perfino all’esame di latino con Orazio Bianco e con la lettura metrica di Catullo, che era un supplizio disumano.

Il giovedì e il venerdì, tra una lezione e l’altra, quelli e quelle che erano di Lecce organizzavano le feste per il sabato. Ma quelli del paese non li invitavano. Poi una volta, forse dieci anni dopo, forse di più, ne invitarono uno. Lo invitarono a una festa letteraria: così dissero:letteraria. Dissero che ci tenevano che ci fosse. Ma uno non ci andò. E beh, no. Perché uno il paese se lo porta addosso, sulla pelle, dentro, in fondo al cuore, in ogni circostanza, quale che sia la stagione. Se ne porta dentro l’orgoglio. Se lo porta dentro sempre con lo stesso stupore.

Allora, uno a quella festa non ci andò.

Oltretutto non capiva come potesse essere mai una festa letteraria. Però avvertiva, più o meno inconsciamente, che Lecce amasse i letterati, i colti, gli eruditi. Ma non i poeti. Non gli artisti. I poeti e gli artisti veri. Quelli che scompongono il ritratto delizioso della città facendone vedere il cranio.

Al modo in cui ha fatto Vittorio Pagano.

Sul finire degli anni Settanta, ai primi degli anni Ottanta, Lecce era morbida, dolce, o almeno così sembrava al provinciale che se ne andava in giro appena poteva a scoprire le chiese, i palazzi. Così la città cominciava a entrargli dentro. Si affacciava nelle botteghe dei cartapestai, aggirandosi tra quelle statue di santi e Marie dai volti stupefatti; se ne restava a guardare la facciata della chiesa di San Matteo, quell’esplosione della pietra, quelle forme rutilanti, vorticose; da piazza S. Oronzo arrivava a Santa Croce, in mezzo allo splendore di luce e di rondini, in mezzo alla sontuosità e all’allegoria.

Ho smesso di amare Lecce una sera di luglio che la folla senza direzione divorava la sua realtà e la sua allegoria. Adesso resta soltanto l’innamoramento per la sua letteratura.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, Domenica 12 agosto 2018]

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