di Maurizio Nocera
Soli siamo ora,
soli e soli terribilmente
nella rete del ragno che ci morde,
dentro l’orizzonte di sangue raggrumato
di un cielo a lutto vestito.
Nottule disperate la testa divorano.
Sorpresi e con gli occhi del mare
piogge d’autunno attendiamo
costretti nella morsa di orribili assassini,
soli e soli terribilmente
alla luce del sole
che carne d’agosto brucia.
Dal cielo fax arrostiti giungono
di resti di poveri corpi ammazzati,
senza più croci,
soli e soli terribilmente
senza scampo, indifesi
nel deserto di cuori di pietra.
D’inverno triste è il suono della cornamusa
che l’uomo dei curli rompe
nei pressi della macchina dei fax
con una betissa che a Badisco urla
sotto l’antica colonna
tra sibili lunghi nel mare.
Il vuoto di un palazzo
di una Lecce infelice
alto è, il cielo tocca,
con un sei piani d’atroce tormento
che tu colombella triste e violata
col corpo attraversato hai.
La tua vita,
le nostre speranze:
quella dell’uomo dall’occhio sbilenco,
quella dello zallo salentino,
quella dell’uomo-civetta sulla quercia appollaiato:
un libro squinternato siamo.
Un percorso a serpente
su di un muretto a secco dalle parti di Badisco,
là dove nostra Magna Mater si dispera e muore
e nostro Padre non ha più voglia di vivere.
Con gli occhi del mare, fragile Claudia-Mesar-lì,
dentro la nostra stupidità affondi.
Non so se i sesti piani siano stati sempre assassini,
questo di Lecce sì.
Per questo
ora siamo soli,
terribilmente soli e soli
sotto un cielo a tempesta sempre.
Ti ho raccolto,
donna dagli occhi del mare,
ai piedi di questo barocco infelice.
Il tuo corpo fiore di campo aperto era,
petali rotti di margherita a sangue vivo spezzato
in un giardino antico di fuori le mura.
Alla nostra pena nessuno sconto è stato dato mai,
tutti sanno che tutto abbiamo pagato, sempre,
fino alla fine,
perché lor signori sesti piani non fanno sconti
in questa Lecce che uccide e dimentica
la figlia che per amore la faccia dipinta s’era.
Ti raccolsi fiore tra i fiori,
rosa più rosa d’ogni altra,
donna dagli occhi del mare,
con le vene aperte a petali profumati,
col sangue che imbrattava il tuo viso,
betissa Claudia-Mesar-lì che versi dipingevi.
Ricordo che ridemmo e bevemmo dolce vino rosato
quella notte che ci abbracciammo dalle parti di Rudiae antica
dove Ennius sgomitolava poemetti latini
per giovani ingordi di sole e di lune
che la strada smarrito avevano
alla ricerca di un tempo cannibale.
Quella volta anch’io ti cercai
filo di rugiada su trifogli smorti
nel campo proibito all’odio degli dèi,
donna dagli occhi del mare,
Claudia-Mesar-lì che smuovi e rigeneri
la morte che nel mare fugge e annega.
Ora,
nell’Adriatico hidruntino,
non ci sono più percorsi pericolosi,
per questo siamo soli,
terribilmente soli e soli
nel deserto che il fuoco acceca.
Urlava il mondo urlava,
quella volta che quel sesto piano ti chiamò
donna che in faccia fiatavi
l’odore acre del vino messapo
dall’uomo coreutico spremuto
nella pila di nostra Magna Mater Salento.
Quella notte i tamburi tuonarono a fulmini
quando mi chiedesti di danzare con te,
donna dagli occhi del mare,
betissa Claudia-Mesar-lì che più non dormivi,
alla finestra affacciata in attesa
che la luna passeggera sul suo calesse ti cogliesse.
Ricordo che con te ballai, Matto com’ero,
la danza del ragno che tormenta
sui cornicioni delle nostre case antiche
di tufo di cava forata
sfatte dal vento e dal tempo
che con la falce ogni cosa rapisce.
Nella gola profonda crollammo infine morti sfiancati
due volatili pennuti ubriachi eravamo,
il fiore della nostra vita cercavamo
nella roccia che il mare stringeva,
dalle parti di Badisco,
dove il nostro cuore al sole d’agosto si disfece.
In silenzio ti amai,
donna dagli occhi del mare
nella disperazione urbana di una notte,
nascosto sotto le porte antiche
tra i rumori del sonno,
i profumi di poesia.
Una pajora costruito avevo,
donna dagli occhi del mare,
con le pietre della specchia degli amanti,
che pure specchia del diavolo era,
là dove dall’Est il vento respira,
dove non ci sono mai stati sesti piani assassini.
Come serpente quella volta mi acquattai
tra ginestre e carciofi variopinti,
il nido volevo finire di fare,
nell’attesa del tuo arrivo,
della tua bocca odorosa di vino
stompato dall’uomo dall’occhio sbilenco.
Volavi,
donna dagli occhi del mare,
gabbianella di luce
nel cielo di questa Lecce barocca e infelice,
ali di poesia avevi
e collane di lune messape.
Il vento tra le case
l’inguine implume ti accarezzò
alla ricerca di un varco di Vergine
che da quelle parti sapeva trovarsi
tra pietre odori sapori
che solo tu sapevi dare.
Volavi teneramente, Claudia-Mesar-lì,
donna dagli occhi del mare,
spada lucente
sul vuoto delle rovine dell’anfiteatro lupiense
tra vecchi cantori messapi
che ninne nanne suonavano a te.
«Fija ci t’aggiu persa sta matina…
t’aggiu persa pe sempre core miu…
fija fija fija mia….».