di Maurizio Nocera
Anni fa, assieme a Cosimo Giannuzzi, di Maglie, condussi una ricerca sul significato delle impronte di mani all’interno della Grotta dei Cervi di Porto Badisco (Otranto), in provincia di Lecce, la cui sintesi finì per essere pubblicata, alla fine degli anni ’90, sulla rivista «Apulia», rassegna trimestrale della Banca Popolare Pugliese, diretta da Aldo Bello.
Quel nostro studio sulle impronte di mani partiva dalla considerazione che per noi quel sito rappresentava nel neolitico salentino (9.000-6.000 anni fa) una sorta di santuario, un luogo di culto, all’interno del quale antichi ierofanti avevano praticato riti propiziatori o riti di ringraziamento a divinità conosciute a quel tempo che, almeno per noi che facemmo la ricerca, avevano ben precisi significati ancestrali, connotanti un tempo e un luogo determinato dalla raffigurazione di un’immagine come è, ad esempio, il pittogramma antropomorfo col copricapo dai sette pennacchi, che, per parte nostra, non accettammo la denominazione di “sciamano” quanto invece di “Divinità danzante”. Questo per tutta una serie di attributi di cui il pittogramma in questione è corredato: la sizigia tra le gambe; i sette pennacchi, che molto probabilmente sono le infiorescenze delle canne di palude nostrane; il volto in forma di triangolo, tipico delle divinità.
La convinzione comune era che il processo che aveva portato l’Homo abilis prima e l’Homo sapiens dopo a costruirsi una base culturale per agire autonomamente al di sopra delle altre specie animali (come soggetto dominante s’intende) sia partito dalla «liberazione della mano dalle sue funzioni deambulatorie». Convinzione che l’antropologia scientifica ci porta a credere che la mano abbia avuto una parte rilevante (se non la più importante) nello sviluppo della mente umana, «perché [la mano] informa, manipola, produce situazioni di cui il cervello si serve per la sua organizzazione» soprattutto quando all’uomo si pone davanti il problema della sua sopravvivenza o quello, ancora più urgente, della conservazione della specie attraverso una qualsiasi azione interattiva. Si pensi, ad esempio, al processo di presa di coscienza dell’inizio della storia umana, che il regista Stanley Kubrick, in 2001 Odissea nello spazio, ha magistralmente raffigurato con il primate che s’accorge della funzione della propria mano quando, casualmente, per difendere il “suo” territorio (nel caso del film si tratta di una fonte d’acqua) comincia inconsapevolmente ad usare un grosso osso d’animale (una mandibola disossata) come clava per difendersi o attaccare altri primati.
In quell’episodio ancestrale, si sarà forse trattato di un atto come questo che ha determinato la nascita della presa di coscienza dell’uomo che tutto può, tutto distrugge, tutto trasforma, sia pure in una dimensione assolutamente temporale e circostanziata. L’uomo che diventa “padrone” del pianeta. Dominatore supremo, anche della sua autodistruzione.
Grazie alla presa di coscienza delle sue potenzialità, l’uomo cominciò a gestire la sua mano nel fare e nel disfare. Probabilmente, come ha scritto A. Leroi-Gourhan, nel suo libro Il gesto e la parola (Torino 1977), è iniziato così il processo della fabbricazione degli utensili, e da ciò, tempo dopo (molto o breve che sia questo tempo, qui non ha importanza) ha preso il via anche la vita strutturata socialmente in comunità organizzate. Gli scienziati del settore hanno stabilito quali siano state le tre concatenazioni che permisero il passaggio dell’uomo dallo stadio primitivo a quello dell’Homo abilis: la costruzione degli utensili attraverso l’uso preferenziale della mano, l’aumento delle dimensioni della massa cerebrale infracranica e l’aumento della massa corporea in generale.
La mano, quindi, come archetipo non solo dell’agire (l’abilità manuale, come ci fece capire l’anatomista inglese Frederick Wood-Jones), ma come funzione comune anche ad altri esseri viventi (diversi tipi di scimmie e, estendendo il concetto alla zampa, tutti gli altri animali e insetti), ma anche come archetipo del pensare, quel processo che noi conosciamo come tipico della costruzione mentale di immagini necessarie alla parola, ai segni, ai significati, alle intenzioni. Per usare un riferimento tecnologico moderno, la mano quale supporto – del tipo nastro magnetico di un registratore – della vita che si svolge e s’avvolge. Quindi, la mano può fare tutto (scrivere o grattarsi), ma soprattutto può trasmettere messaggi, segnali, riferimenti.
Da anni, la mia ricerca di tipo antropologico si basa proprio sul tipo di funzione delle mani, tanto che, a proposito delle impronte di mani, che in fondo altro non sono che un modo di comunicazione antichissimo e presente in ogni civiltà e cultura, la mia convinzione – scrivevo sopra – è che si tratta di una forma di immagine [l’impronta appunto] che contiene un principio essenziale per la nascita della scrittura: l’impronta non è solo la rappresentazione diretta del contenuto del messaggio, ma contiene anche un aspetto convenzionale in quanto, quando è associata ad altre impronte, assume in sé la capacità di trasmettere un significato imitabile nella sua essenza emozionale, esplicabile nella sua azione rituale.
Le mani indicano, segnalano, riferiscono, definiscono. Se la mimica facciale e lo sguardo, che sono espressioni silenziose, fanno intuire il messaggio che un emittente vuole inviare ad un ricevente, le mani, precipuamente, parlano, pur’esse senza suono, attraverso una loro configurazione facendo uso del carpo, metacarpo, dita, falangi, falangine e falangette. È su questo che si fonda la gesticolazione, in uso presso tutti i popoli del pianeta e soprattutto essenziale per chi non ha l’uso della parola.
Gli scienziati antropologi e psicologi chiamano questo tipo di manualità indicativa appunto come gestualità significante, affermando che sono gli emisferi cerebrali i luoghi d’origine deputati a ogni forma di espressione, atti alla produzione del linguaggio, la cui complessità è gestibile grazie alla capacità umana di controllare la mano, che fa, indica, segnala, interseca, asseconda, contrasta, separa, afferra, si congiunge come di preghiera e come, metaforicamente, su una pagina di un limpido cielo primaverile, scrivono e dipingono segni e immagini sublimi dai multiformi significati dell’uomo.
Si pensi ad esempio all’immagine di una mano sulla mano, o una mano che tocca la mano di un’altra persona, si ammiri la mano di una persona che si gratta, che pizzica, che stringe, che si strofina, che batte una mano sull’altra (il battimano), che tira, tanto altro ancora. Sono mani che ci fanno conoscere stati d’animo, che ci danno il risultato di un calcolo, che ci rivelano differenti personalità secondo la tipologia dataci da Wattson, Sigmund Freud, Carl Gustav Jung; si tratta di mani che ci rivelano un “sapere” insospettato, mani, appunto, che parlano, che dicono. Leonardo da Vinci, che di mani se ne intendeva avendole studiate fin nei minimi particolari, riferendosi alla pittura, ha lasciato scritto che la mano del pittore è guidata dalla mente. Questo a dimostrazione del legame tra pensiero e manualità per cui c’è un rapporto strettissimo, anzi assoluta tra mente e mano sempre e per ogni evento, come accade allo scrittore, al chirurgo, all’operaio di una linea di produzione, al mimo, all’attore, insomma per qualsiasi tipo di attività umana.
Nancy Ruspoli de Charbonnieres, anni fa scrisse un libro, “La mano. Energia, armonia, azione” (Roma 1989), nel quale scrive delle mani privilegiando la loro funzione riferita alle capacità terapeutiche; e lì, tra quelle pagine di quel testo, è possibile ammirare le tante immagini di mani ricercate, rintracciate nell’ampia storia dell’umanità. Così come si può ammirare la suggestiva immagine dell’ “Angelo Annunziante”, di Simone Martini (Firenze, Galleria degli Uffizi), dove le due mani – scrive l’autrice – «danno le due direzioni: la destra indica ‘l’alto luogo’ al quale aprirsi per realizzare l’opera di creazione, la mano sinistra, che regge il ramoscello di ulivo, simbolo della fecondità della natura, indica il basso, il luogo dove l’opera si realizzerà nel mondo fisico» (p. 12).