di Antonio Errico
In fondo è un interrogativo antico che non ha mai trovato una risposta definitiva, chiara, e che probabilmente non potrà trovarla mai. In fondo è una questione di rilevanza secondaria, che non cambia i destini di nessuno, né di colui che formula la domanda né di colui che propone la risposta. Ma se per secoli ci si è posta la domanda e si è cercata una risposta, una ragione ci dovrà pur essere. Se è da secoli che si cerca di capire quanto e come uno scrittore, un intellettuale, un artista, debba essere impastato con i fatti e le situazioni oppure quanto e come ne debba restare fuori, limitandosi ad osservare, a riflettere, a raccontare, a rappresentare, qualche volta anche giudicando, probabilmente significa che, per una ragione o per un’altra, la questione non è poi del tutto oziosa. Forse giunge ad interessare la relazione tra il pensiero soggettivo e quello collettivo, tra l’essere con se stessi e l’essere nel proprio tempo, fra l’opera e il mezzo che si impiega per farla girare nel piccolo mondo. Interessa e coinvolge quella che viene chiamata la funzione sociale di un artista, di uno scrittore.
Jonathan Franzen, classe ’59, ha scritto cinque romanzi, due volumi di saggi, un’autobiografia. Ora lavora al sesto romanzo. L’ultimo dice. Perché dubita che possa esserci qualcuno che dentro di sé abbia più di sei romanzi, che in una sola esistenza si possano raccontare più di sei storie profonde.
Franzen è contrario ai social, all’autopromozione, al commento e alla spiegazione della sua opera, alla partecipazione in forme varie ai gruppi di lettura, all’interazione digitale, all’idolatria del like, alla propria trasformazione in prodotto. Questo si chiede nel corso di un incontro con Taffy Brodesser- Akner, pubblicato da “Repubblica”: “Perché uno scrittore dovrebbe modellarsi e diventare un prodotto?”.
Forse, nell’ambito della questione, è proprio questo il passaggio decisivo in quanto implica la scelta di conformarsi a mode e modelli non condivisi oppure di fare quello in cui si crede anche con la conseguenza di doversi separare dal destino della propria opera.
Alcuni pensano che chiunque scriva o dipinga o componga musica o eserciti una qualsiasi arte, una volta conclusa l’opera debba risolutamente allontanarsene, che comunque abbia il diritto o il dovere di lasciarla andare autonomamente per dove vuole, di andarci da sola o di farsi accompagnare da chi vuole. Ma non dall’autore. Che deve pensare ad altro. Deve fare altro.
Il suo impegno consiste nello scrivere, nel dipingere, nel comporre musica. Basta. E’ esclusa la promozione, la cura del mercato. Sono compiti che spettano ad altri.
Si tratta di un’idea ingenua, certamente; ora più che mai. Ma forse è un’idea di libertà. Forse è anche un gesto di rispetto nei confronti di se stesso. Uno dovrebbe chiedersi quanto tempo impegna a stare sui social, ad andare girovagando per serate, a rispondere alle solite domande esaltandone l’intelligenza anche quando non lo sono, a simulare felicità per i consensi, a valorizzare i dissensi perché il lettore ha sempre ragione, a dire è vero avrei dovuto scrivere così quando qualcuno ti dice che lui avrebbe scritto così, e che a quel personaggio avrebbe dato un diverso destino.
Uno dovrebbe chiedersi quanto tempo sbriciola per fare tutto questo e chi o cosa sta privando di quel tempo, perché sicuramente a qualcuno e a qualcosa lo sta negando: forse alle persone care, agli amici, a se stesso, forse ad un altro lavoro, un’altra pittura, un’altra scrittura.
Dice Jonathan Franzen che uno scrittore non può produrre un buon lavoro senza circondarsi con una palizzata per poter controllare quel che proviene dall’esterno. Controllare significa distinguere, verificare, valutare la significatività delle storie e delle cose.
Allora è sulla palizzata che probabilmente è necessario ragionare, cercando di capire se il collocarsi in una condizione di distanza consenta di comprendere meglio quello che accade e, di conseguenza, di raccontarlo nel modo più efficace. E’ indispensabile cercare di capire se coinvolgersi ed implicarsi risulti più funzionale all’opera oppure se l’opera per realizzarsi compiutamente necessiti di una condizione di quasi estraneità da parte dell’autore rispetto all’esperienza del reale.
Ma questa è una contrapposizione che fa parte della questione antica, per cui non vale la pena neppure di soffermarsi.
Quello che più potrebbe interessare, forse, consiste nel capire quanto, nel tempo che attraversiamo, colui che scrive, colui che dipinge, debba partecipare direttamente ai fatti per poterli comprendere e rappresentare. Se sia necessario separarsi dagli accadimenti con una palizzata o non considerarla nemmeno come ipotesi e scendere per la strada, confrontarsi con la realtà dei fatti.
Dunque, Jonathan Franzen parla di “buon lavoro”.
Questa affermazione provoca la domanda su che cosa possa intendersi per buon lavoro, quale scrittura, quale pittura, quale musica, possa essere considerata buona.
Rispetto a questo è inevitabile – e bello – che chiunque abbia una risposta diversa da quella di chiunque altro.
Allora si potrebbe anche rispondere che un buon lavoro è quello che crea qualcosa che prima non c’era. Oppure: che una buona scrittura, una buona pittura, consistono nella rielaborazione, riformulazione, risemantizzazione dell’esistente. Oppure: che un buon lavoro è quello che osservando il mondo com’è racconta il mondo che diventerà.
Forse il buon lavoro è proprio quello che riesce a raccontare il mondo che diventerà. Il modo per fare un lavoro del genere non esiste a priori. Bisogna provare e riprovare: andandosene per le strade e poi magari mettendosi al riparo dietro una palizzata, comunque osservando il mondo da una pluralità di prospettive per poi scegliere quella che meglio delle altre si addice al proprio modo di essere, di esistere, al proprio pensiero, al proprio sentimento, al proprio stile.
Quando si dice che una scrittura, una pittura, un’arte in genere (ri) crea il mondo, lo inventa, forse significa questo. Forse significa che l’opera realizza un dislocamento, un movimento in avanti nel tempo, uno scrutamento dei paesaggi e poi elabora il loro disegno. Che a volte può essere migliore, che a volte può essere peggiore, che può essere più brutto, che può essere più bello di quello che si vede dalla strada o dal bordo della palizzata. Forse il buon lavoro di un’arte è una continua, incessante invenzione del mondo. E’ una risposta semplice e antica quanto la domanda, ma esprime il senso di un’ assoluta necessità.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, Domenica 29 luglio 2018]