di Luigi Scorrano
Ricordiamo oggi, magari con un sorriso, quello che è accaduto all’approssimarsi del nuovo secolo e di un nuovo millennio. L’attesa del 2000 da una parte agitava lo spettro di un millenarismo sentito sempre come foriero di catastrofi, da un’altra sommoveva appena la superficie di una routine che avrebbe continuato a proporsi oltre il varco del 2000. Ci si attendeva l’evento per eccellenza, lo straordinario da raccontare ai nipoti; invece, di là dalla soglia dell’attesa c’era solo la normalità della vita. Non è accaduto nulla, dunque, in quel passaggio e a partire da quello? E come si presenta – osservato nell’insieme o settorialmente – il primo decennio del nuovo millennio?
Osserviamo, qui, un settore particolare, almeno in alcuni suoi aspetti e attraverso un esame veloce: quello della produzione letteraria nel Salento. Per linee generali si può notare un grande fervore nella produzione di opere. Sembra che un tesoro, nascosto ed abbondante, sia venuto improvvisamente alla luce, e in quello ognuno ha potuto scegliere la propria parte. La poesia, regina della scrittura, stranamente risulta in calo; la narrativa si è presa una sorta di rivincita. Forse il legame con la poesia (con i Dioscuri Comi e Bodini) risultava inceppante. Una volta liberi da osservanze di questo genere, gli autori si sono mossi più agilmente e hanno fatto scelte meno condizionanti. Se i modelli poetici salentini erano Comi e Bodini, e soprattutto il secondo (poco o nulla poteva incidere il semisconosciuto Pagano), la prosa narrativa non aveva così stringenti punti di riferimento. Del resto, i narratori si erano educati su altri testi, non avventurosamente rispecchiati e rifluiti nelle loro invenzioni.
Per la poesia si è trattato, per così dire, di debodinizzare il Salento cercando temi e forme più consoni ad una realtà molto movimentata; per la prosa, ci si ancorasse alla storia dei luoghi o si uscisse dalla gabbia della ‘salentinità’, la ricerca è stata più ariosa e le possibilità della scrittura più varie e duttili.
Se si guarda per settori, si può cominciare da una benemerita opera di recupero, nell’ambito degli studi accademici, di voci del secolo passato che ebbero risonanza nazionale o mostrarono, ma senza trovare adeguati spazi, quello che potevano autori oggi da rileggere e la cui figura e la cui opera sono degne di ripensamento critico. Basta, per fare due esempi, riferirsi alla rinnovata attenzione per l’opera di Michele Saponaro (e si veda la riedizione di un suo romanzo, La casa senza sole, 2010) e di romanzi di Salvatore Paolo: ad opera il Saponaro di Enrico Tiozzo, che gli ha dedicato un corposo saggio critico, Lo spettatore della vita, 2010; i romanzi di Paolo ad opera o sotto la direzione di Antonio Lucio Giannone. Recuperi che contribuiscono a delineare un profilo della letteratura salentina (o di salentini) meno schiacciato sotto il peso di modelli d’obbligo. Anche la saggistica ha altro respiro: non più solo ricerca erudita ma anche originale proposta interpretativa. E vanno ricordati almeno i testi di Carlo Alberto Augieri, tra i quali La letteratura e le forme dell’oltrepassamento, 2002, e Leggere raccontare comprendersi. Narrazione come Ermeneutica, 2009. E per un panorama d’insieme della letteratura salentina per un arco temporale che si stende dal Sei al Novecento un buon servigio rende il volume Salento da leggere, a cura di A. L. Giannone e E. Filieri, 2008). Né mancano monografie dedicate a singoli scrittori. Affronta un tema specifico, la ricerca del profilo umano di un poeta, la monografia che Enrico Longo dedica a D’Andrea: Ercole Ugo D’Andrea. L’Uomo dentro il Poeta (2010); porta l’attenzione su uno dei ‘maestri’ di più giovani generazioni di scrittori Rossano Astremo in un convincente saggio esplorativo: Jack Kerouac il violentatore della prosa (2006).
La poesia, come s’è detto, non ha rivelato opere d’eccezione nel primo decennio del Duemila; c’è molto onesto esercizio di far versi e molte velleità probabilmente destinate a spegnersi in tempo breve. Almeno due riviste, l’immaginazione e l’incantiere, muovendosi su piani diversi, dedicano puntuale attenzione ai testi, ai lavori in corso, spesso di autori già ‘consacrati’ ma anche di autori giovani desiderosi di farsi conoscere. Per quanto riguarda singole esperienze ricordiamo Augieri che da molti anni sperimenta un suo solitario, un po’ cifrato, linguaggio. Esperienze disuguali ma interessanti (si fanno solo degli esempi qui ed in seguito) sono quelle di Maria Rita Bozzetti che, in Monade arroccata (2008), affida ad una pronuncia rara ed intensa un’ispirazione religiosa sempre difficile da tradurre in parola. All’insegna del Vangelo di Giovanni e del vetero-testamentario Qoelet sono indicate l’opzione cristiana di una vita che redime nel dolore la sua abiezione e la sua gloria e mostra la dura consistenza di un cuore che non si spetra e faticosamente risponde al richiamo salvifico. Della stessa autrice si veda anche il recentissimo Sulla soglia (2010), con il trasparente richiamo – nel titolo – di un luogo simbolico dell’esitanza. Nell’ambito degli affetti familiari e nel disegno di uno schivo rapporto generazionale s’inscrive, con estremo pudore, un colloquio col padre morto: interiore dialogo in cui ritornano i profumi dell’infanzia lontana e della giovinezza trascorsa e il gusto dell’esperienza matura, della ricchezza d’anima cresciuta col passare degli anni. Il libro s’intitola A mio padre scrivo. Poesie scelte di terra d’amore di tempo 1990-2004 (2004) di Antonio Mele, puntuto vignettista sotto il nome d’arte di Melanton. Un po’ alla rinfusa, e con esiti diversi ma tutti con una loro credibile ed intima giustificazione, si possono ricordare Luoghi e sogni dispari (2007) di Giuseppe Conte; H. Letture pubbliche (2007) di Elio Coriano; Dialoghi del cuore. Poesie (2009) di Antonio D’Elia – e altri titoli di questo autore prolifico ma disuguale -; Non è più stagione (2009) di Piero Pellegrino. Intensa per umana partecipazione la voce poetica di Annamaria Ferramosca ora antologizzata con traduzione inglese a fronte, in Other Signs, Other Circles (2009).
Come s’è accennato è la prosa narrativa a tenere il campo con opere pregevoli ed un generale tentativo di sottrarre ad una salentinità di maniera l’anima del Salento, le rapide trasformazioni di una terra vittoriosamente impostasi (in vari campi) all’attenzione dell’intera penisola italiana. Anche qui si procederà per esempi non senza ricordare le benemerenze di alcuni editori che hanno generosamente accolto nel loro catalogo voci significative della nuova produzione romanzesca: Manni, Besa e, in anni recentissimi, Lupo.
Si segnalano qui due opere di Raffele Gorgoni: Lo scriba di Càsole / Il segreto di Otranto (2004) e L’oratorio della peste (2006): la narrazione della vicenda otrantina è sottratta al modello Corti – che pesa su altre narrazioni sullo stesso argomento – e in una prosa piana ed elegante intreccia vicende esistenziali e riflessione su quello che è accaduto, in perfetto equilibrio affinché nessuna delle due prevarichi. Il neretino Livio Romano, dopo il fortunato esordio con Mistandivò (2001), passando per Porto di mare (2002), è approdato ad una narrazione ricca di umori satirici con Niente da ridere (2007), abilmente elevando ad una sorta di epica alla rovescia le trite vicende di una quotidianità un po’ folle o semplicemente incapace di rispecchiarsi nelle proprie insufficienze. Elisabetta Liguori si è imposta all’attenzione dei lettori con due convincenti prove narrative: Il credito dell’imbianchino (2005) e Il correttore (2007): interessante è nel dettato qualche battuta epigrafica («la verità ha la sua sintassi, proprio come ogni credo»; «Gli amici a volte sanno di te solo quello che eri»; «La stampa ha la memoria corta») come controcanto ironico alle citazioni dotte poste in cima d’ogni capitolo. La Liguori è poi passata alla narrazione a quattro mani in Tutto questo silenzio (2009) che ha come coautore Rossano Astremo. Più facile ed abbondante, ma pur sempre dignitosa, la produzione di Annalisa Bari; valga ricordare l’autobiografico Diamanti e ciliegie (2003), Il quarto sacramento (2005) non privo di qualche forzatura descrittiva, di qualche indugio sentimentale. Ultimo, per ora, nella produzione della Bari, Separé, che ripete motivi e limiti delle prove precedenti.
Legato al Salento e al suo territorio del griko è Il sole e il sale (1987, ma riedito nel 2005) di Rocco Aprile. Un affine legame, ma nella materia mossa ed in tanti modi ripercorsa dell’emigrazione, è riscontrabile nel racconto/teatro – un genere oggi sempre più diffuso – di Mario Perrotta, Emigranti Esprèss, che ha goduto di cordiale, e pensoso, interessamento. Di Antonio Errico, da tempo presente sulla scena letteraria salentina, si registrano qui due opere contrassegnate entrambe come “romanzo” ma che hanno più del poema lirico e sembrano dover conquistare interesse più che attraverso la lettura attraverso la declamazione, alla quale facilmente si prestano, la prima più che la seconda: L’ultima caccia di Federico re (2004) e Stralune (2008), in cui affiora qualche superstite traccia di bodinismo («e sola luce è accesa in piazza una sala da barba») sia pure a livello di citazione.
Il primo decennio del Duemila ha visto alcuni promettenti esordi: quello di Antonio Pagliara che, in Schioma (2007) delinea con partecipazione un accidioso mondo giovanile universitario, o quello di Giulio Palmieri che con Inganni (2010) ci fa ritrovare il piacere dell’arte del racconto, in un trio di narrazioni ambientate tra uno sconvolto presente ed un misterioso ed inquietante passato; o quello di Pierluigi Mele la cui vena lirica s’impone in una prosa dal tocco leggero in Da qui tutto è lontano (2009).
Notevole il romanzo ‘arrabbiato’ di Giuseppe Cristaldi, con il suo tono duro e la sua morale rigidezza. S’intitola Il metronomo capovolto(2007) il suo libro d’avvio; e le qualità del giovane scrittore dalla forte attenzione al sociale e dalla severa carica morale, hanno trovato conferma nel suo più recente lavoro, Belli di papillon verso il sacrificio (2010). Cristaldi deve solo guardarsi dalla affiorante tentazione a savianeggiare.
Ancora una presenza femminile s’impone in questo drappello di scrittori nuovi, attenti anche, e molto, alla qualità della loro scrittura, alle felici mescidanze di italiano/dialetto, di lingua della burocrazia e lingua del cuore, ma di un cuore che se palpita lo fa con la sorveglianza della ragione. Luisa Ruggio ha accostato la letteratura con Afra (2006), un’intrigante narrazione al femminile, poema della terra e del caldo nido dell’origine, dell’esistenza.
Paolo Vincenti cerca una sua linea di scrittura attraverso un mixage apparentemente stralunato di poesia e prosa, di memoria delle canzoni che hanno segnato certi anni e che ritornano in mente con un carico di nostalgia in più, all’insegna del tempo: quello vissuto, quello che si attende. Caleidoscopio che muta continuamente il suo disegno, la scrittura di Vincenti, ben calcolata e ben tenuta a bada, occhieggia ai miti d’una modernità che, costruita per frammenti, si rivela alla fine di una salda compattezza. Titoli: Danze moderne (I tempi cambiano) (2008); Di tanto tempo (Questi sono i giorni) (2010).
Non trascurabile, a rappresentare un modo di narrare e una forma di scrittura che non cerca la levigatezza dell’espressione, la produzione di Luigi Di Seclì; si ricordi Novellando (2008) in cui lo sguardo dell’autore si volge a considerare uomini e cose cogliendoli nel loro procedere negli «spinosi sentieri della vita».
Sul versante di una fedele operosità si pone Giovanni Bernardini, di cui ricordiamo qui Altri giorni, altri racconti (2008), che costituiscono una piccola summa delle esperienze narrative dell’autore. Nella pagina di Bernardini il realismo stempera la sua durezza rappresentativa in un intenerimento di partecipazione e di condivisione della sorte di protagonisti e comparse recitanti la loro vita, grama e scarsamente illuminata da qualche sorriso, sullo sfondo di un Sud patito nelle sue strettezze e nella sua rassegnazione. Alla suggestione del leggendario in un libro a due facce, quella del racconto e quella storico-erudita delle note, cede Carlo Stasi con Leucasia e le Due Sorelle. Storie e leggende del Salento (2008); e sul filo della tradizionale rappresentazione del Sud il numero degli autori è troppo ampio per poterne dare qui anche un veloce ragguaglio.
Ombre e luci, dunque, di una produzione animosa, di una scrittura alternativa a miti e forme del passato. Lo ha notato ragionevolmente Filippo La Porta nella prefazione all’antologia dal significativo titolo È finita la controra. La nuova narrativa in Puglia (2009): «[Gli scrittori pugliesi d’oggi] proprio come i loro coetanei delle altre regioni italiane sembrano quasi nascere culturalmente da se stessi…».
Che è un rischio e, insieme, un gran titolo di merito.
[Con il titolo Libro dopo libro il decennio letterario in «Almanacco Salentino 2011», a c. di Roberto Guido e Marcello Tarricone, Guitar Edizioni, Lecce 2011, pp. 40-41].