di Augusto Benemeglio
La più perfetta delle creature
C’era stato il polverone, il grido e la caduta, la liberazione, la conquista, poi Anita dalla pelle cupa, una creola dotata di vera dignità spagnola, che aveva antenati indiani e portoghesi. C’era stato il vento teso che si fa tempesta, il naufragio, la morte dei fratelli italiani, la luce fresca che segue sempre una tempesta, infine lo strazio dei ricordi, la solitudine, la disperazione… poi Anita, con il suo volto velato che si posava sull’oceano e andava alla deriva nel pizzo del suo strascico nuziale. Anita: una donna forte, coraggiosa, un’amazzone, ma anche una vera compagna, che gli avrebbe dato quattro figli e l’avrebbe amato come nessun’altra, per tutto il corso della sua breve vita, come lui aveva desiderato. “Avevo bisogno d’una donna che mi amasse subito!… sì, una donna!, e trovai Anita, la più perfetta delle creature…Da quel giorno non ho desiderato più niente. Il mio viso, come il viso del sole, era sfiorato dal suo sguardo, che era come una pioggia leggera, calma, sul mare”.
- Era agile come una gazzella scura
Le pietre sono il tempo, e Anita ora è pietra, alabastro risorgimentale. Le sue spoglie sono là, racchiuse nel marmo del suo mausoleo, a Roma, sul colle del Gianicolo, nel suo monumento a cavallo, con il figlio in braccio e la pistola in pugno, icona della pura amazzone, con i capelli lunghi e nerissimi raccolti nella crocchia, e il vento del sud sopra di lei, due secoli di vento, che si avvolge su se stesso e si sotterra nel giorno della pietra, come il villaggio sperduto in cui era nata, Morrinhas, nel Brasile meridionale, il 30 agosto del 1821, un villaggio di farrapos, straccioni, della provincia di Santa Caterina. Garibaldi l’aveva sognata nelle foreste del Rio Grande, tra raffiche turchesi di pappagalli in fuga, alberi ribollenti di corvi, e le raccoglitrice di manghi. La vide bella e quieta, colla blusa rossa e un fiume di capelli neri, tra gli alti girasoli. Era una pausa della luce, un sorso di acqua di fonte, e i suoi seni ampi e sodi maturavano sotto i suoi occhi. Il corsaro la vide forte e ambrata, agile come una gazzella scura, leggera come una brezza marina, fiammeggiante nella veemenza di un tramonto tropicale. “Tutte le donne riograndesi sono belle di forme, e generose nel donarsi, ma Anita era il mio ideale, il mio sogno pensiero che si fa donna, il mondo vero, la mia vita, e la mia morte”.
- Devi essere mia
Poi la rivide, nella realtà, questa figura sognata, vagheggiata e fu a Laguna, il piccolo porto di Santa Caterina, diventato repubblica indipendente con il nome di “Giuliana” ( perché si era in luglio), imbandierato delle nuove insegne verde bianco e giallo oro; la rivide sul molo, con il cannocchiale, dalla sua nave in rada, ed era lei, in tutto, nell’alta statura, nella fierezza, nel seno prepotente, nel passo sicuro. Scese a terra, e la incontrò nella casa dove viveva. Era il 27 luglio 1839 e le cose intorno a loro ardevano. Andarono entrambi in estasi. “Restammo entrambi a guardarci reciprocamente come due persone che non si vedono la prima volta, e che cercano nei lineamenti l’una dell’altra qualche cosa che agevoli una reminiscenza, che appartenga al sogno”. Tu devi essere mia, le dice in italiano. E poi, in portoghese, le chiede qual è il suo nome. Aninhas, dice la ragazza. Nel mio paese si dice Anita. Per me sarai per sempre Anita. Io vivo sull’acqua, solo. Senza moglie e senza figli. Ho circumnavigato ogni mare, ogni possibilità umana, per arrivare a te, Anita, e finalmente ti ho trovata. Staremo sempre insieme.
- Non gli disse che era sposata
E Ana Maria Ribeiro Da Silva, detta Aninhas, mezza portoghese e mezza indiana, rispose: sì, sarò tua, e ci faremo una piccola casa sull’acqua grigia del porto, con le finestre sempre spalancate al sole, e anche alla pioggia e al vento. E se vuoi metteremo anche la bella bandiera della repubblica verde bianco e giallo oro, che mi ha donato mio zio Antonio, quando è entrato a Laguna, anche lui rivoluzionario, come te, Josè (Anita sapeva benissimo chi era lui, l’aveva visto in chiesa, tra i comandanti, e gli era parso meraviglioso, con la barba bionda e gli occhi azzurri). Ma non gli disse che era da quattro anni sposata con un calzolaio, Manoel Duarte Aguiar, Manoel dei cani, come lo chiamavano a Laguna, perché era contornato dai cani, a cui la madre, Maria Antonia de Jesus, vedova con tre figlie a carico, l’aveva promessa e data, a soli quattordici anni d’età, affinché la ragazza potesse sfamarsi. Aninhas non voleva mentire allo straniero, al bel corsaro dai capelli biondi come il sole, da cui era fortemente attratta (“Io dico Josè Garibaudi, ed è un nome che mi fa sognare una vita in paesi misteriosi, bellissimi, lontani. Viene da un paese chiamato Italia, l’hai mai sentito nominare?“, chiede alla sorella). Anita non disse che era sposata perché si sentiva una donna libera, e non tanto perché il suo matrimonio era stato uno sfacelo, e il marito, arruolatosi con gli imperialisti di don Pedro II, all’arrivo dei farrapos, i rivoluzionari a cui apparteneva Garibaldi, se ne era scappato da Laguna senza più dare notizie di sé (poteva già essere morto, come ipotizza qualche biografo), ma perché Manoel dei cani si era rivelato fin dall’inizio un vero e proprio “omme ‘e merda”, per dirla alla napoletana. La maltrattava e la teneva segregata in casa, era costantemente ubriaco, e quando era sobrio era un vero pusillanime, sempre dalla parte del più forte, meschino, vile e codardo. Insomma non degno di lei, non dico del suo amore, – che non c’era mai stato – ma della sua stima e del suo rispetto. E questo per una sorta di codice d’onore non scritto delle donne sudamericane do quel tempo, che erano forti e coraggiose, e spesso si dovevano difendere da sole dalla brutalità degli uomini e dalla natura esuberante, ma allo stesso tempo erano donne capaci di estrema fedeltà e dedizione, pronte a qualsiasi sacrificio e alla totale sottomissione ai loro uomini, che seguivano anche nelle imprese guerresche, purché questi si dimostrassero uomini veri, con le palle, dotati di coraggio, cuore, lealtà, con vivo senso della libertà, dell’ amicizia, spirito di sacrificio e solidarietà umana, valori che valevano più di qualsiasi legge scritta, e che Anita aveva trovato nel suo Josè. Una come lei, fiera e selvaggia come una cavalla di purissima razza, non si sarebbe mai adattata a vivere con un uomo che non amava e stimava, anche se le carte dicevano che era il marito. A dirla tutta, c’è chi, come Silvia Alberti de Mazzeri, una delle sue tante biografe, sostiene che il matrimonio tra Anita e Duarte non fu neppure consumato, ma forse questo è eccessivo. Quel che è certo e che tra i due l’amore non c’era mai stato, e che quando venne Josè Garibaudi, come lo pronunciava lei, la diciottenne Anita non esitò a lasciare tutto e tutti, familiari e amici, casa e patria, e a seguirlo dovunque, come un’ombra, stargli accanto per tutta la sua breve vita, dieci anni intensi, pieni di avvenimenti, di speranze, di promesse, ma anche anni di durissime privazioni, fortemente drammatici, che solo una donna come lei avrebbe potuto sopportare.
- I miei occhi ti scoprono nuda
Anita era alta, scura di pelle, robusta, dal corpo muscoloso e il petto sviluppato, viso ovale un po’ lentigginoso, capelli nerissimi, lunghi fino alla vita e sciolti, fiera e brusca nei movimenti, tanto risoluta nelle azioni di guerra da stupire lo stesso Garibaldi. Aveva gli occhi a mandorla, immensi, che gettavano una luce che poteva essere fiamma di sdegno (a soli quattordici anni aveva spiaccicato il sigaro sul viso di un carrettiere dallo sguardo troppo insistente e molesto), o torrenti languidi di una calda pioggia di sguardi, come lo furono per il suo Josè, a cui, (“a prima vista si riconosceva l’amazzone in lei”, dirà Gustav Hoffstetter, uno dei tanti ufficiali stranieri di Garibaldi), probabilmente insegnò a cavalcare (o quantomeno a perfezionare la sua tecnica), in quei primi giorni di intenso innamoramento. Cavalcavano insieme sulla spiaggia, dove rimanevano per ore e ore, spesso ci dormivano pure e ci facevano l’amore, sulla sabbia. Anita vi era abituata, fin da ragazzina, quando scappava di casa e restava via, col suo cavallo, per giorni e giorni, e alla sera dormiva su quella stessa spiaggia. “Anita , splendida amazzone, i miei occhi ti scoprono nuda e ti ricoprono di una calda pioggia d’amore. In te canta il vento di prima mattina, e i tuoi seni si fanno arpe profumate. In piena notte il tuo riso è come il fogliame fragoroso dei grandi alberi e quando scendi dal letto la tua camicia di luna è un lungo strascico azzurro.” Fu un’estate indimenticabile, giorni e notti di piena e pura sensualità, che proseguirono a bordo del Rio Pardo, la nave su cui Garibaldi aveva issato le proprie insegne di comandante della flotta della Repubblica di Santa Caterina. Ma intanto le truppe e la flotta imperialiste tornavano alla carica, e bisognava difendere la città.
- L’amazzone brasiliana è degna di lui
E Anita non si tira indietro. E’ al fianco del suo Josè, partecipa attivamente a varie azioni di guerra in cui rischiano entrambi di perdere la vita, come nello scontro con le navi dell’armata imperiale, nella baia di Imbituba, il 3 novembre 1839, durante la disperata difesa di Laguna. E’ lei stessa che spara la prima cannonata contro la flotta nemica preponderante, è lei che anima colla voce le ciurme sbigottite, è lei che soccorre i feriti, incurante della pioggia di pallottole e di una cannonata che la travolge fra i cadaveri. Ma Anita si rialza e in mezzo a membra e corpi mutilati, vesti e bandiere in fiamme che le intorno nell’aria, imbraccia un fucile e con il suo coraggio e il suo vigore restituisce fiducia ai marinai nascosti sottocoperta, gridando e agitando la sciabola: “Mais fogo , mais fogo!” E quegli uomini, sentendosi umiliare da una donna, reagiscono, riprendono a combattere, superano le difficoltà del momento. Ma la potenza della flotta imperiale è schiacciante, non c’è possibilità di difesa. Garibaldi la invia a chiedere rinforzi al generale Canabarro, ordinandole di far pervenire la risposta per mezzo di un portaordini. Ma l’amazzone brasiliana è degna di lui, e se ne va, passando sulla laguna alta sulla baia, sprezzante del pericolo, e porta personalmente la risposta, negativa, che convince il corsaro ad affondare le navi, mettendo però in salvo le munizioni, che vengono affidate sempre a lei, sposa-guerriera, la “fanciulla dinamitarda, che nel petto azzurro e nero del ferro esplode come sole ardente, che s’apre come ferita, che parla come un guerriero; a lei , figlia del fuoco, che ha dentro di se lo spirito del fuoco, e l’addensamento del sangue, il vapore rosso, e la preghiera retta che libera e sublima”. Dopo alterne peripezie, Anita, partecipa eroicamente all’ultima battaglia navale della Barra, il 15 novembre 1939, trasportando in salvo per dodici volte le munizioni di bordo con una piccola barca, da sola, sotto il fuoco nemico, prima che Garibaldi incendi le sue navi.
- La fanno prigioniera
La guerra prosegue via terra, con Anita sempre indomita, a cavallo, con la spada sguainata, sottoposta a prove incredibili di resistenza alla fatica, alla sete, alla fame, nutrendosi di sole bacche e radici per giorni e giorni, spronando i compagni di lotta ad andare avanti, a combattere, stanando gli imboscati e i vigliacchi a suon di fucilate. Anita, fiamma e fumo, grano di energia forgiata nel granito dormiente, salamandra, stella caduta nelle foreste del Rio Grande du Sol, è tra i protagonisti della battaglia di Santa Vittoria, del 15 dicembre 1839, in cui 500 repubblicani sconfiggono 2000 imperiali, ma nella battaglia successiva, di Curitibanos, del 18 gennaio 1840, viene fatta prigioniera, ma riesce a fuggire per tornare dal suo Josè, e quando le dicono che è morto, torna sul campo di battaglia, lo cerca tra i cadaveri a lume di una torcia, aggirandosi tutta la notte come una disperata. Lo piange morto, ma Josè è vivo, l’hanno visto combattere a pochi chilometri da lì, e allora lei accorre, è al suo fianco, galoppano ancora insieme e riescono incredibilmente a trovare il tempo anche per l’amore. “Io marciavo a cavallo con accanto la donna del mio cuore, degna dell’universale ammirazione…E che m’importava il non aver altre vesti che quelle che mi coprivano il corpo, e di servire una povera Repubblica che a nessuno poteva dare un soldo? Io avevo una sciabola e una carabina, che portavo attraversata sul davanti alla sella…La mia Anita era il mio tesoro, non meno fervida di me per la sacrosanta causa dei popoli e per un vita avventurosa…comunque andasse l’avvenire ci sorrideva fortunato, e più selvaggi si presentavano gli spaziosi americani deserti, più dilettevoli e più belli ci parevano”.
- Nasce Menotti
Non si fermano neppure quando Anita rimane incinta, anzi l’eroina prosegue a cavalcare, lotta, grida, cade, si rialza, torna in sella e vi rimane fino all’ultimo mese di gravidanza. E’ il 6 settembre 1840 quando nel piccolo villaggio di Mostazas, in una casa di campagna, nasce il loro primogenito, Menotti Domingo, con un’ammaccatura sulla testa, ricordo della caduta da cavallo. Josè e Anita ora hanno un figlio, ma mancano di tutto, perfino dei pannolini del piccolo, che avvolgono nel fazzoletto che il padre abitualmente porta al collo. Garibaldi va a procurarsi viveri e indumenti adatti al piccolo, ma il primo centro abitato è Settembrina, una località distante qualche centinaio di chilometri. Va sotto la pioggia torrenziale, attraverso campagne inondate, con la volontà disperata di un padre che deve far campare il proprio figlioletto. Anita rimane sola. La casa viene circondata dagli imperiali, ma ella riesce a eludere l’accerchiamento lanciandosi a cavallo, montando a pelo, seminuda e col neonato di soli dodici giorni in braccio appena avvolto nel fazzoletto dell’eroe, rimanendo nascosta nel bosco per quattro giorni al freddo e alla pioggia, alimentandosi con radici e frutti silvestri, mentre lo allatta; finché Garibaldi riesce a rintracciarla. Sono sfiniti. E intorno a loro è uno sfacelo, i soldati sono allo sbando più completo, ubriachi, incapaci di battersi, disertano, rimangono una quarantina di fedelissimi privi di tutto, col morale sotto i tacchi.
- Vanno a Montevideo
Ormai non c’è più scopo di continuare la guerra, dice Anita, guardando il bambino. E lui, che aveva pensato di combattere per il popolo contro la tirannia e il malgoverno, ora s’accorgeva che il popolo non stava sempre dalla sua parte, e che non erano solo i suoi avversari a conoscere il malgoverno e la tirannia, lui che aveva sperato che questa fosse una guerra nazionale, secondo il desiderio di Mazzini, ma ora vedeva la nazionalità sperdersi nelle pampas, e che ne era venuta fuori la solita guerra civile dove ci si scanna tra fratelli, e perfino gli italiani si trovavano in entrambi i campi e s’ammazzavano fra di loro, doveva ammettere che sì, Anita aveva ragione. No, non era così facile continuare a pensare a se stesso come a un cavaliere errante, con l’inebriante sensazione di stare dalla parte del giusto, del futuro, del progresso. Garibaldi, pur essendo un sentimentale, un romantico, un don Chisciotte, non poteva ingannarsi per lungo tempo. Alla fine, come tutti gli idealisti, restava ferito anche lui dalle lame affilate della dura realtà dei fatti e doveva ammettere che anche questa era una sporca guerra. Nell’aprile del 1841 chiede ed ottiene dal Generale Bento Gonçalves di lasciare l’esercito repubblicano In cambio dei servigi resi alla rivoluzione gli vengono dati 900 capi di bestiame, che lo trasformano in gaucho. Con Anita e il piccolo Menotti, si dirige verso l’Uruguay, dove c’è una forte comunità italiana, e dopo cinquanta giorni avventurosi, con ruberie dei gauchos da lui ingaggiati, le piene del Rio Negro, e le malattie delle bestie, percorrendo più di 600 chilometri, arriva a Montevideo, con le sole pelli di circa duecento animali da cui ricava appena cento scudi necessari per comprare un vestito per Anita e per sé. “Nessun comandante rivoluzionario sudamericano – annota Montanelli – fu pagato così poco”.
- Era morbosamente gelosa
A Montevideo, Anita e Josè, regolarizzano la loro posizione, si sposano nella chiesa di San Francesco d’Assisi il 26 marzo 1842, alla morte (presunta) del precedente marito di Anita, il calzolaio Duarte. Intanto avevano affittato una modesta casetta: una cucina dal soffitto basso e annerito dal fumo, due camerette, un terrazzino da cui si vedeva il porto, e un cortile con un pozzo. Era tutto ciò che desiderava Anita, indifferente agli agi e alle ricchezze, abituata ad adattarsi a una vita povera e difficile, ma felice di un’esistenza che le permette di ritrovare ogni giorno l’uomo a cui ha dedicato la vita. Ma lo tiene d’occhio, lo conosce bene, sa che è volubile, seduttore, e soprattutto sempre pronto a lasciarsi sedurre. Anita ora è solo madre e moglie perduta nel tunnel dell’onice, ma il fuoco della famiglia rimane la sua passione, la sua certosina pazienza, il suo tormento, mentre il corsaro José si è trasformato prima in venditore ambulante di casalinghi, con scarso successo, poi in professore di matematica e di storia e geografia nel collegio diretto da un sacerdote d’origine còrsa, padre Paolo Semidei, ma i guadagni continuano ad essere miseri, tant’è che in casa Garibaldi, allietata dalla nascita di un’altra bambina, Rosita, nata nel 1843 (successivamente nasceranno, il 22 febbraio 1845, Teresita e, il 28 marzo 1847, Ricciotti), non ci sono sedie sufficienti e mancano perfino le candele. Anita e José hanno un solo vestito, e i bambini si coprono alla meno peggio. Ma Anita, nonostante la povertà e l’isolamento dovuto alla sua rozzezza d’estrazione contadina, all‘analfabetismo, e al fatto che era una brasiliana di lingua portoghese, è ugualmente felice, e si fa in quattro: fa la madre, la moglie, ma fa anche la sarta, per contribuire al magro bilancio economico. “José, José, ora io sono sposa e madre. Non più guerrillera. Nel letto ora siamo in quattro, ma siamo una sola cosa, amore, spiga e fuoco. Un solo sangue ci scorre nelle vene, ed è come un fiume“. L’importante è che il suo José sia vicino a lei. “Affettuosissima, e con l’ amore devoto di una schiava – scrive di lei Jesse White Mario –, pronta a qualsiasi sacrificio per l’uomo adorato, Anita diventa selvaggia, allorché presa dall’incubo della gelosia. Ella non tollerava rivali e quando sospettava di averne una, si presentava al marito con due pistole in mano, una da scaricare contro di lui, l’altra contro il rivale”. Ora è gelosa di Mary Ausley, la moglie del rappresentante inglese a Montevideo e costringe Josè a tagliarsi barba e capelli, nel tentativo di renderlo meno attraente.
- Un’altra guerra
Ma il timore suo più grande è di vederlo di nuovo “sposato” alla guerra, e lei, con tre figli piccoli da allevare, non potrà essergli vicino. E la cosa puntualmente, fatalmente si verifica. Tra Uruguay e Argentina, scoppia la guerra dei fiumi, perché si combatterà prevalentemente sul Rio della Plata e sul Parana. E il Capo di Stato uruguaiano , generale Rivera, non dimentica che tra gli oltre cinquemila italiani che sono a Montevideo (un sesto della popolazione), nel suo paese c’è anche il famoso corsaro Giuseppe Garibaldi che ha combattuto per la repubblica riograndese. Gli offre il grado di colonnello e il comando della flotta, o meglio di quel che rimane della flotta, che è stata sbaragliata da quella argentina, comandata dal famoso ammiraglio Brown, un irlandese che era stato allievo di Nelson. E il guerriero italiano non può sottrarsi, in nome dei loro comuni ideali, per l’Italia, per l’umanità (il dittatore argentino Rosas è un bieco tiranno, spalleggiato dal traditore uruguaiano, generale Oribe). In realtà , il Nizzardo non vede l’ora di tornare combattere dopo quei mesi di vita mediocre, dopo quel pantano di monotonia in cui speranza, passione, consapevolezza di sé si spezzettano in umili tentavi di sbarcare il lunario, o vengono soffocate dai piagnistei di un bambino, o di una donna, sia pure la sua moglie ex guerriera. …E poi Montevideo, la città in cui vivere, è sotto assedio, un assedio che durerà oltre otto anni, e che farà parlare Alexander Dumas di “Nuova Troia”, “una lotta che servirà d’esempio alle generazioni venture di tutti i popoli che non vorranno soggiacere alle prepotenze”, e farà assurgere l’eroe biondo italiano a emblema, mito del coraggio e della libertà dei popoli, difensore dei deboli e degli oppressi. Grazie anche all’abile penna del romanziere francese, il personaggio Garibaldi diventerà presto famoso in tutta l’Europa. In effetti, i resti della flotta uruguaiana fatta a pezzi da Brown sono formati da quattro navi malmesse, e l’impresa appare subito disperata, impossibile, ma sono queste le situazioni che Garibaldi predilige, e ne darà ampia dimostrazione ottenendo l’ammirazione e il rispetto dello stesso ammiraglio Brown e di un giovane ufficiale, Bartolomeo Mitre, che combatteva in campo avverso, e che diverrà prima generale e poi presidente della Repubblica Argentina: “Lo vidi la prima volta al ritorno dal Rio Grande, dove aveva lasciato una fama romanzesca per il suo coraggio e per la sua elevazione morale. Lo sentii cantare l’inno della Giovine Italia con voce dolce e vibrante. Poi lo rividi in piedi sulla poppa della sua navicella armata, tranquillo, dominatore come il genio della battaglia, e mi sembrò che gli uomini e le imbarcazioni obbedissero all’impulso della sua volontà. E compresi il suo potere d’attrazione in mezzo al pericolo… Garibaldi sotto un’apparenza modesta e pacifica celava un genio ardente e una mente popolata di sogni grandiosi… L’impressione che ne ricevetti fu di una mente e di un cuore non equilibrati fra di loro, di un’anima infiammata da un fuoco sacro, votata alla grandezza e al sacrificio. Ne trassi la persuasione che era un vero eroe in carne e ossa, con un ideale sublime, con teorie di libertà esagerate e mal digerite, in possesso tuttavia di elementi per eseguire grandi cose…”.
- La morte di Rosita
Ci aveva visto giusto. Ma la sorte di Montevideo non è in gioco sul mare, o sui fiumi. La lotta essenziale ha luogo a terra e anche in questo campo Garibaldi, diventerà – anche grazie alla stampa europea e degli Stati Uniti, – una figura eroica. In quel tempo, tutti gli abitanti di Montevideo, assediata, si erano impegnati nella lotta, avevano patito la fame, la sete, la carestia, erano stati colpiti da malattie infettive e soprattutto i più deboli, gli anziani e i bambini erano morti. Tra questi, anche la a piccola Rosita. Aveva a poco più di due anni d’età ed era morta a seguito di un’epidemia di scarlattina. Anita era impazzita di dolore, aveva delirato per giorni e giorni, fino al punto in cui José aveva dovuto portarla con sé, in guerra, per starle vicino in qualche modo. Anita ora fa l’infermiera di campo, curai e assiste i feriti, ma continua ad essere in preda a una grande depressione per la scomparsa della piccola Rosita. Partecipa alla famosa battaglia di San Antonio del Salto dove Garibaldi, con soli 190 uomini, sconfigge 1.500 avversari del generale Oribe. Ma è l’ultima volta. Torna ben presto a occuparsi dei suoi figli nell’umile casetta di Montevideo, oggi divenuta museo, soffrendo privazioni di ogni genere. Nel giugno del 1847 Garibaldi è addirittura nominato comandante generale di tutte le forze di difesa di Montevideo, ma si dimette quasi subito dalla carica e – spinto dalle notizie incoraggianti che arrivano dalla penisola- decide di tornare in Italia, dopo aver rifiutato una grande estensione di terra, con relative case e bestiame, che il Presidente Fruttuoso Rivera gli aveva offerto in dono per i rilevanti servizi prestati a favore della Repubblica d’Uruguay.
- Anita scopre l’Italia
Anita si imbarca qualche mese prima di lui, il 27 dicembre 1847, insieme ai suoi figli Menotti, Teresita e Ricciotti, accompagnata da un giovane ufficiale della Legione Italiana di Montevideo, Medici, e sbarca a Genova. Poi raggiunge Nizza, e va a vivere con la madre di Garibaldi, con cui non avrà un buon rapporto. Donna Rosa è una fervente cattolica praticante, la guarda con sospetto, perché sa del precedente matrimonio della “brasiliana”, e non è del tutto convinta che lei sia vedova. Anita per diversi mesi convive malissimo con quella suocera diffidente e ostile e se non fosse per i bambini se ne tornerebbe in Brasile. Ma aspetta con ansia il suo José, che è partito in aprile del 1848 con la nave “Speranza” insieme a 61 legionari italiani. Garibaldi, dopo varie peripezie in un Europa infiammata dalle rivoluzioni (il 1848 è l’anno delle barricate. Si spara a Parigi, Vienna, Berlino, Amsterdam, Budapest, Bruxelles, Milano, Napoli, Palermo, ovunque si chiede, e si pretende con ogni mezzo la libertà e l’indipendenza), accolto trionfalmente, approda a Nizza il 21 giugno 1848 e ricomincia subito a combattere, inevitabilmente, irrevocabilmente “sposato” alla guerra. Va a Firenze, Bologna, Ravenna, poi sul lago Maggiore, infine viene chiamato a Roma, dove è caduto il Papa e si è instaurata la Repubblica con il triumvirato Mazzini-Saffi-Armellini.
- I garibaldini sono una massa di briganti
Siamo alla fine del quarantotto, e Garibaldi entra a Roma con la sua pittoresca legione fatta di “uomini – scrive lo scultore inglese Gibson – abbronzati dal sole, coi capelli lunghi e arruffati, e i cappelli conici ornati da piume nere e ondeggianti, coi visi allampanati bianchi di polvere e incorniciati da barba incolta, con le gambe nude, che si accalcano intorno al loro capo, che, montato su un cavallo bianco, era perfettamente statuario nella sua bellezza virile”. I garibaldini, dirà Pisacane, Capo di Stato Maggiore dell’Esercito, “sono una massa di briganti“. In effetti nella legione regnano confusione, indisciplina e rissosità, ma quando si tratta di battersi nessuno degli altri contingenti (i bersaglieri di Luciano Manara, i “borboni” di Pisacane, i “pontifici” di Roselli) lo sa fare meglio delle “camice rosse”. Garibaldi, afflitto da reumatismi, che lo tormenteranno per tutta la vita, portato a spalla dal suo attendente, il gigantesco negro Aguilar, che va in giro con una lancia dipinta di rosso, viene raggiunto dalla moglie, il 15 marzo 1949 subito dopo la proclamazione ufficiale della Repubblica Romana. Anita rimane qualche settimana con il suo José, lo assiste, lo cura, lo rianima, ci fa l’amore, e concepisce il quinto figlio, ma quando il generale si riprende le intima di tornare a Nizza, dai figli. E lei stavolta obbedisce. Intanto il corpo dei garibaldini si è allargato, gli uomini, studenti, borghesi, ragazzi giovanissimi provenienti da ogni parte d’Italia, sono arrivati ad essere circa un migliaio. Ma le cose, a Roma, si complicano. Dopo l’appello di Pio IX alle potenze cattoliche per il ricupero del potere temporale, tutti, Austria, Francia, Spagna, Napoli, il Granducato di Toscana, inviano uomini e armi a Roma. Alla fine se ne conteranno ottantaseimila, ordinati e ben equipaggiati, contro i complessivi circa 20mila volontari degli eserciti della Repubblica, sparsi nel vasto territorio dello Stato Pontificio, per lo più raccogliticci e senza nessuna esperienza di guerra, tranne i veterani di Garibaldi. A Roma ce ne sono circa la metà, compresi i bersaglieri lombardi di Luciano Manara. Siamo uno a otto, o uno a nove, situazioni in cui Garibaldi si è venuto a trovare nel passato, ma ora è diverso. Roma non è Montevideo, e le possibili entrate in città sono infinite, impossibili da presidiare. I primi ad intervenire sono i francesi comandati dal generale Oudinot, che il 30 aprile 1849 sferrano l’attacco verso il Gianicolo e Villa Sciarra. Sono più di 30mila uomini muniti di numerose batterie d’artiglieria, un parco d’assedio vasto, e validi reparti del genio. La lotta è dura, feroce, spietata, impari. Ma il solito Garibaldi non molla di un centimetro, ed è l’unico, con le sue leggendarie camice rosse di Montevideo, che riesce a battere i francesi, che nel frattempo si sono impadroniti di Villa Pamphili.
- La fuga
La situazione precipita rapidamente, Mazzini lo chiama, gli chiede un’opinione confidenziale sul da farsi, lui risponde: “Giacché mi chiedete ciò che io voglio, ve lo dirò: qui io non posso esistere per il bene della Repubblica che in due modi: o dittatore il limitatissimo, o milite semplice. Scegliete”. E’ evidente che ci sono stati dei contrasti con il Comandante in capo dell’esercito, il generale Roselli, un romano, ex ufficiale del genio dell’esercito pontificio, che non ha nessuna esperienza di questo tipo di guerra, ma anche con Carlo Pisacane, ex ufficiale borbonico, che non fa mistero del suo disprezzo per gli uomini comandati da Garibaldi. Il dilemma rimane irrisolto. Garibaldi continua a battersi come un leone, con episodi di grande eroismo, ma non gli viene concesso di adottare i suoi metodi da guerrillero sudamericano, (come ad esempio inseguire l’esercito francese in rotta, dopo la prima battaglia sul Gianicolo: “Noi avremmo potuto, profittando della sua debolezza e della sua paura, ricacciarlo in mare”), che lo hanno portato nel passato a combattere e vincere anche in situazioni più disperate di queste. Ma ormai non c’è più nulla da fare, i capisaldi della resistenza, il Vascello, San Pancrazio, Villa Spada, sono caduti, schiacciato da forze infinitamente superiori non ha più scampo, l’unica via che gli rimane è la fuga.
- Riecco Anita la guerrillera
E’ in questa situazione di estremo caos, con i francesi che bombardano Villa Spada, che viene di nuovo raggiunto da Anita. E’ il 26 giugno 1849 e Anita ha viaggiato per mare fino a Livorno, proseguendo per Roma in carrozza, nonostante sia incinta di quattro mesi. Dentro di sé ha deciso che non avrebbe mai più lasciato il marito, unica sua ragione di vita. E a nulla valgono le insistenze di José affinché si metta in salvo, perché Roma sta per essere presa dai francesi. ma lei non lo fa neppure finire di parlare che eccola già vestita da uomo, con in capelli tagliati, in uniforme da ufficiale dei legionari, pronta a partire, insieme a lui, coi volontari garibaldini. Eccola, come ai bei tempi, cavalcare nell’avanguardia, al fianco del suo José. Eccola, con l’abituale fierezza di amazzone, gridare il suo disprezzo ai codardi che sbandano per l’attacco di pattuglie austriache alle porte di San Marino. Ma in realtà Anita soffre terribilmente gli infiniti disagi di questa affannosa fuga. Viene colpita da una forte febbre, deperisce, s’indebolisce rapidamente. Ma Garibaldi rifiuta di arrendersi agli austriaci, vuole raggiungere a tutti i costi Venezia, che ancora resiste (capitolerà il 22 agosto 1849), e supplica Anita di rimanere in quella ospitale terra di rifugio. Tornerà a prenderla quanto prima. Ma Anita non ne vuole sapere: “Tu vuoi lasciarmi”, gli dice. E’ sola, in terra straniera, di cui parla a mala pena la lingua, non ha più nemmeno il conforto degli amici venuti con lei dall’Uruguay, tutti morti, o in marcia con Garibaldi. I fuggiaschi proseguono la marcia attraverso sentieri poco battuti, qualcuno si ritira, altri si sperdono. Anita è consumata, divorata dalla febbre, soffre la sete, si ristora con un melone, frutto di stagione. A Musano, nella casa parrocchiale, riposa col marito (faranno riconsacrare la chiesa, contaminata dal nemico numero uno del papato), arrivano a Cesenatico, porto di pescatori, dove Garibaldi, con Anita, sempre più grave, s’imbarca su un bragozzo per raggiungere Venezia, seguito dagli altri fuggiaschi. Navigano tutta la giornata, seguendo da lontano la costa. Ma a Goro, a ottanta chilometri da Venezia, la flottiglia dei bragozzi viene avvistata da un brigantino austriaco, che spara due cannonate intimorendo i pescatori. Che si arrendono. Ma prima fanno in tempo a sbarcare i passeggeri non graditi. Garibaldi prende tra le braccia Anita, scende nell’acqua fino all’altezza del petto, e raggiunge la spiaggia percorrendo 400 metri a guado, saluta i compagni, don Bassi, il cappellano dei garibaldini, Giovanni Livraghi, tornato in Italia con lui sulla “Speranza” da Montevideo, Angelo Brunetti, capopopolo romano detto Ciceruacchio, coi figli Luigi e Lorenzo rispettivamente di sedici e tredici anni. Saranno tutti fucilati dagli austriaci.
- Anita non vuole rimanere sola
Rimane con il solo Leggero, al secolo il maddalenino Giovan Battista Coliolo, uno dei reduci di Montevideo, che si mette in contatto con il colonnello Nino Bonnet, i cui fratelli hanno combattuto e sono caduti nella difesa di Roma. Bonnet gli fornisce abiti e lo aiuta nella fuga, una penosa marcia di ore su un terreno difficile. Gli dice che lo può mettere in salvo verso la Toscana e gli impone di separarsi da Anita, che, adagiata su un carro trainato da buoi, sembra ormai agli estremi. Bonnet dà a Garibaldi un suo abito, è sera, viene una barca a prelevarlo, per condurlo attraverso la laguna. Ma Anita si attacca al marito. Non vuole rimanere sola. Garibaldi guarda Bonnet: “Voi non potete neppure lontanamente immaginare quanti e quali servigi mi abbia reso questa donna… quale e quanta tenerezza ella nutra per me! Io ho verso di lei un immenso debito di riconoscenza e d’amore… Lasciate che mi segua!”. Ma ormai si è troppo ritardati l’imbarco e tutto si complica. I barcaioli, insospettiti e timorosi della rappresaglia austriaca lasciano i passeggeri a metà strada, ma non li denunziano. Bonnet ottiene la cooperazione dei barcaioli più coraggiosi, si rimettono in moto, dopo cinque ore raggiungono la Chiavica di Mezzo, sull’argine sinistro del Po. E’ mezzogiorno del 4 agosto 1849, e Anita è ormai in agonia. E’ impossibile continuare a trasportarla. Avvisato, accorre , con un biroccio, Battista Manelli, un patriota conosciuto da Garibaldi. Anita viene adagiata su un materasso e dei cuscini. E’ morente. Il biroccino procede lentamente, come un carro funebre, sotto il sole cocente del pomeriggio di agosto. Garibaldi segue Anita a piedi e terge con un fazzoletto una spuma bianca che esce dalle labbra della moglie agonizzante. A sera, alle Mandriole, poco distante da Ravenna, alla fattoria Ravaglia, li attende un medico. In quattro prendono il materasso dagli angoli, trasportano Anita nella camera da letto dei Ravaglia. “Nel posare la mia donna in letto, scoprii sul suo volto la fisionomia della morte. Le presi il polso…più non batteva! Avevo davanti a me la madre dei miei figli ch’io tanto amavo! Cadavere!”
- La morte di Anita
E’ una morte misera, quella di Anita, come misera è stata la sua vita. Muore su un carretto, o su un letto altrui, vestita di panni regalati per carità, muore lontano dalla patria e dalla famiglia. Ha lasciato tutto e tutti, anche i figli (li ha raccomandandoti al padre negli ultimi momenti di lucidità), per stare fino alla fine vicino al suo uomo, sua sola ragione di vita e l’unico conforto è stato quello di averlo avuto accanto nei momenti estremi. Ora il suo José piange la sua fanciulla dinamitarda, ed è un pianto senza fine. Anita non si sveglierà più, non aprirà più gli occhi, non si aggirerà più come un sole insonne nella notte nera e bianca in cerca del suo José; ora la memoria Brucia, è fatta di lacrime salate, è nube, pioggia, neve ardente, ormai i fiumi del suo corpo sono essiccati, i paesaggi nei suoi occhi dissolti, l’acqua e l’aria dei suoi pensieri dissolti. Tutte le cose d’intorno soffrono, anche l’erba e gli insetti ostinati si fermano. E già s’innalzano muri di pietra nella memoria. Ma deve andare, è braccato, non può sostare. “Poveraccio – diranno i fratelli Ravaglia–, era già uscito, quanto rientra, va verso la fredda salma, vi sin getta sopra con tutta l’anima, e si scioglie nuovamente in amarissimo pianto. Le toglie la sopravveste, i sandali, un fazzoletto e un anello e me li porge. No, teneteli voi, generale, è giusto così, diciamo mio fratello ed io. E poi che non può aspettare oltre. Deve andare. E’ sfinito. Mi chiede un tozzo di pane. E mi dice di dare sepoltura cristiana alla salma, che sia portata a Ravenna e le si facciano solenni funerali. Si è scordato che è massone, ed ateo, e che non ha in tasca neppure una moneta per pagare il biroccio che ha portato Anita,,. La sera stessa di quel giorno, 4 agosto 1849, avvolgemmo la salma in un lenzuolo, scavammo di fretta una fossa poco profonda in un terreno incolto, a circa un chilometro dalla fattoria, e vi deponemmo il cadavere, coprendolo con un po’ di terra.”
- Non era Giovanna D’Arco, ma solo una donna innamorata
Sei giorni dopo una ragazza giocando nei paraggi di quella tomba, vede sporgere dalla sabbia una mano e un avambraccio rosicchiati dalle bestie. Vengono avvertiti i gendarmi, il cadavere è dissotterrato, esaminato e sezionato dal medico legale. Viene riconosciuto per quello della “donna che accompagnava Garibaldi” e sepolto di nuovo in un vero cimitero, grazie alla pietà di un povero parroco locale, don Francesco Bozzacchi, che ricompone i resti di Anita, in avanzata decomposizione, e celebra un funerale religioso. Nel 1859 le spoglie di Anita sono per volontà di Garibaldi trasportate a Nizza; oggi riposano tumulate nel monumento innalzatole sul Gianicolo il 30 maggio del 1932 e inaugurato da Benito Mussolini con queste parole: “Anita, Madonna laica del nostro Risorgimento, simbolo del coraggio femminile che nessun altra donna italiana seppe eguagliare, conciliò sempre durante la rapida avventurosa sua vita i doveri della madre e della combattente intrepida al fianco di Garibaldi”. Certamente Ana Maria de Jesus Ribeiro possedeva un fascino ed un carattere davvero eccezionali per la sua epoca, e forse per ogni epoca. Ma Anita – dice Montanelli – non era Giovanna d’Arco, e non capi mai gli ideali del marito, tuttavia li condivise sempre fino in fondo, fino a morirne, ritenendoli sacrosanti perché tali lui li riteneva. “Anita si sacrificò e morì per suo marito, – scrive Mino Milani, uno dei garibaldinologi più noti – e il suo unico ideale fu la famiglia, o più precisamente l’amore coniugale, e va riconosciuto che si tratta di valori oggi desueti.”
- Il dono più prezioso
Tu gridi come ad un uomo cui sia morta la moglie, come un dio che ha perduto la sua razza, – dice don Giovanni Verità a Garibaldi, mentre lo accompagna lungo la strada di Modigliana per l’attraversamento degli Appennini, – ma già domani griderei di meno. Perché sarai libero e rivedrai il mare che è stato il tuo primo amico, e sarà anche l’ultimo. Fu profetico in tutto, questo prete carbonaro. E l’eroe gli donò la cosa più preziosa che avesse: l’anello nuziale di Anita.