Di mestiere faccio il linguista 27. Maturità disastrosa

di Rosario Coluccia

Avevo promesso di dedicare la rubrica di oggi alla punteggiatura, ma decido di cambiare argomento, sollecitato dalla lettura dei giornali di questi giorni. Posticipo quindi di una settimana l’articolo sulla punteggiatura. Oggi parliamo delle risposte date dai ragazzi agli esami della maturità 2018. Non mi invento nulla, traggo le informazioni dal sito skuola.net, vi si raccolgono resoconti degli studenti che hanno assistito agli esami orali dei loro compagni.

C’è di tutto, risposte sbagliate, a volte esilaranti, si affollano in tutte le discipline. Italiano, lingua e letteratura: «Dante è nato a Milano». No, era di Firenze, fu esiliato in città del Veneto e dell’Emilia, morì a Ravenna. L’esilio gli viene profetizzato nel famoso canto XVII del Paradiso: «Tu lascerai ogni cosa diletta più caramente […] Tu proverai sì come sa di sale lo pane altrui» (il pane di Firenze è senza sale, lo impastano così ancor oggi). Ancora. «D’Annunzio è un estetista». No, forse quel ragazzo voleva dire un esteta; la parola estetista in Italia si usa solo dal 1963, indica ‘chi è esperto in cosmesi, in cure o in prodotti di bellezza’ e D’Annunzio (morto nel 1938) non lavorava in un salone di bellezza. Ancora. «I Malavoglia furono scritti da Gabriele D’Annunzio». No, li ha scritti Giovanni Verga, quel libro è il capolavoro del verismo italiano, di cui Verga è il capofila. Ancora. Letteratura straniera: «Gente di Dublino», la famosa raccolta di racconti dello scrittore irlandese James Joyce «è ambientata a Londra». Ma il titolo stesso dell’opera parla di Dublino, non di Londra. Ancora. Storia: «la Seconda Guerra Mondiale è cominciata nel ’45»; «i partigiani combatterono al fianco di Mussolini»; «le Brigate rosse hanno agito durante il ventennio fascista». Ancora. Geografia: «Torino è il capoluogo della Toscana», «l’Umbria è una città vicina ad Assisi». Ancora. Storia dell’arte: «La Gioconda è stata dipinta da Giotto».

Il problema non consiste tanto nella mancanza di conoscenze elementari, cose che tutti conoscono e che ragazzi che hanno alle spalle 13 anni di scolarità incomprensibilmente ignorano. Colpisce la mancanza di connessioni logiche, l’incapacità di riflettere su dati contenuti nella stessa domanda, che quindi dovrebbero rendere quasi automatica la risposta. Come si fa a dire che «Gente di Dublino» è ambientato a Londra se Dublino è nel titolo dell’opera? O a credere che Dante è nato a Milano se tutti sanno che l’italiano che noi parliamo e scriviamo si è formato sulla lingua fiorentina della Divina Commedia e degli altri grandi autori toscani del Trecento, Petrarca e Boccaccio in primo luogo (e il milanese non c’entra)? Non va meglio con la storia, anche quella recente, come dimostrano le risposte sulla seconda guerra mondiale, sui partigiani, sulle brigate rosse. Per quei ragazzi in procinto di chiudere il ciclo delle scuole secondarie (molti andranno all’università) il passato si appiattisce in una nebulosa indifferenziata, la memoria si contrae in un eterno presente in cui gli avvenimenti sono fluttuanti e i protagonisti sono intercambiabili. Invece non possiamo rinunziare alla scansione del tempo, se vogliamo capire. Anche all’università, agli esami, gli studenti in difficoltà nel comprendere la logica e la successione dei fatti, obiettano: «Ma sa, professore, a me le date non piacciono, non me le ricordo proprio». Invece sono fondamentali, non si tratta di nozionismo o di minuzie irrilevanti. Come si fa a capire qualcosa se non lo collochiamo nel tempo, se ignoriamo quel che viene prima e quel che viene dopo?

Di fronte a disastri del genere, sorge spontanea la domanda. Quale esito ha l’esame dei ragazzi che danno queste risposte, sono promossi o bocciati? Non abbiamo ancora i dati di quest’anno, ma quelli del 2017 sono indicativi. L’anno scorso i promossi alla maturità sono stati il 99,5%, sono aumentati i 100 e i 100 e lode. È andata meglio dell’anno ancora precedente (il 2016), quando i promossi erano stati il 99,4 per cento. Introdotta nel 1923 da Giovani Gentile, la maturità all’inizio registrava una percentuale di promossi attorno al 60 per cento. Cifra salita al 70 per cento negli anni Sessanta, e poco sopra il 90 per cento già negli anni Ottanta. Conclusione. C’era una volta quell’esame, passaggio epocale nella vita di ogni giovane, fonte d’ansia per generazioni di studenti. Per anni le incertezze e i timori prima degli orali hanno ispirato racconti, film, canzoni. Ora l’esame di Stato ha cambiato aspetto: era un incubo, è diventato una formalità. I bocciati sono scomparsi, aumentano le votazioni alte, il numero di chi si diploma con il massimo dei voti è in crescita. Insomma, gli studenti italiani sono tutti bravi. In molti casi bravissimi. Sempre più preparati, numeri alla mano. Ma è davvero così? È migliorata la preparazione degli studenti o sono diventati più di manica larga i commissari?

Colpisce un altro dato: i voti migliori si registrano per la maggior parte nel Meridione. La prima regione per risultati scolastici è la Puglia. Qui lo scorso anno si sono diplomati con lode 934 studenti, il 2,6 per cento del totale (in Italia la media è dell’1,1 per cento). Segue la Campania, con 713 e la Sicilia con 500. In Lombardia solo 300 gli studenti hanno ottenuto la maturità con 100 e lode. Un terzo dei pugliesi. In Veneto sono ancora meno, 276. E ancora: in tutta Italia gli studenti che hanno raggiunto il 100 rappresentano, in media, il 5,1 per cento del totale. In Calabria la percentuale sale all’8,3 per cento. Mentre in Friuli Venezia Giulia scende al 3,7 per cento. È evidente. Troppa discrezionalità, troppo diverse le valutazioni tra una scuola e un’altra.

Un’altra prova dà risultati opposti. Da una decina d’anni nelle scuole italiane si svolgono le cosiddette prove Invalsi che servono per valutare l’apprendimento degli scolari di alcune classi delle elementari e delle medie. Vige un sistema di controllo piuttosto rigoroso. Quest’anno tutto è avvenuto online: ai ragazzi venivano mostrate domande estratte da una gigantesca banca dati. La novità tecnologica ha impedito ai ragazzi di copiare e ai professori di dare l’aiutino. Il primo risultato sul quale riflettere è numerico. Di fronte a una percentuale di promossi nelle scuole praticamente del 100 per cento, al test di italiano in terza media ha ottenuto risultati che oscillano dalla sufficienza in su soltanto il 65,6 per cento degli studenti. E gli altri promossi, come mai ottengono risultati scarsi o scarsissimi, comunque insufficienti? Questa è la media nazionale. Se scomponiamo i dati per macroaree, un livello soddisfacente raggiunge il 73% degli studenti del Nord Ovest, il 72% degli studenti del Nord Est, il Centro si colloca al 71%, il Sud si ferma al 56%, Sud e isole insieme precipitano al 54%. Dunque ci sono differenze fortissime tra scuola e scuola e nel Mezzogiorno circa la metà degli studenti è ad un livello inferiore al necessario.

I dati inducono a riflettere sull’equità e sulla funzionalità del sistema scolastico italiano, la scuola non offre le stesse opportunità a tutti gli studenti. Questo è il nodo cruciale. L’uguaglianza delle opportunità di formazione, diciamo la democrazia se vogliamo usare una parola importante, è legata ad una scuola pubblica che funziona bene ovunque, nelle grandi città e nei piccoli centri, nelle zone ricche e nei quartieri poveri, al Nord e al Sud. Garantendo (oltre a valutazioni il più possibile uniformi) una formazione soddisfacente su tutto il territorio nazionale. È futile lamentarsi della scarsa preparazione degli studenti se non si decide di cambiare rotta. La strada da percorrere non è quella della facilitazione generosamente concessa a tutti, è quella (molto più faticosa) della serietà e dell’impegno. Purtroppo gli orientamenti generali e le disposizioni ministeriali non lasciano ben sperare, nella scuola e nell’università.

Parlo dell’università, che conosco un po’. Le statistiche segnalano che l’Italia è agli ultimi posti in Europa per numero di laureati. E invece ne servirebbero di più, per rispondere alle sfide della complessa società odierna. Ma a condizione che siano ben preparati, altrimenti rischiano la disoccupazione, come i numeri ci ricordano tragicamente. Qual è stata la scelta? Per aumentare il numero dei laureati si è deciso di abbassare il livello medio della preparazione. Le normative ministeriali da anni privilegiano un equilibrio perverso di crediti, ore di lezione, ore da studiare a casa, quantità di pagine da leggere, tutto a scapito degli obiettivi scientifici. Più laureati, ma di qualità nettamente inferiore. È quello che io chiamo il “metodo atrazina” (che è un veleno). Alcuni forse ricordano. Agli inizi degli anni novanta del secolo scorso ci fu un allarme: l’uso massiccio di diserbanti chimici nei campi contaminava le falde, in molte regioni la quantità di atrazina nell’acqua era al di sopra della norma, bere quell’acqua poteva far male. I governi di allora eliminarono il problema con un decreto che aumentava la quantità di atrazina tollerabile dall’organismo umano. Avvelenata ieri, inquinata fino a un momento prima, quella stessa acqua divenne potabile e innocua in virtù di un decreto governativo. Ma la qualità restava pessima, anzi dannosa.

Così è per i laureati in Italia. Ne servono di più? Procuriamoceli abbassando il livello della preparazione. Se poi restano a lungo disoccupati, poco importa. No, così non va. Davvero non va.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di Domenica 15 luglio 2018]

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