di Gianluca Virgilio
VI
Economia. Joseph Stiglitz, La grande frattura, Mondadori, Milano 2016, p. 39 ci parla di economia: “Oggi, la sola Cina detiene più di mille miliardi di dollari in cambiali americane pubbliche e private. L’indebitamento estero complessivo dei sei anni dell’amministrazione Bush ammonta a circa 5000 miliardi di dollari. Molto probabilmente questi creditori non chiederanno indietro i loro soldi: se mai lo facessero, si scatenerebbe una crisi finanziaria globale. Ma c’è qualcosa di preoccupante nel fatto che il paese più ricco del mondo non sia in grado neanche lontanamente di vivere con i propri mezzi.” (L’articolo apparve per la prima volta in “Vanity fair” nel dicembre 2007).
Non solo gli americani non sono in grado di vivere con i propri mezzi, ma anche tutti gli europei, italiani in primis. Il nostro tenore di vita è di gran lunga superiore ai nostri mezzi. Ora, la domanda è la seguente: fino a quando? Ricordo solo che Stiglitz, nel libro citato, p. 65, con termini molto comprensibili, ci dice qual sia “la prima legge dell’economia e cioè che nessuno ti regala niente”.
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L’aneddoto dello zi’ Tonio soprannominato Beverone, raccontatomi da Antonio Prete. Si diceva dello zi’ Tonio Beverone che durante la sua vita non avesse mai bevuto l’acqua ma solo il vino delle sue vigne, in una quantità tale che, riunita nei vagoni cisterna che venivano utilizzati per il trasporto del vino al Nord, avrebbe coperto la distanza tra Lecce e Milano: migliaia e migliaia di vagoni! Eppure, mai nessuno lo vide ubriaco!
Si racconta, inoltre, che una sera lo zi’ Tonio Beverone si recava dai parenti di un paese vicino per festeggiare una qualche ricorrenza, portando con sé un orciuolo contenente cinque litri di vino. All’ingresso del paese, lo fermano alcuni doganieri, intimandogli di pagare la tassa come condizione per il suo ingresso nel paese col vino. Ma lo zi’ Tonio Beverone si rifiuta di pagare l’ingiusta gabella, anche quando i doganieri insistono nel dire che non sarebbe passato senza pagare. Allora lo zi’ Tonio fa un passo indietro, porta l’orciuolo alla bocca e, d’un fiato, davanti ai doganieri esterrefatti, beve tutto il vino fino all’ultima goccia. A quel punto le guardie si fanno da parte e lo fanno passare senza fargli pagare la tassa, con grande contentezza dello zi’ Tonio Beverone.
Si tramanda che lo zi’ Tonio facesse bere il vino anche ai figli e nipoti poco più che neonati, poiché diceva che bisognasse abituarli fin dall’infanzia a bere questa bevanda, come era accaduto a lui, che già da piccolo il padre lo aveva tirato su col vino. Le donne di casa, che la pensavano diversamente, dovevano sempre sorvegliare perché i bambini non bevessero il vino, che, come si sa, fa male, secondo il detto “caffè e vino sono veleno per il bambino”.
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Girovagando in moto per le strade di Galatina, ho visto un albero maestoso, un pino, nascosto nel cortile della vecchia sede abbandonata dell’Istituto Tecnico Commerciale. Da allora, sono ripassato più volte per rivedere l’albero, come se ne sentissi il richiamo. Com’è vero quello che diceva Stendhal: “È tra gli alberi che l’uomo è più felice” (Stendhal alla sorella Pauline da Parigi, 28 ventoso 11 [19 marzo 1803], in Il laboratorio di sé. Corrisposndenza (1800-1806), Aragno, Torino 2016, p. 102). Si potrebbe abbattere quel brutto edificio e piantare altri alberi.
Che questo breve scritto valga come segnalazione perché venga salvaguardato un monumento arboreo seminascosto agli occhi dei miei concittadini e come proposta per un buon intervento urbanistico.
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Il caso, figura dell’inatteso, dell’impensato, del non mai prima detto, che improvvisamente si concretizza in un ritrovamento, un incontro, un pensiero, una parola nuova.
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Citazioni. Dal momento che spesso in questo Zibaldone galatinese faccio uso delle citazioni tratte dalle mie letture, riporto quanto scrive in proposito Claudio Magris, Il rischio della citazione, nel “Corriere della Sera” del 17 dicembre 2015, p. 40, su cui pienamente concordo: “Poche cose come una citazione aiutano a cominciare uno scritto o comunque a rafforzarlo. La citazione è una specie di chiave musicale, dà un’intonazione al discorso e conferisce autorità a quanto si scrive e alle tesi che si sostengono. Inoltre è una sintesi che semplifica ed esprime con chiarezza le idee che vengono espresse.”
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Sulla scrittura. Nei periodi di più intenso lavoro scolastico, quando sono sotto pressione dalle diverse attività che incombono, mi capita di sentire più urgente il bisogno di scrivere. Quale nesso stringe impegno scolastico (ma potrei dire, in generale, lavorativo) e scrittura? Forse è lo stesso nesso che stringe necessità e libertà; ovvero, quanto più si è costretti ad adempiere ai doveri imposti dal lavoro, tanto più si avverte il desiderio di esprimere quanto si agita dentro di noi. Sono due movimenti del tutto concomitanti, da considerare insieme, come sistole e diastole nel battito del cuore. Forse non ci sarebbe scrittura se non ci fossero situazioni costrittive, tali da rendere necessario e irrinunciabile il ricorso alla scrittura medesima.
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L’opinione politica. In George Sand, Indiana, Peruzzo Editore, Milano 1986, p. 100, leggo quanto segue: “Quanto a me, credo che l’opinione politica d’un uomo sia l’uomo tutto intero”. Che cos’è “l’opinione politica d’un uomo” se non l’espressione più profonda della qualità del suo rapporto con gli altri uomini? Essa esprime, inoltre, la relazione che quest’uomo intrattiene col mondo e il suo approccio alla vita. Ecco perché Sand può dire che l’opinione politica è “l’uomo tutto intero”, e credo che abbia pienamente ragione. Conoscendo l’opinione politica delle persone noi maturiamo un giudizio, il che ci consente poi di regolare meglio il nostro rapporto con loro.
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La gloria della lingua. Guardo i miei studenti mentre scrivono il tema ed è un piacere seguire i loro occhi che vagano qua e là alla ricerca della parola giusta e poi consultare il vocabolario per capire meglio un verbo, un aggettivo, ecc. Ci accomuna la lingua, ci tiene insieme il suo uso, ci rende contenti e paghi la parola propria, adeguata, congruente (rem tene, verba sequentur), l’idea espressa con chiarezza: la gloria della lingua…
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Il coraggio di pensare. “Se solo avessi il coraggio di pensare tutto quello che so…”, scrive F. Nietzsche a Franz Overbeck, lettera 798 da Nice, 12 febbr. ’87, nell’Epistolario 1885-1889, Adelphi, Milano 2011, p. 321. Sapere e pensare, e di mezzo c’è il coraggio. Perciò si dice di un pensatore che è o non è coraggioso, poiché non sempre ha il coraggio di pensare fino in fondo quello che sa.
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Scrittura e morale. Quando la scrittura fa della morale la sua bandiera, allora mostra subito il suo limite. Essa non si apre al campo infinito delle possibilità, ma si rinchiude nei confini angusti dell’accusa e del risentimento. Lo scrittore moralista leva il suo dito accusatore perché è animato dalla passione del giusto e dell’ingiusto, del bene e del male, del vero e del falso, e in questa passione rimane irretito.
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L’interessante. A proposito de L’uomo senza qualità di Robert Musil, Thomas Mann, Nobiltà dello spirito, Mondadori, Milano 1997, p. 768, afferma: “Ma è ancora possibile leggere romanzi “come si deve” – voglio dire, romanzi che appunto non siano altro che “romanzi”? No, davvero non si può più! Il concetto di interessante è ormai da tempo in piena rivoluzione. Nulla è più insulso, in definitiva, dell’”interessante”.” Queste parole scriveva Mann nel 1932 nel suo breve scritto dal titolo Robert Musil, “L’uomo senza qualità”; eppure, si sfornano ancora centinaia di romanzi più o meno “interessanti”. Ora Mann ci fornisce l’autorità per dire che “interessante” è sinonimo di “insulso”.
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Gli incapaci. Che cosa vuol dire Thomas Mann quando nelle Lettere dalla Germania, in Nobiltà dello spirito, cit., p. 1537, scrive: “… ciò di cui non si è capaci, quella è l’arte.”? Parrebbe che l’essere capaci di fare qualcosa non abbia nulla a che vedere con l’arte. La capacità infatti assicura la realizzazione dell’opera, ma non il suo carattere artistico. Solo l’incapacità decide il destino d’un artista, poiché solo questa condizione impone lo sforzo supremo che imprime il suggello dell’arte all’opera. Moltissime persone, direi la maggior parte degli uomini, sono capaci, mentre pochissimi sono gli incapaci ovvero gli artisti.
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Il lavoro degli insegnanti. A quanti pensano che gli insegnanti lavorino poco, io contrappongo quanto scriveva Bertrand Russell, Elogio dell’ozio, Longanesi e C., Milano 1974, p. 179 (ma la prima pubblicazione in lingua inglese è del 1935): “Purtroppo è molto difficile che insegnanti sovraccarichi di lavoro mantengano intatta l’istintiva simpatia per i giovani; essi finiscono col provare nei loro confronti quel che uno sguattero prova nei confronti delle patate da pelare. Non credo che un uomo o una donna debbano esercitare l’insegnamento come loro unica professione: bisognerebbe insegnare due sole ore al giorno trascorrendo il resto del tempo lontano dai bambini.”
L’insegnamento non può essere l’unica professione dell’uomo, perché non si insegna nulla se si insegna soltanto; e non può durare più di due ore al giorno, perché gli studenti non sono patate da pelare e l’insegnante non è uno sguattero. Come si potrebbero dire la stesse cosa meglio di così?
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Liceo classico in estinzione. Nessuno vuol saperne del latino e del greco, del mondo antico, della storia. La cultura è sempre più appiattita sull’oggi, sull’utile, sullo “spendibile”, su quanto serve al mercato. In qualche facoltà universitaria si continuerà a studiare l’antico, ma solo perché dovrà sopravvivere qualcuno in grado di indicare ai turisti qualcosa da vedere durante le loro passeggiate in cerca d’antichità.
Penso al richiamo di F. Nietzsche: “Si deve serbare quanto possediamo di antico: serba noi stessi.” (Lettera 786 a Meta von Salis da Nice (France) pension de Genève 1° gennaio 1887, in Epistolario 1885-1889, Adelphi, Milano 2011, p. 306.
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Ricordi. Davanti allo specchio del bagno, intento a farmi la barba. Improvvisamente, senza apparente motivo, mi ritorna il desiderio di rivedere Urbino, ed in effetti rivedo le sue strade, le case, mi sembra di respirare l’aria frizzante delle dolci colline urbinati. Ho trascorso ad Urbino quasi cinque anni della mia vita, gli anni della formazione universitaria. Da allora sono passati più di trent’anni. Rimangono dentro di noi le impressioni, i ricordi, le sensazioni, ecc. Allora mi dico che di questo siamo fatti, di residui del passato, di cose ormai svanite, di cui continuiamo a nutrirci: il morto nutre il vivo.
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Rientrare nel nulla. Cavato un dente, ecco che giunge il ragionamento all’alba che interpreta l’evento come il ritorno al nulla di una parte, sia pure piccolissima, di me; se vogliamo, come un anticipo del mio rientro nel nulla che avverrà con la morte di tutto il mio corpo.
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Nichilismo. Per vivere senza inganni, occorre imparare a trattenere la morte dentro il senso profondo del vivere, essere intimamente persuasi che tutto quanto ci circonda, tutto quanto ci accade è e non è allo stesso tempo. Questo nichilismo è il punto di partenza di ogni ragionamento non menzognero. Il sapere che nulla esiste apre la strada all’accoglimento fiducioso di tutto quanto può ancora accadere, al divenire, che è vita ulteriore.
Il pericolo del nichilismo è che esso diventi cinismo ovvero indifferenza verso ciò che diviene, o, nel peggiore dei casi, desiderio di distruzione (fine a se stesso o per motivi poco nobili) dell’essere.
Il nichilismo, dunque, si apre verso esisti positivi e negativi, come tutto ciò che esiste ed ha vita. Sta a noi, a ciascuno di noi, fare i conti con esso, accogliere il futuro e fuggire il pericolo.
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Il segreto della scrittura. “Le secret, c’est d’écrire n’importe quoi, c’est d’oser écrire n’importe quoi, parce que lorsqu’on écrit n’importe quoi, on commence à dire les choses les plus importantes. Il faut un peu laisser la main courir sur le papier. Alors un autre la conduit, quelqu’un qu’on ne connaît pas et qui porte notre nom. Quel âge a-t-il ? Mille ans, je crois”. (Journal, VII. Le bel Aujourd’hui (suite), 15 juillet 1956. Julien Green, Oeuvres complètes, vol. V, Gallimard, Bibliothèque de la Pléiade, Paris 1977, p. 41).
Quanto scrive Julien Green mi fa riflettere sulla mancanza di intenzione delle mie scritture. Voglio dire che a me è sempre capitato di scrivere senza uno scopo, un “progetto” o un “piano”, alla qual cosa ha sempre corrisposto una sorta di meraviglia: mi stupisco di aver scritto quello che ho scritto! Da questa esperienza ho imparato che non bisogna mai forzare la mano alla scrittura, non bisogna mai voler scrivere, ma bisogna prendere la penna in mano quasi senza pensarci, e cominciare a scrivere.
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Genealogia. Stamane, nel dormiveglia, mi sembrava chiarissimo, cioè luminosissimo, il fatto ch’io fossi l’esito ultimo di una lenta evoluzione che da Pietro, mio nonno paterno, porta a me attraverso mio padre Giuseppe. Per primo fu Pietro (nato nel 1887) a distaccarsi dalla terra, ma fu mio padre (nato nel 1921) il primo della genealogia a divenire un intellettuale. Io sono solo la continuazione-evoluzione di mio padre. Prima di mio nonno Pietro, vi era suo padre Fortunato (nato nel 1847), e prima di Fortunato, Donato (nato circa nel 1820), dei quali so poco o nulla. So solo che furono entrambi dei piccoli contadini, e che lentamente furono espulsi dalla proprietà della terra, e che questa espulsione si compì con Pietro e si sublimò con Giuseppe ed ora ulteriormente si sublima con me, Gianluca (nato nel 1963).