di Augusto Benemeglio
Maria e il Salento
Ora che Maria Corti, la lombarda-salentina, non c’è più da molti anni, mi torna in mente in modo quasi ossessivo quella volta che la vedemmo, insieme, per l’ultima volta, nel porto di Gallipoli, dove impazzava il Premio “Barocco”, che tu avresti potuto goderti dall’alto della casa di tua suocera, senza essere mescolato in quella folla di trentamila spettatori vestiti a festa; ma forse noi siamo stati tra i pochi a cui è rimasto impresso un fatto singolare, che è un po’ il simbolo di quanto possa valere oggi la cultura in uno spettacolo del genere, diciamo pure uno spaccato del costume dei nostri tempi.
Noi avevamo ben in mente – per averne più volte discusso – della Maria Corti bambina, che seguì il padre nei suoi trasferimenti in Salento, della Maria che s’innamorò del Salento e non lo tradì mai per tutta la vita ; della Maria Corti eccelsa filologa, innamorata di Dante, scrittrice, critica letteraria, accademica dei Lincei e della Crusca, fondatrice e direttrice di Riviste letterarie fondamentali come “Strumenti Critici” e “Autografo”, creatrice presso l’Università di Pavia del Fondo Manoscritti di autori moderni e contemporanei, un prezioso archivio (unico in Italia) di materiali autografi; una che aveva ricevuto il massimo riconoscimento dall’Accademia dei Lincei , unica donna tra i fondatori dell’Accademia del Salento nella famosa estate lucugnanese del ‘50, e parliamo di Comi, Corvaglia, Ferrazzi, Macrì e Pierri. Fu lei ad essere chiamata per rifare il sentiero delle rose e dei gigli selvatici sotto l’ “Albero” di Comi, a ritessere ideologie funerarie dei paesi grecanici, al seguito delle prefiche che fanno la “moroloja” (le lamentazioni durante i funerali), nel cuore di paesi e civiltà dove la morte era la fine di tutto, viaggio senza ritorno , “chisura niura e tanta” (campagna oscura e sterminata), “panta nifta scotinì” (sempre notte buia).
Trattata a pesci in faccia
Una come lei che aprì porte, finestre e riviere alla comprensione di una cultura sommersa che per secoli aveva convissuto con la nostra, a prezzo di sofferenze e laceranti contrasti; una come lei che dopo aver visto e conosciuto tutto quanto c’era di meglio, in termini di intelligenza, nobiltà, bellezza, in una sera d’estate del duemila sale sul fastoso palco odoroso di mare ciprie e lustrini, allestito nell’antico porto di Gallipoli, per il fantasmagorico premio “Barocco”, ma lei è lì per ritirare il ripristinato e inutilissimo Premio Salento, inserito dal presidente della Provincia in quel contesto da Barnum, un vero e proprio guinnes del kischt nel suo genere, (intendiamoci bene, Maria si è recata su quel palco solo per amore e nient’altro che per amore del Salento, sua patria dell’anima, non certo per l’importanza del premio in sé, avendone collezionati miriadi e di ben altro livello), ed ecco che viene trattata a pesci in faccia da un’ affascinante presentatrice dell’ovvio e della banalità qual è Milly Carlucci. (Certo, deve essere anche una buona cavalcatrice, la Milly, se riesce a rimanere sempre in sella al cavallo della Rai, nonostante i frequenti sbalzi d’umore). Forse la conduttrice non sa nulla di Maria Corti, né del suo romanzo, L’ora di tutti, “affascinante affresco storico sui martiri d’Otranto con tutto il suo ardente carico di giovinezza e d’amore, di passione e di sangue”, uno dei migliori libri che siano stati scritti sul Salento, di grande attualità e potenzialità simbolica.
La sua ora
Forse Maria dovrebbe ricordare la sua profezia: “A ciascun uomo nella vita capita almeno un’ora in cui dare prova di sé: viene sempre, per tutti” . Ma la Corti, ormai ottuagenaria, credeva che la sua ora fosse già venuta e che la prova di sé lei l’aveva già data, quando era anche una fanciulla carina e graziosissima, piena di vita, freschezza e rossori e afrori e vagava nel Salento come una libellula, inseguendo sogni con quel suo sorriso che era un incanto.
E nonostante amasse moltissimo la vita, a 23 anni aveva preso la prima laurea in letteratura, a ventiquattro la seconda in filosofia, a ventisei era di ruolo in una scuola secondaria salentina, e aveva insegnato, a tutti i livelli, da Lecce a Pavia, dove ha fondato una vera e propria scuola di pensiero, lasciando una sterminata legione di allievi, anche qui nel Salento (Brizio Montinaro è uno degli esempi) che l’adoravano. Per non parlare del lavoro scientifico fatto spesso in condizioni estreme, viaggiando in terza classe con gli operai pendolari, da cui nascerà il romanzo Il trenino della pazienza, poi pubblicato con diverso titolo (Cantare nel buio), gli studi decisivi sulla morfologia e sulla sintassi poetica italiana delle origini… Maria credeva di aver fornito prove di alto livello in tutti i campi (dai suoi studi dei poeti greco-bizantini al medioevo e all’amatissimo Dante, e poi Leopardi e Montale e da ultimo Fenoglio, ai romanzi, all’insegnamento) e della cultura popolare del Salento (pizzica compresa) vera antesignana e messaggera del Tacco d’Italia, ben prima del sopralluogo di De Martino.
Salvatore Toma
Da ultimo, poi, nel Salento aveva scovato un poeta autentico, Salvatore Toma, appena conosciuto dagli addetti ai lavori e da un gruppo ristretto di amici, che lei invece ha fatto assurgere a dignità nazionale, facendo pubblicare da Einaudi (è il secondo poeta salentino, dopo Bodini, a cui riesce una cosa del genere) una silloge di poesie postume, Il Canzoniere delle morte . Secondo Maria, Totò Toma è una figura emblematica della nostra letteratura, un raro caso di maudit italiano, una sorta di poeta maledetto, alla Rimbaud, alla Verlaine, alla Baudelaire, tutta gente che non scherzava con l’oppio e l’assenzio e un tipo di vita sregolata, dissipata. Secondo la Corti anche Toma ha cercato la morte nella bottiglia di vino, che è stata una delle cause della sua malattia e della precoce scomparsa (è morto a 36 anni, di cirrosi).
Il poeta di Maglie portò quell’accelerazione esistenziale, come un sogno di un lontano mattino, un vagheggiamento di purezza assoluta, che rese candido, innocente e commovente l’incontro con il suo “canzoniere”. Ma forse la morte gli venne incontro non perché lui l’avesse corteggiata vagheggiata sospirata, ma semplicemente perché era venuta “la sua ora”. E ciascuno di noi ha la “sua ora”.
Boccadirosa
Anche per Maria evidentemente la “sua ora” non era ancora venuta e se ne accorse quando andò a ritirare il “Premio Salento”. Fu un’ora grottesca, più che umiliante. Chiamata sul palco delle meraviglie, con scie odorose di ballerine discinte, triti cantanti e ingrassati e attempati ex goliardici della TV, la Corti s’avvicinò al microfono convinta di dover dire due parole di ringraziamento, ma veniva dapprima bloccata e poi invitata a farsi da parte, trattata praticamente come un’intrusa, dall’avvenente e fragrante Carlucci- “Boccadirosa” che l’aveva aggredita: “Cosa vuole fare, Signora?”. Maria balbettò qualcosa… Non si era intimidita neppure di fronte a Einstein, Marconi, Fermi, Montale e Pirandello… e ora non sapeva che dire mentre veniva ricacciata indietro dagli inservienti. Era venuta la “sua ora”, quella di scontrarsi sul palcoscenico con la meravigliosa immaginifica “Boccadirosa” ed era ovvio che risultasse perdente. “Ma si può vincere anche essendo perdenti”. E infatti Maria Corti incassò il colpo da gran signora quale sempre fu nel corso della sua bella, nobile e preziosa vita, senza fare nessun accenno di protesta o lamentela, mentre “Boccadirosa” continuò (e tuttora continua imperterrita) a blaterare, facendo piovere parole come se fossero coriandoli, o caramelle, o cioccolatini sulla gente estasiata, porgendo con scaltrezza le grazie del suo corpo ancora avvenente e quel suo sorriso scintillante, un sorriso senza confini, avrebbe detto l’indimenticabile Sandro Ciotti.
Roma, 2014