di Maurizio Nocera
Già nel 2013, in Viaggio nel Salento magico, Federico Capone anticipava alcuni spunti sul tarantismo che oggi, in queste Osservazioni, approfondisce in chiave demologica e musical-popolare. L’obiettivo del suo studio è chiaro fin dalle prime pagine, quando afferma che di tarantismo, forse, in questi anni si è parlato finanche troppo, sino al punto di snaturarne l’«anima popolare che lo ha mantenuto in vita fino ai giorni nostri», così che egli vuole «offrire alcuni strumenti per navigare nuovi tratti di storia, nuove vie, fornendo una serie di testimonianze già note nella prima parte, e letture nuove nella seconda, per dimostrare che il tarantismo non si è esaurito. Per dirla in una parola, l’oggetto della ricerca, in storia non più che altrove, non si esaurisce, si cerca… con l’osservazione» e, quasi a ribadire il fatto che la ricerca non si sia esaurita, egli aggiunge: «il tarantismo […] tutto sommato è ancora giovane, le origini risalgano al basso Medioevo, affonda le sue radici nel mondo antico; esclusivo della Puglia e di Terra d’Otranto, ha paralleli extra europei e, ancora, collocato nel quadro dell’incontro fra Islam e Cattolicesimo, diviene successivamente materia da argomentare con parametri della magia naturale e, più in là, medici non meno che simbolico-tradizionali, da leggere in chiave positivista o (neo)umanista o, ancora, con approccio antropologico e sociologico… tutto ciò a conferma che ha uno svolgimento articolato, come ogni cultura d’altronde, ed è per alcuni aspetti “vittima” del pensiero dominante, per altri forma di resistenza a quello egemone».
Questa sottolineatura appare fondamentale, poiché consente all’Autore di passare dal fatto storico all’attualità: «mentre il tarantismo viene modellato e descritto dall’esterno, contemporaneamente, si rafforza grazie ai protagonisti che lo vivono e lo mantengono in vita, adeguandolo a tempi e luoghi».
Ritengo giusta tale testimonianza, perché effettivamente è quanto abbiamo visto accadere negli ultimi 50 anni. Abbiamo letto in Francesco De Raho (Tarantolismo, 1906) e poi in Ernesto de Martino (La terra del rimorso, 1961) che il fenomeno, così come loro lo avevano vissuto e studiato era in via di estinzione, per cui quella tipologia fenomenica non esiste più e non sarà più osservabile. Per intenderci, non si potranno più osservare le tarantate che danzavano altalenandosi appese ad una fune legata al soffitto di una stanza (aioresis) che De Raho vide di persona, né quelle che Ernesto de Martino potè osservare danzanti attorno ad un lenzuolo bianco. Quel tipo di manifestazione non esiste più. È morta e sepolta. Quelle danze e quelle movenze esistono, oggi, solo nelle fiction, perché le condizioni strutturali e sovrastrutturali che le determinavano non esistono più nella cultura e nella coscienza del popolo.
Il tarantismo contemporaneo è tutt’altra cosa e Federico Capone lo sa: è quello delle feste popolari paesane, dove i Comitati per le feste non chiamano più le famose bande musicali ad allietare la popolazione con musiche e canti, ma band di musici della pizzica, perché è questo che vogliono le nuove generazioni. Classico esempio di musica e canti collegati al tarantismo collettivo di questi tempi è La notte della taranta di Melpignano. Qui non esiste più la classica sofferente che chiede la grazia ad un qualsiasi protettore di ragni o serpenti, affatto, oggi chi si affascina del ritmo della pizzica, in quei momenti in cui esplode la nota “indiavolata”, come la definitiva lo pseudo sciamano di Nardò Luigi Stifani, balla, suda, si dimena, si “stanca”, poi fa l’amore con chi gli sta vicino, raggiungendo così la dimensione della sua catarsi. Tutto questo significa vivere e rivivere il fenomeno che nei suoi millenni di esistenza si è sempre evoluto così come mutavano le situazioni e le generazioni umane. E c’è di più, perché l’autore arriva ad individuare anche nel Reggae+Hip Hop locale nostrano una forma di ritmo collegato ai ritmi della pizzica-tarantata.
L’autore si chiede dove può stare oggi il luogo nel quale si espleta il fenomeno. Non c’è molto da cercare; un tempo era il circondario territoriale di Galatina (città immune dalla sofferenza del ragno) oggi è in un qualsiasi altro luogo dove dei buoni musici, che conoscono il ritmo e i canti della pizzica, riescono a scaldare i cuori e le membra di chi, ad un certo punto, si sente sospinto da una forza interiore a muovere i piedi e danzare.
Nel capitolo La tarantola di Puglia, nel quale in una magistrale sintesi, l’autore compendia le considerazioni fatte sul fenomeno da Leonardo da Vinci, Sante Ardoini, Niccolò Perrotti, Girolamo Mercuriale, tutti del XV e XVI secolo, e ancora Francesco Serao e Giorgio Baglivi (secc. XVII e XVIII), dimostra, testimonianze alla mano, che, almeno dal XI secolo il fenomeno è tipico della regione Puglia, quando Goffredo Malaterra descrisse un’epidemia da ballo, di cui si lamentarono dei soldati salentini dell’esercito normanno, probabilmente provenienti dall’hinterland di Taranto che, nei dintorni di Palermo (Monte Pellegrino) si rifiutarono di scendere in battaglia. È verosimile l’ipotesi secondo cui è da allora che si cominciò a parlare di tarantati, cioè di gente strana proveniente da Taranto che ballava.
In merito alla provenienza dell’etimologia della parola Taranta, l’autore dimostra quale sia stato il percorso ad essa collegato. Tuttavia, oggi, grazie alle scoperte archeologiche, che stanno permettendo una migliore conoscenza delle antiche radici della regione o sub regione che dir si voglia (l’antica Japigia, poi Calabria, poi Messapia e infine Terra d’Otranto, comprendente un vasto territorio che andava da Leuca a Ostuni e da qui a Massafra ed anche oltre; oggi la denominazione più usata per questo territorio è Salento) mi viene da introdurre un altro elemento, finora poco considerato.
Al tempo della Messapia (VI-III sec. a. C.) questo territorio era segnato da una guerra tra la città di Taranto (fondata da Sparta) e i suoi alleati reggini con il resto del territorio della stessa regione, in particolare quello che ancora oggi noi conosciamo come Grecìa Salentina, comprendente però anche Galatina e Gallipoli (i cui nomi sono di derivazione greca) oltre ai comuni ancora oggi considerati grecofoni: Calimera, Carpignano Salentino, Castrignano dei Greci, Corigliano d’Otranto, Cutrofiano, Martano, Martignano, Melpignano, Sogliano Cavour, Soleto, Sternatia e Zollino.
A quel tempo della Messapia, quindi, le due realtà si fronteggiarono lungamente, almeno fino all’arrivo degli eserciti romani, quando la loro guerra distrusse e fece scomparire del tutto il nome dell’antica terra, che fu romanizzata. Dalle scoperte archeologiche e dai testi di Erodoto, Tucidide, Plinio, Pausania, Strabone sappiamo che negli antichi approdi messapici (Leuca, Gallipoli, Ugento, Porto Cesareo, Otranto) facevano scalo le flotte ateniesi, dirette nell’antica Trinacria (Sicilia), mai invece fecero scalo nel porto di Taranto o nelle sue vicinanze, proprio perché questa città rappresentava gli interessi della sua madre patria Sparta, in guerra permanente con la rivale Atene fino a quando quest’ultima non vinse definitivamente, facendo scomparire dalla faccia della Grecia la rivale. È probabile che lo scontro tra le due città madri sul continente si sia poi riverberato nelle due realtà magnogreche e messapiche, determinando lo stesso contrasto d’origine. Atene (e con essa il territorio della Magna Grecia-Messapia) l’aristocratica città di Socrate e Platone, deteneva il suo primato di vincitrice, raffigurata dalla simbologia della Civetta (uno degli attributi di chiaroveggenza fondamentali di Atena, la divinità che diede il nome alla città), si contrapponeva a Sparta (nella Magna Grecia-Messapia Taranto) considerata come la rivale di Atena, vale a dire Aracne (Ragno). E da quella guerra poi che deriva la differenziazione che vide Taranto (Falanto) dare origine alla parola Taranta, Tarantola, Falangio, ecc. Nella ritualità del tarantismo è nota la dicotomia Tarantata-San Paolo, Aracne-Athena, de Martino-Religione, Natura-Cultura, con la Tarantata (realtà semplicemente umana) che chiede la grazia alla divinità. Tutto questo ci porta a pensare come probabile la derivazione della parola Taranta (Tarantola) da Taranto.
Ovviamente qui si tratta solo di un’ipotesi, perché documenti a tal proposito non ne esistono ma, poiché sul fenomeno del tarantismo, se ne sono dette e se ne dicono tante (per me tutte degne di considerazione), anche questa può avere una sua dignità.
Federico Capone illustra quelli che sono i sintomi che una persona denunciava nel momento in cui “sentiva” di essere diventata tarantata e quali erano i rimedi iatromusici per risolverli. E su questo aspetto spazia in un orizzonte bibliografico molto interessante. Per quanto riguarda invece il rapporto tra Cristianesimo e tarantismo, sul quale egli fa interessanti considerazioni, mi permetto di aggiungere che la figura di san Paolo potrebbe essere il risultato di un sincretismo religioso, cioè la sostituzione, in epoca cristiana, di Paolo di Tarso (san Paolo, e con lui gli altri santi citati dall’autore) con la divinità pagana Atena. Nel mito la sostituzione è giustificabile: una figura androgina (Atena, nata dalla testa del padre Zeus) nel mondo pagano con una figura misogina (san Paolo, dedito alle arti femminili, da apostolo faceva il tessitore al telaio verticale) nel mondo cristiano; ancor più lo è nel simbolo: basti pensare alla Civetta di Atena e al libro posseduto da san Paolo, entrambi attributi di conoscenza e chiaroveggenza, come pure altri simboli, fra cui Aracne per la divinità pagana e la spada (pungiglione del ragno) per san Paolo. Infine il rito: il bianco peplo nella divinità pagana, che andava cambiato ogni anno durante le panatenaiche del 28-29 giugno e la danza “pizzicata” delle tarantate sul lenzuolo durante lo stesso periodo nel mondo cristiano.
Validissime le considerazioni che Federico Capone fa sulla possessione. Aggiungo solo che sullo “spirito possessore”, un notevole contributo alla sua tematica è dovuto al filologo statunitense Carl Anton Paul Ruck, coniatore appunto del neologismo enthéos-genés (persona che manifesta o “sente” lo spirito interiore) il quale, proprio qui in Salento, a Corigliano d’Otranto, durante il convegno della SISSC (2005), assieme all’altro studioso, anch’egli statunitense, Daniel B. Stamples, tenne una lezione emblematicamente intitolata Tarantella e la follia di Io. Danzando con il Ritmo del Tempo.
Ricca la lettura bibliografica proposta nel capitolo Tracce, ma anche al di fuori dello stesso e nel corso del saggio, e tutta di estrema importanza, mostrando così che l’autore non è uno sprovveduto neofita del fenomeno salentino, quanto invece uno studioso, appassionato sì di studi demologici, ma con basi scientifiche ampie e sempre verificabili. Basti pensare che per la prima volta egli spazia con competenza su un millennio di storia del tarantismo andando oltre gli orizzonti storico-antropologici ed etnografici analizzati da Ernesto de Martino, lo studioso al quale, almeno secondo me, i Salentini dovrebbero erigere un monumento per il contributo di conoscenza dato a questa terra. Ovviamente Capone, nel capitolo Ernesto de Martino e l’errore di interpretazione, pur non negando la validità de La terra del rimorso (1959-61), richiama alcune affermazioni dello studioso napoletano, per dire di una certa incompletezza e lacunosità della sua ricerca, giustificata dalla limitatezza dei casi di tarantate/i studiati e dal fatto – richiama un saggio di Mario Cazzato a proposito del «trinomio Galatina-san Paolo-tarantismo, che risulta essere un’invenzione Sette-Ottocentesca».
La tesi di Cazzato è valida per quanto riguarda l’ingresso della raffigurazione di san Paolo nel fenomeno, tuttavia però non nega la persistenza del fenomeno sin dai tempi antichi, documentabili almeno sin da quando Goffredo Malaterra lo rilevò in Sicilia. In merito poi alla contrapposizione Ragno-Divinità è lo stesso Federico Capone a scrivere che essa risale ai tempi dei Greci e dei Romani, mentre la sua considerazione, relativa ai diari di viaggio dei viaggiatori stranieri, nei quali non si leggono riferimenti al tarantismo, molto probabilmente è dovuta allo scarso interesse per il fenomeno degli stessi viaggiatori, probabilmente anche per fare, diremmo oggi, della “pubblicità gratuita” di un qualcosa di molto marginale. Sappiamo invece di autorevoli autori che ne hanno scritto in tutti i tempi, ad iniziare dallo stesso Ippocrate, padre riconosciuto della medicina. Un altro dato sicuro, ma di questo so che l’autore ne è convinto, è che La terra del rimorsonon sia un “romanzo impressionistico”, una sorta di opera letteraria. Tutt’altro. La ricerca sul tarantismo di Ernesto de Martino è uno studio etno-antropologico fra i fondanti l’antropologia culturale moderna, sulla base della quale molte facoltà universitarie di ogni parte del mondo (compresa la stessa Cina) imperniano i propri piani di studio. Ovviamente non sono io a dirlo, ma uno studioso del calibro di Tullio Carlo Altan, antropologo di livello mondiale.
Quanto poi alla pubblicazione del libro, che di fatto nel Salento passò inosservata, Donato Valli ha dato un’esauriente spiegazione in un’intervista rilasciata a Sergio Torsello. Alla domanda «Come fu accolto il libro nel mondo intellettuale salentino?», la risposta dell’allora rettore dell’Università del Salento fu: «Veramente non ci fu una grande accoglienza. Anzi, la presenza di de Martino passò quasi inosservata, nel senso che non si aveva ancora piena coscienza del problema in tutti i suoi aspetti. In quegli anni il tarantismo era considerato un fenomeno passivo di pura e semplice manifestazione popolare, tramandato dall’antichità, intendo dire senza implicazioni di natura sociologica o di cultura antropologica. Anche per questo il libro, che era in un certo senso rivoluzionario rispetto a tale concezione, non ebbe grande diffusione nel Salento. Non solo, ma non ricevette neppure la dovuta attenzione presso gli intellettuali più sensibili e accorti. Si doveva giungere agli anni Settanta perché si facesse strada una consapevolezza diversa» (vd. S. T., Interviste sul tarantismo, Kurumuny, 2015, p. 47).
Federico Capone si pone poi la domanda del perché oggi La terra del rimorso sia uno dei libri più letti dai giovani ed anche dei meno giovani. Almeno per quanto mi riguarda, abbozzo questa risposa: il libro viene letto sempre di più perché, proprio come diceva Valli, oggi si ha una maggiore consapevolezza del fenomeno e, soprattutto, si ha coscienza del ritmo catartico della pizzica, sul quale s’impernia il tarantismo. E poi anche perché il fenomeno della possessione del ragno, proprio perché fenomeno, come d’altronde lo sono tutti i fenomeni, appare e scompare, emerge e s’immerge, a seconda delle situazioni e delle condizioni naturali e umane. In ciò le manifestazioni turistico-folkloriche o da sagra paesana contano poco. È la forza del mito, del simbolo e del rito di un determinato fenomeno che, a seconda dei tempi e della natura umana, esplodono o riesplodono.
Infine: la seconda parte del libro riguarda la musica, sulla quale l’autore, che vanta già diverse pubblicazioni sull’argomento, spazia dalla musica e dalla «canzone dialettale urbana» per giungere fino alle più innovative sperimentazioni musicali, quali il Reggae+Hip Hop. Gli spunti critici riguardano Tito Schipa, Gino Ingrosso, Bruno Petrachi, Gigetto da Noha alias Luigi Paoli, Uccio Aloisi e Uccio Bandello, i Sud Sound System, Militant P del Reggae+Hip Hop, ed altri, altri ancora. In questo settore, Federico Capone è studioso competente. Per questo egli è per me, detto senza infingimento alcuno, punto di riferimento sicuro.
Gent.mo Dott. Maurizio Nocera;
leggo sul suo sito un passo interessante per il quale pongo a lei una quaestio.
Il passo è il seguente: «Almeno dal XI secolo il fenomeno è tipico della regione Puglia, quando Goffredo Malaterra descrisse un’epidemia da ballo, di cui si lamentarono dei soldati salentini dell’esercito normanno, probabilmente provenienti dall’hinterland di Taranto che, nei dintorni di Palermo (Monte Pellegrino) si rifiutarono di scendere in battaglia. È verosimile l’ipotesi secondo cui è da allora che si cominciò a parlare di tarantati, cioè di gente strana proveniente da Taranto che ballava.» [https://www.iuncturae.eu/2018/06/29/sulle-origini-di-un-fenomeno-chiamato-tarantismo/]
1) – «Si lamentarono dei soldati salentini dell’esercito normanno»
Da cosa si evince che fossero soldati salentini?
2) – «Nei dintorni di Palermo (Monte Pellegrino)»
Come si traduce il “Monte Tarantino” di Malaterra in “(Monte Pellegrino)”?
3) – Dove si trova in Malaterra la notizia di «Gente strana proveniente da Taranto che ballava.» o il riferimento a tale notizia o conclusione?
L’argomento è veramente interessante, motivo per cui non possiamo trovare di meglio, in caso di dubbi, che fare riferimento agli specialisti in materia.
In attesa di un Suo Cortese Riscontro, distinti saluti.
Grazie.
Gaetano Bonanno.
Rispondo alle domande poste:
1. Dal fatto che Goffredo Malaterra proveniva dalla bassa Puglia (antica terra d’Otranto), per cui egli conosceva già il fenomeno e, scrivendo nella sua cronaca, lo indicò come possibile giusticazione per quei soldati nel rifiuto a combattere.
2. Si tratta di una trasposizione dallo ieri all’oggi. Quel monte oggi si chiama “Pellegrino” e non più “Tarantino”.
3. In De rebus gestis Rogerii Calabriae et Siciliae comitis et Roberti Guiscardi ducis fratris eius.
Maurizio Nocera