di Gianluca Virgilio
Ci sono momenti nella vita di uno studioso in cui gli occorre segnare il passo e fare per così dire il punto della situazione. Fermarsi significa riandare indietro nel tempo alla ricerca di quanto si è fatto, soprattutto quando si è certi che non si sia operato invano e che dunque questa sosta potrà essere di qualche utilità. Non sono pochi gli studiosi che provvedono in proprio alla ricostruzione della loro carriera, riassunta in una bibliografia ovvero in un elenco di titoli. Per Antonio Prete ha invece provveduto lo studioso dell’Università di Trento Carlo Tirinanzi De Medici in un libro da lui curato dal titolo Antonio Prete, scrittura delle passioni, con sottotitolo Una conversazione, una bibliografia e due saggi inediti, Artemide, Roma 2018; e lo ha fatto in un modo tutto particolare, cosciente, com’egli dice nella Nota introduttiva, che “Compilare la bibliografia di uno studioso è un lavoro che può sembrare freddo e distaccato (…). Ma dietro ogni titolo si intravede una tappa dell’itinerario intellettuale dell’autore” (p. 7). Ed allora, con l’ambizione di raggiungere un pubblico più ampio rispetto a quello degli addetti ai lavori e di chiarire il percorso intellettuale di Prete al di là di un mero elenco, il curatore del libro ha deciso di incastonare questa bibliografia, necessaria ed utilissima agli studiosi, in una serie di saggi, che non sono solo i due “inediti” citati nel sottotitolo – immagino siano i due saggi dello stesso Tirinanzi De Medici, di cui si dirà -, ma altrettanti di Prete, posti l’uno in apertura e l’altro in chiusura del libro: Un’apertura. Lungo il cammino (pp. 9-24) e La lettera e il cielo: fisica e poetica del libro (pp. 169-178). In questi saggi Prete ritorna sui temi, sugli autori, quelli a lungo studiati (Leopardi e Baudelaire in primis) e quelli anche conosciuti personalmente (Jabés, Luzi, Bonnefoy), nonché sugli episodi più importanti che hanno scandito il suo percorso di vita. È una voce tutta personale che prepara il lettore di questo libro alla Conversazione con Antonio Prete (pp. 25-60), nella quale Tirinanzi De Medici è bravissimo a far parlare lo scrittore, individuando i momenti essenziali di una vicenda intellettuali tra le più interessanti del secondo Novecento italiano e del primo ventennio del nuovo secolo: dall’infanzia e adolescenza trascorse a Copertino all’arrivo a Milano, gli studi presso l’Università Cattolica allora in preda alla febbre degli anni Sessanta, e poi il servizio militare a Firenze nell’anno dell’alluvione (1966) e i primi anni di insegnamento nella scuola superiore e poi la cattedra di Letterature comparate nell’Università di Siena, la partecipazione alla redazione di numerose riviste, i contatti col mondo letterario d’oltralpe, ecc. Sono ricordati con stima e simpatia maestri e amici: Mario Apollonio, il maestro universitario, e poi Gianni Scalia, Ferruccio Masini, Franco Fortini, Romano Luperini, Maurizio Bettini, Giancarlo Majorino, Franco Loi, Domenico Pazzini, Pascal Gabellone, Gianni Celati, ecc., l’elenco potrebbe a lungo continuare; e, ancora, i numerosi libri, saggi critici, racconti, traduzioni, ognuno una tappa, una porzione di vita di uno scrittore infaticabile e molto prolifico, che è stato, ci ricorda Tirinanzi De Maedici “uno dei protagonisti del dibattito critico dell’ultimo quarto del Novecento” (p. 123). Pertanto, questa conversazione sembra essere una spiegazione e contestualizzazione biografica dei titoli – “una produzione distesa su oltre cinquant’anni”, scrive il curatore a p. 61 – che la Bibliografia degli scritti (1963-2017) (pp. 61-122) elenca anno per anno.
A seguire, ecco i due saggi di Tirinanzi De Medici: Critica e scrittura. I saggi di Antonio Prete (pp. 123-142) e Frammenti e antitesi di un mondo imperfetto. Le prose di Antonio Prete (pp. 143-168). Nel primo scritto, viene precisata la maniera saggistica di Prete, “sospettosa” verso “l’insieme di discorsi retti su una scrittura impersonale dall’andamento fortemente analitico, che s’incarica di convincere il pubblico attraverso l’uso di “dati” oggettivi e di ragionamenti logici strettamente concatenati che chiamerò scrittura analitico-scientifica” (p. 127); una maniera saggistica, invece, sempre disponibile ad aprirsi alla forma del racconto. Scrive Tirinanzi De Medici: “Alle letture si affiancano le memorie, ai grandi archi cronologici della lunga durata i brevi momenti della vita. Costruito come bacino di raccolta di riflessioni eterogenee all’origine, il saggio alla sua base ha una spinta di puro racconto” (p. 138). Il che spiega bene l’osservazione, contenuta nel secondo saggio di Tirinanzi De Medici, secondo cui “A legare i saggi e le prose di Antonio Prete vi sono ovviamente i contenuti (…), ma altrettanto evidente è la continuità formale” (p. 143). Interessante anche il paragone delle prose di Prete con i pezzi di un mosaico “pur sempre incompleto e in ultimo, forse, incompletabile (…)”; ragione per cui la prosa di Prete, definita “un lento movimento verso la narrazione” (p. 145), “non arriva al romanzo: perché (…) gli è estranea la pretesa totalizzante che questa forma ha sempre al proprio fondo” (p. 151). E infine, ci sembra necessario riportare, a confutazione di qualsiasi distorta interpretazione del pensiero di Prete, la precisazione di Tirinanzi De Medici, posta a conclusione del saggio, a proposito del materialismo dell’autore: “Del resto in un mondo tutto imperfetto, la perfezione divina è, oltre che irraggiungibile, indicibile: di fatto non esiste. Il pensiero poetante è in Prete alternativo all’ammissione di impotenza necessaria a ogni salto mistico; è testardamente materialista…” (p. 167).
Nella Bibliografia di Tirinanzi De Medici non figura – né poteva essere diversamente – Torre saracena, con sottotitolo Viaggio sentimentale nel Salento, Manni, San Cesario di Lecce 2018, che consiglio vivamente di leggere subito dopo il libro curato dallo studioso dell’Università di Trento. Lo dico subito: Torre saracena è il racconto di un nostos, un ritorno. Pertanto, il lettore, dopo aver seguito il percorso di un’intera vita di studi trascorsa da Antonio Prete lontano dalla natia Copertino, qui è riportato nei luoghi d’origini dell’intera sua storia personale ed intellettuale.
Torre saracena: “queste pagine … dicono dei miei ritorni nel Salento” (p. 151), scrive Prete a conclusione di un libro, di cui più volte l’ho sentito parlare e che in parte ho visto nascere nei molti ritorni di Antonio da Siena a Copertino, durante le nostre solite passeggiate salentine. Ma questo libro mi è caro anche per altro, perché racconta una storia di migrazione intellettuale e di tenace legame alle radici che mezzo secolo di lontananza non ha potuto recidere. Antonio Prete ha vissuto a Milano, a Siena e in molti altri posti; ed è sempre tornato, per brevi periodi, costantemente. Ma soprattutto ha coltivato sempre il ricordo, ravvivato proprio da questi ritorni. Tuttavia essi non sono bastati ad annullare quel sentimento di estraneità che inevitabilmente nasce in chi vive lontano dalla sua terra. Scrive Prete: “Quanto alle pagine che qui vado scrivendo, anche se ho scelto di seguire il tracciato di una geografia fisica, devo riconoscere che mi sono trovato più volte a fare i conti con la pulsione più propria per un “nativo”, quella appunto che lo rende disposto a lasciarsi sorprendere dall’onda del tempo, un’onda che spesso sopraggiunge non chiamata. È difficile, viaggiando per terre conosciute fin dall’infanzia, sospingere al di fuori dell’orizzonte visibile le immagini che giungono dal passato: esse sono di quell’orizzonte luce, colore, forma. E tuttavia come negare che nell’evocare quella lontananza nel tempo si faccia esperienza di un’estraneità e di uno spaesamento analogo a quello che prova il viaggiatore in terre nelle quali non è mai vissuto?” (pp. 121-122).
Si vede qui la mano del critico, ovvero dello scrittore che sa dire di sé quel che altri non saprebbe dire meglio. In queste parole, infatti, il lettore può ravvisare l’intera struttura dell’opera che si articola appunto nel modo che Prete definisce perfettamente. Egli segue “il tracciato di una geografia fisica” salentina, conducendo il lettore da una costa all’altra, da un paese all’altro, dallo Ionio all’Adriatico, da Gallipoli a Otranto, da Galatina a Calimera, da Soleto a Leuca, ecc., fermandosi a descrivere strade e piazze, chiese e palazzi, tele e affreschi, assumendo a volte i toni colloquiali di una buona guida turistica: “Dopo questa sosta, raggiungiamo il centro storico…” (p. 95); “Porterei subito il lettore in giro per le strade del centro storico” (p. 102); “Il lettore viaggiatore può da qui, un altro giorno, riprendere il cammino e raggiungere la vicinissima Galatone…” (p. 103). È il tono ospitale di chi conosce i luoghi per averli più volte visitati, e vuol renderne partecipe il lettore. Ma questo è solo il primo movimento del libro; ad esso si sovrappone il secondo movimento, che costituisce il nerbo del Viaggio sentimentale nel Salento: i luoghi non sono più solo quelli che il lettore viaggiatore può davvero vedere, ma quelli visti attraverso la mente dell’autore che ad essi ritorna rievocando il tempo remoto dell’infanzia e della giovinezza. Eccolo, il luogo delle origini: “Quel luogo, nel mio caso, è una terra di confine, quasi un cerchio che si può tracciare in una zona compresa tra il feudo di Lequile, di Copertino e di Galatina, un’area contigua all’aeroporto militare e attraversata ora dalla superstrada Lecce-Gallipoli…”; un luogo centrale nella carta geografica del Salento e, quel che più importa, nei ricordi di Prete, che vi rivede le cose che si sono aggiunte nel tempo e quelle che non ci sono più: “… la superstrada Lecce-Gallipoli, che ha sostituito la vecchia strada costeggiata da pini e di tanto in tanto, secondo una scansione diseguale, da rosse case cantoniere: una terra rossa e pietrosa, ricoperta da ulivi secolari, fichidindia, qualche vigneto, fichi selvatici e fichi commestibili, mandorli, piccoli frutteti, e qua e là, lungo i muretti di pietra viva, un’alta agave fiorita. In mezzo al coltivo, a distanza breve l’una dall’altra, si levano le masserie…” (p. 89), e la citazione potrebbe continuare. Da questo cerchio geografico reso magico dal ricordo partivano le scorribande nel Salento, verso lo Ionio o l’Adriatico, nel tempo della giovinezza. Ma il ricordo ha un retrogusto amaro – ed è il terzo movimento della scrittura di Prete in questo libro -, poiché reca con sé il disincanto della “estraneità” e dello “spaesamento analogo a quello che prova il viaggiatore in terre nelle quali non è mai vissuto”. Dove sono finiti gli alti pini che d’estate facevano ombra sulla strada vecchia che da Gallipoli menava a Lecce? E dov’è il ruscello, e il locus amoenus della giovinezza, fonte di fantasticherie, tra Nardò e Santa Maria al Bagno, che neppure l’autore saprebbe ritrovare? E dove sono le dune di Porto Cesareo e perché al loro posto sorgono oggi tante incivili villette? Ma non solo il paesaggio è cambiato, è cambiato anche l’autore, che così si rappresenta, prima e dopo, nello scenario naturalistico della scogliera di Porto selvaggio: “Mi sembra impossibile che ci sia stato un tempo in cui, con disinvolta incoscienza, da una scogliera aggettante mi lanciavo, a piedi più o meno uniti e con una mano che stringeva le narici, nell’acqua blu. Consuetudine sostituita, lungo gli anni, da più caute discese nell’acqua.” (p. 15) Il ritorno dunque non ha fatto trovare nulla di immutato, poiché tutto nel mondo è sottomesso al principio della trasformazione. E tuttavia qualcosa rimane immutato e immutabile nel mondo di Antonio Prete, qualcosa che potremmo definire un atto di fede nell’ “umano”. Nell’ultimo scritto del libro, quasi un congedo, Prete racconta di aver visitato in compagnia dell’amico archeologo Francesco D’Andria la patria di Quinto Ennio, gli scavi di Rudiae. Tornando a Copertino, gli ritorna in mente il verso degli Annales, Romani sumus qui fuimus ante Rudini, e poi i tria corda di Ennio, le sue tre culture, l’osca, la greca e la latina. Anche Antonio potrebbe dire la stessa cosa di sé, mutatis mutandis. Ed infatti, ecco la conclusione dell’opera: “Con in mente le parole del poeta, riprendo la strada che mi porta nel paese in cui sono nato e dal quale mi sono allontanato. Pensando che in fondo, lungo il cammino, a sostenermi c’è stata sempre una presenza, o forse potrei dire, permettendomi di elevare in chiusura il tono, un amore: la poesia.” (p.151)
Chissà, forse un giorno anche Ennio torno nella sua patria, forse anche Ennio pensò la stessa cosa.