di Antonio Errico
Sono cose che si sanno, ma che ogni tanto fa bene ripetere. Per non dimenticarle, per non considerarle scontate, per poterne rinnovare i significati, conformandole ai tempi, alle situazioni d’ogni sorta, alle condizioni degli uomini, alle loro storie, ai loro destini.
Così, Audrey Azoulay, direttore generale dell’Unesco, ha detto che l’idea di cultura è uno spazio di dialogo, un fattore di pace, di sviluppo economico e non economico. La diversità culturale è una battaglia per difendere la legittimità ed il sostegno sia alla tradizione che alla creazione.
Sono cose che si sanno, ma ripeterle fa bene. L’idea di cultura non è immutabile. Anzi, muta in continuazione. L’idea di cultura è la condizione dalla quale dipendono tutte le altre idee. Quelle che riguardano la società, la convivenza, la formazione, l’economia, la scienza, la letteratura, l’arte, l’architettura, l’ecologia, la filosofia dell’esistenza. L’dea che si ha dei giovani e dei vecchi è una conseguenza dell’idea di cultura. La pratica del dialogo, dell’approssimarsi, dell’incontro, la tensione alla costruzione della pace e dello sviluppo e del progresso, sono un’espressione di quell’idea.
Probabilmente sono innumerevoli gli elementi che contribuiscono a determinare l’idea di cultura individuale e collettiva, ma è inevitabile che quella individuale sia considerevolmente e costantemente condizionata da quella collettiva. Dalle persone e dai luoghi che si frequentano, dai loro linguaggi, dai giornali e dai libri che si leggono, dai film e dalle opere d’arte con cui si stabilisce una relazione, dalla sistematicità o dall’episodicità di quella relazione, anche dalle risorse economiche che si hanno a disposizione, anche dalla forte motivazione che può determinare la mancanza di quelle risorse. Non è paradossale. (C’erano una volta, figli di contadini che lavoravano a giornata, di piccoli operai, modesti impiegati, che a scuola ci andavano con le scarpe al collo e a piedi scalzi per poter risparmiare le suola e comprarsi qualche libro. Poi, andavano all’università, e mangiavano ogni giorno frisella e pomodoro, per potersi comprare il biglietto a cinema e teatro. Non è paradossale, dunque.)
Ma se la cultura individuale viene condizionata da quella collettiva, la domanda che si impone è da chi viene elaborata la cultura collettiva. La risposta, semplice e obbligata, è che la cultura collettiva risulta da una integrazione e da una interazione della cultura soggettiva. E’ su quest’ultima, allora, che occorre necessariamente investire. Sulla qualità della cultura di ciascuno. Allora viene un’altra domanda che riguarda il concetto di qualità.
Probabilmente si può dire che la qualità della cultura consiste nella sua profondità, nella sua resistenza e, al tempo stesso, nella disponibilità a rielaborarsi, rimodularsi, riconfigurarsi continuamente.
Profondità è il contrario di superficie. Superficiali culture soggettive che si integrano e interagiscono, producono, inevitabilmente, superficiali culture collettive. Se invece si integrano e interagiscono profonde culture soggettive, l’esisto collettivo è quello di una cultura profonda.
Lo stesso discorso vale, più o meno, per la resistenza. Ci sono culture individuali che non hanno strutture, che si fondano su nozioni provvisorie e improvvisate, che non hanno collegamenti, non si inseriscono in un tessuto di riferimenti, acquisite molto spesso in modo strumentale e orientate esclusivamente al contingente, all’immediato, al pragmatico, al funzionale, all’evidente. Generano culture collettive che non resistono, che deperiscono in breve tempo e si perdono, sostituite da altre culture dello stesso genere, effimere, transitorie.
Le culture che possono rielaborarsi, rimodularsi, riconfigurarsi, sono quelle profonde e resistenti. Possono farlo perché sono in grado di valutare e discernere, perché si fondano su certezze, perché sanno contemperare tradizione e innovazione, sanno dove e come innestare gli elementi di trasformazione, sono in grado di confrontarsi con la diversità e la molteplicità delle proposte provenienti da altre culture, altri contesti. Le culture profonde e resistenti conoscono la storia e quindi hanno la possibilità di comparare le cause e gli effetti dell’accaduto con le cause e gli effetti di quello che accade. Le culture superficiali questa possibilità non ce l’hanno, le loro certezze sono presunte, talvolta presuntuose, i loro riferimenti sono instabili e insicuri; è sempre tutto nuovo, tutto comincia sempre daccapo, e il significante prevale sul significato, l’apparenza sulla sostanza, la forma sul contenuto.
Allora ci si potrebbe chiedere quali sono le caratteristiche della cultura che viviamo, se in essa si riconoscono le categorie della profondità e della resistenza o quelle della superficialità e del provvisorio.
La risposta non può essere che individuale; non può che fondarsi sull’idea che ciascuno di noi ha di cultura e sull’esperienza che matura rispetto all’idea. I dogmatismi e le intransigenze sono assolutamente inadeguati e probabilmente anche dannosi, in questo come in ogni altro caso.
Quello che si può fare, però, è un confronto fra quello che si è e quello che si sa. Per esempio: nessuna persona è o può ritenersi superficiale. Di conseguenza, se quello che sa e il modo in cui lo esprime risultano superficiali, deve necessariamente procedere ad approfondire, in modo tale che quello che sa diventi coerente e compatibile con la condizione del suo essere.
In questo modo la sua conoscenza tenderà costantemente alla condizione della profondità, a quella della resistenza, della rielaborazione che consente l’adeguamento alle mutazioni prodotte dal tempo.
Forse può accadere così, semplicemente, il verificarsi di un processo virtuoso che attraverso l’approfondimento della cultura soggettiva conduca alla profondità di quella collettiva, che a sua volta condizionerà positivamente la cultura individuale.
Forse si può fare. Forse si deve fare. Forse ogni progresso, ogni sviluppo, ogni arte, ogni scienza, ogni benessere soggettivo e collettivo, non sono altro che il risultato di un continuo approfondimento della cultura di ciascuno.
Certo, sono cose che si sanno, ma che forse ogni tanto fa bene ripetere.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia“ , Domenica 17 Giugno 2018]