di Luigi Scorrano
C’è, oggi, una preoccupazione che colpisce un grandissimo numero di uomini e di donne. Una preoccupazione tale da costituire un problema, quando le si dia un’esagerata importanza. È la preoccupazione per la propria “visibilità”. La maggior parte delle persone, almeno secondo la sensazione che se ne ha, soffre d’essere poco “visibile”. Essere, per così dire, “invisibili” non costituisce più un merito o uno stile di vita, ma una colpa che trova la sua condanna, applicata senza fatica, nel disinteresse del prossimo. Essere “visibili” è lo stringente imperativo, si dice, di tempi dominati dal trionfo del “visivo” e della magnificazione dell’immagine.
“Visivo” e “immagine” non coincidono sempre, o non sempre combaciano perfettamente. All’immagine si è sempre fatto caso; non è una novità. Chi non la teneva in conto, veniva almeno benevolmente ripreso. Al ragazzino scarruffato la madre riassettava i capelli preoccupandosi di quel che avrebbe “detto la gente” vedendolo in un aspetto di trascuratezza.
Non sempre tenere all’immagine, alla propria immagine, dipendeva dal timore dell’altrui giudizio. Era una forma di decoro al quale si aderiva per convinzione, per un ordine interiore che si voleva rispecchiato all’esterno. In tempi meno sensibili a principi o ad abitudini così orientati, la trascuratezza diventava il segno forte del rifiuto d’una società contestata, ma anche il simbolo dell’appartenenza a un gruppo che quella società tendeva a trasformare radicalmente. L’aspetto esteriore certificava di un’appartenenza di campo.
L’equilibrio di chi voleva offrire di sé un’immagine di persona educata e rispettosa del prossimo era attestato dal fatto che la cura della propria immagine era finalizzata alla realizzazione di quel comune sentire, di quel rispetto avvertito come reciproco e vissuto come una forma di civismo.
L’avvento del visivo ha introdotto, in questa modalità “civile”, un elemento di squilibrio. L’immagine non è stata più lo specchio di un’interiorità realizzata con la preoccupazione del decoro; è diventata il lasciapassare senza il quale sembra non sopravvivere nemmeno il dato certo dell’identità personale.
L’immagine equilibrata tra ordine interiore ed aspetto esterno si è trasformata in apparenza. Visibilità, infatti, è, oggi, “apparire”. Mostrarsi. Farsi vedere. Certificare agli altri la propria presenza imponendola, se ci si riesce, attraverso i mezzi di comunicazione di massa.
«Non esisti se non appari in TV»: è una sorta di assioma che molti, purtroppo, pigliano per buono. Ma non si tratta solo di pervenire alla gloria del teleschermo. Qualunque cosa produca “immagine” è tenuta in gran conto. Nel grande mercato della globalizzazione l’uomo ha finito per considerare se stesso uno dei tanti prodotti che possono trovare un piazzamento giusto se debitamente pubblicizzati. La profondità sgomenta o è ritenuta superflua; la superficie, possibilmente brillante, è quello che solo si vede e, perciò, quello che solo conta.
Il mondo contemporaneo, che forse non ha più idea di che cosa possa essere una vita nascosta, non potrebbe accettare l’idea di un’esistenza trascorsa, ad esempio, nella preghiera, nel lavoro umile e senza peso apparente nel campo della produzione di beni, nella discreta e riservata dedizione ad un compito che non cerca l’apparenza, anzi la sfugge.
“Immagine” e “visivo” sono così pervasivi che sembra non sia rimasto altro che il loro dominio, e non vi sia più un luogo solitario, un angolo remoto dove ritirarsi a riflettere, un gesto di solidarietà che non richieda l’urlata benedizione delle telecamere e dei presentatori/imbonitori di turno.
Che cosa abbiamo perduto per guadagnare questo? sempre che di guadagno si tratti! Ciascuno ha, certamente, una risposta. Né si vuole cancellare quelle che sono alcune caratteristiche della società in cui viviamo. Però sperare che la nostra “visibilità” sia legata esclusivamente all’immagine esteriore che furiosamente a volte si persegue, è un imperdonabile errore. Per conquistare il luccichio dell’esistere in funzione della “visibilità”, rischiamo di rinunciare con leggerezza a quello che più conta: l’essere che vogliamo (o che vorremmo) essere.
[“Il Galatino” anno XLIX n. 16 del 14 ottobre 2016, p. 6]