di Guglielmo Forges Davanzati
“Meglio una cattiva riforma che nessuna riforma; chi si oppone alle riforme è sempre conservatore. Due affermazioni diffuse, ma assai discutibili”. E’ da questa considerazione che parte Gianfranco Viesti, nel suo ultimo libro – La laurea negata. Le politiche contro l’istruzione universitaria (Laterza, 2018, pp. 150) – per strutturare una critica assai informata, puntuale e del tutto condivisibile al processo di vera e propria distruzione dell’Università pubblica italiana avviato con i tagli del Ministro Tremonti del 2008 e con la c.d. Riforma Gelmini del 2010.
A partire dal 2008, l’Università italiana subisce decurtazioni di fondi senza precedenti, che, come rileva Viesti, la portano “per la prima volta nella sua storia … a diventare più piccola: di circa un quinto” (p.13). Viesti rileva che i tagli operati nell’ultimo decennio al sistema formativo italiano sono maggiori di quelli somministrati ad altri comparti del settore pubblico e che non hanno paragoni rispetto agli altri Paesi colpiti dalla crisi. Il fondo di finanziamento ordinario delle Università statali è stato ridotto, in termini reali, del 20%. I docenti sono diminuiti di quasi quindicimila unità, così come sono diminuiti gli amministrativi. Il blocco del turnover ha creato un esercito di “precari della ricerca” senza prospettive di carriera, se non trasferendosi in sedi estere. La diminuzione dei finanziamenti ha generato un aumento delle tasse di iscrizione, con conseguente riduzione del numero di immatricolati. E si potrebbe continuare (e l’autore continua nella sua impietosa diagnosi – non contestabile su nessuna fonte ufficiale).
L’operazione venne giustificata in due modi. Innanzitutto, si disse, poiché in tempo di crisi occorre fare sacrifici, è giusto che i sacrifici li facciano anche i docenti universitari (e indirettamente gli studenti e le loro famiglie). In secondo luogo, si avviò una campagna mediatica volta a presentare i professori universitari esclusivamente come nullafacenti e appunto corrotti, giustificando, anche per questa via, la sottrazione di risorse. E proprio a ragione del loro scarso rendimento (più presunto che effettivo, dal momento che in quegli anni la ricerca scientifica prodotta in Italia non era assolutamente inferiore – per quantità e qualità – alla media europea) si disse che i professori universitari italiani dovevano essere valutati. Per i non addetti ai lavori, può sembrare cosa ovvia, magari buona e giusta. Non è così, e il libro di Gianfranco Viesti lo mostra in modo inequivocabile.
La valutazione dei docenti universitari è fatta dall’Agenzia nazionale di valutazione della Ricerca (ANVUR), che valuta esclusivamente la qualità delle loro produzioni scientifiche (non anche l’attività didattica, le attività istituzionali, quelle riguardanti i rapporti con il territorio). L’ANVUR stabilisce un elenco di riviste sulle quali i ricercatori sono chiamati a pubblicare, definendole di classe A sulla base di tecniche e metodologie alquanto discutibili. Fra queste, si può considerare il fatto che ANVUR considera “eccellente” un ricercatore che pubblichi su riviste con elevata “reputazione”, del tutto indipendentemente dalla rilevanza dei contenuti della ricerca. La “reputazione” di una rivista è certificata dal suo “fattore di impatto” (impact factor), e la sua certificazione è effettuata sulla base di criteri individuati dall’istituto Thomas Reuters, azienda privata anglo-canadese. In altri termini, in Italia si valuta il contenitore (la rivista), non il contenuto, e il contenitore è buono se lo considera tale una delle più grandi imprese private su scala mondiale che opera nel settore dell’editoria. Va peraltro ricordato che l’impact factor è stato pensato come strumento per selezionare l’acquisto di riviste da parte delle biblioteche universitarie, e, anche sul piano strettamente tecnico, da più parti se ne sconsiglia l’uso ai fini della valutazione della ricerca scientifica. Va anche ricordato che negli Stati Uniti – le cui Università sono comunemente ritenute estremamente sensibili alla “cultura della valutazione” – l’impact factor non è quasi mai considerato un indicatore attendibile per valutare la qualità della produzione scientifica. A ciò va aggiunto che la valutazione è retroattiva, ovvero certifica la qualità delle pubblicazioni relative a un arco temporale precedente alle scelte dell’ANVUR e non democratica, nel senso che i criteri non sono stati concordati con le associazioni scientifiche. Questi rilievi non necessariamente portano a rifiutare la valutazione. Portano semmai a pretendere che il proprio lavoro sia valutato sulla base di criteri definiti prima che l’esercizio di valutazione si compia, avendo quindi chiare le “regole del gioco” e avendo la possibilità di negoziarle con procedure democratiche che investano organismi elettivi (in Italia, il Consiglio Universitario Nazionale). Diversamente, ed è quanto sta accadendo, ci si troverebbe nella condizione di giocare una partita il cui esito dipende dalle regole che l’arbitro stabilisce una volta terminata.
Viesti definisce l’agenzia in modo assai efficace: “il sogno del riformatore illiberale”. “Un gruppo di saggi, di ‘prescelti’, che finalmente illumina la via e costringe un sistema anarchico e irresponsabile a seguirla” (p.15).
Questo mix perverso di sottofinanziamento e di pseudo-valutazione si combina con una distribuzione degli scarsi finanziamenti che penalizza maggiormente le sedi universitarie meridionali e accentra risorse al Nord. L’autore rileva come questa linea si innesti in piena coerenza con le politiche economiche messe in atto negli ultimi anni: ovvero il continuo trasferimento di risorse al Nord, secondo la vecchia e fallimentare idea per la quale se la “locomotiva” parte, si trascina i vagoni. Viesti mostra come la presenza di una sede universitaria in un territorio sia fondamentale per il suo sviluppo (soprattutto, ma non solo: maggiore dotazione di ‘capitale umano’ e minori tassi di criminalità, possibilità di attivare crescita endogena attraverso le innovazioni prodotte nei Dipartimenti universitari) e che ciò vale a maggior ragione in territori – tipicamente quelli meridionali – relativamente arretrati. In generale, i vantaggi individuali e collettivi della laurea sono molti e tutti puntualmente discussi nel libro (v., in particolare, pp. 19-29). Uno in genere pressoché ignorato – che Viesti giustamente mette in evidenza – è che un laureato ha un’aspettativa di vita di 5.2 anni in più rispetto a un non laureato.
In uno scenario così catastrofico (e tale è), vien da chiedersi perché né docenti né studenti si siano energicamente opposti a queste ‘riforme’. Viesti cita due fattori: la legge Gelmini ha di fatto accentuato le gerarchie interne all’Istituzione, generando un effetto di “divide et impera”; e poi “l’università è troppo complicata e non gode di buona fama. Non è materia sulla quale oggi si ottiene consenso” (p. 18). L’autore rileva anche che la crisi dell’Università italiana si è associata a una ridefinizione dei poteri e dei gruppi di potere al suo interno: gruppi che ruotano attorno all’ANVUR e che, pur in condizioni di sottofinanziamento per tutti, in termini relativi (di risorse e di potere appunto) stanno meglio. Stanno nelle sedi del Nord e da questa situazione hanno da guadagnare o comunque non da perdere, anche per la prospettiva (a più riprese richiamata) di differenziare le sedi in research e teaching – queste ultime poco più che Licei. In sostanza, la crisi dell’Università italiana è la spia del declino italiano e soprattutto del Mezzogiorno.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di domenica 20 maggio 2018]