L’intelligenza delle emozioni può vincere la forze delle armi

di Antonio Errico

Ci sono Paesi che hanno sviluppato droni dotati di armamenti portentosi. Le industrie di una novantina di Paesi stanno producendo un’infinita varietà di armamenti potenzialmente indipendenti. Potrebbe accadere che algoritmi interagiscano in modo non previsto ordinando a robot di aprire il fuoco più rapidamente di qualsiasi umana possibilità di fermarli.

Non sono appunti per un romanzo di fantascienza. Sono le parole che Paul Sharre, direttore del programma di sicurezza al Center for a New American Securyty di Washington, ha detto in un’intervista rilasciata a Michele Neri per “Il Messaggero”. Ha appena pubblicato un libro che si intitola “ Army for None” : armi di nessuno. Sharre è uno che se ne intende e non è ottimista nei confronti della tecnologia. Diffida. Sospetta che possa sfuggire al controllo dell’uomo, che la velocità con cui evolve possa superare sia quella della politica che quella della indispensabile regolamentazione etica, che si possa arrivare ad un punto in cui una macchina sia in grado di decidere della vita e della morte senza alcun controllo umano. E’ un esperto, Paul Sharre, ed ha paura. L’uomo della strada ne ha più di lui. L’uomo della strada ignora molte cose che riguardano questi argomenti, ma ha una paura istintiva, viscerale, forse anche inconscia. Pensa che la tecnologia sia una condizione straordinaria quando viene impiegata per il progresso ma che possa essere estremamente pericolosa quando viene impiegata esclusivamente per lo sviluppo. Tra progresso e sviluppo forse c’è una differenza che è determinata dall’applicazione. L’uomo della strada ricorda quello che diceva in un libro Luigi Malerba, uno dei più grandi scrittori del Novecento italiano. Diceva che si è confusa l’idea di progresso con quella di sviluppo, così come si è confusa la scienza con la tecnologia. In nome della scienza si è lasciata mano libera alla tecnologia e così è successo che la scienza ha realizzato la scissione dell’atomo e la tecnologia ha fabbricato la bomba atomica.

L’uomo della strada ha paura di questo nuovo ignoto. Si ritrova come il primitivo che aveva paura dei lampi e dei tuoni. Ora ha paura delle armi che potrebbero sottrarsi al governo di coloro che dovrebbero essere sicuri di saperle governare sempre, in ogni situazione. L’uomo della strada sa perfettamente che non può fare altro se non affidarsi alla buona sorte oppure alla coscienza dei suoi simili. Però, se ci riflette, si accorge che ripone più fiducia nella prima. Da quel poco di storia che ha studiato, gli è sembrato di capire che sulla seconda non si deve confidare incondizionatamente.

Rilegge un passaggio dell’intervista in cui Paul Sharre dice che per ora ogni Paese sostiene di non aver adottato sistemi di armamenti indipendenti ma ha il timore – lui – che questa posizione potrebbe cambiare in un attimo se la percezione della sicurezza nazionale cambiasse radicalmente per effetto di una modificazione dell’ambiente politico circostante.

In un attimo, dice Sharre: potrebbe cambiare tutto in un attimo. Neanche ce ne accorgeremmo, dunque, pensa l’uomo della strada. Poi pensa, ancora, che lui non può farci proprio niente, e che non possono farci niente tutti gli altri uomini della strada come lui, che in tutto il mondo sono pochi quelli che possono farci qualcosa. Pensa che non è giusto che pochi decidano il destino di tutti. Pensa che deve togliersi il vizio di pensare perché questi pensieri gli fanno venire il mal di testa. Inutilmente. Perché comunque non può farci niente. Eppure non riesce a fare a meno di pensare, e di arrabbiarsi mentre pensa, che le mitraglie possano cominciare a sparare decidendolo autonomamente, che i carri armati procedano ed attacchino con la stessa autonomia, e che allo stesso modo possano agire i sommergibili, gli aerei, le navi.

L’uomo della strada è convinto che la tecnologia non si ferma e che è addirittura giusto che non si fermi, perché serve a rendere più comoda la vita.

Così si domanda se può sperare ancora in qualcosa e si risponde che forse in qualcosa sì, può ancora sperare. Per esempio in un nuovo umanesimo, capace di integrare scienza, tecnologia e condizione esistenziale. Per esempio può sperare nell’incontro tra le persone, nel loro parlarsi. Gli viene in mente quello che diceva Ingeborg Bachamann nella sua “Letteratura come utopia”: se avessimo la parola, se possedessimo il linguaggio, non avremmo bisogno di armi.

Un’utopia, appunto. Ma non si può rinunciare all’utopia. Senza un’utopia si può contare soltanto sulla conferma dell’esistente, quando non si precipita nella regressione.

Per esempio si può sperare nell’intelligenza delle emozioni. Perché quelli che progettano e fabbricano giocattoli micidiali che si mettono a sparare da soli, avranno certamente delle emozioni. Ecco. Forse si dovrebbero rivalutare i significati delle emozioni. Queste molto spesso, quasi sempre, vengono prima e vanno al di là del ragionamento, stabiliscono la misura, segnano il confine fra il bene e il male. Probabilmente sono le emozioni che determinano la sensibilità, che inducono a considerare quali possano essere gli effetti che la ricerca provoca sull’umano. A volte l’emozione consente una comprensione ulteriore, che si fonda non solo sulla relazione fra causa ed effetto ma su una riflessione complessiva che riesce a penetrare i fatti fino a raggiungere il loro cuore segreto. E’ questa comprensione ulteriore, questa sensibilità profonda che molto spesso decide i percorsi della storia. Sul campo di battaglia si può fermare la mano che sta per colpire, semplicemente perché in un attimo gli occhi incontrano gli occhi dell’altro, e si prova un’emozione. Ma se un giorno ci saranno armi non guidate da nessuna mano, non ci saranno occhi che incontreranno altri occhi, né un’emozione che impedirà la morte. Di questo ha paura Paul Sharre; di questo ha paura l’uomo della strada. Hanno paura che ad un certo punto non si possa più confidare nella salvezza che viene da un’emozione.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, Domenica 13 maggio 2018]

 

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