Di mestiere faccio il linguista 18. Il cellulare a scuola? No, grazie!

di Rosario Coluccia

Il tema dell’introduzione del cellulare a scuola appassiona, molti mi chiedono di discuterne ancora. Accetto la sfida, sapendo che è un compito difficile. Lo confesso, sono incerto. La tecnologia non va demonizzata, tenerla fuori dalle aule potrebbe (al di là delle intenzioni) cristallizzare la scuola in una realtà antiquata, sconnessa dal mondo in cui viviamo. Ma nello stesso tempo vanno considerate implicazioni e conseguenze delle scelte, non è saggio inseguire acriticamente la modernità, spesso solo presunta o limitata alla superficie. E inoltre bisogna distinguere, un conto sono computer, tablet e L.I.M. Lavagna Interattiva Multimediale (utili didatticamente), un conto è il cellulare (non serve a scuola e dovrebbe essere vietato in classe). Così mi scrive Nicoletta Maraschio, presidente onoraria dell’Accademia della Crusca, e io concordo in pieno.

Partiamo dai dati. Un numero crescente di insegnanti lamenta la perdita, da parte di molti allievi della scuola primaria e secondaria, della capacità di scrivere fluentemente a mano. I testi redatti dagli studenti sono fastidiosamente disordinati, con parole mal allineate sul rigo, con i tratti delle singole lettere a volte difficili da decifrare, con vacillanti legamenti tra una lettera e l’altra e con incongrui miscugli di stili e di caratteri nelle stesse parole o nella stessa sequenza di parole: corsivo e stampatello, maiuscolo e minuscolo. Il fenomeno si collega, a parere di molti, alla contrazione della scrittura manuale, spesso abbandonata a vantaggio della tastiera del pc e del telefonino. Non esistono statistiche che indicano a partire da quale età (in media) bambini e adolescenti familiarizzano con il digitale, ma molti collegano alla sempre maggiore familiarità con le diverse forme della scrittura digitale la progressiva diminuzione della abilità scrittoria manuale. Alla ridotta capacità di scrittura si accompagna una ridotta capacità manuale complessiva. I ragazzi sono in difficoltà anche se debbono fare operazioni semplici (tracciare cerchi e rettangoli con l’aiuto di compasso e di righello) o addirittura attività semplicissime (ridurre un foglio di carta in segmenti più piccoli tendenzialmente uguali). Poco per volta ci disabituiamo a usare le mani, attrezzi meravigliosi che hanno consentito al bipede uomo, insieme a un cervello particolarmente raffinato, di dominare il mondo. Se poi facciamo un uso coerente di questo primato, se non siamo noi stessi che incoscientemente stiamo preparando la rovina del nostro pianeta è questione diversa, che richiederebbe assai più che due o tre righe.

Gli studenti hanno difficoltà evidenti nell’ortografia. Non si tratta di rimpiangere nostalgicamente le pagine ordinate e pulite dei quaderni di un tempo o di invocare corsi di calligrafia (fino a quaranta o cinquant’anni fa c’era un insegnamento specifico in alcune scuole, e forse la cosa non era disprezzabile). La difficoltà di scrivere in maniera adeguata ha riflessi sulla qualità dell’apprendimento e sulla capacità di coordinare il pensiero. La caduta investe sia la capacità di tracciare adeguatamente i caratteri sul foglio, sia quella di organizzare correttamente la sequenza di parole e le frasi necessarie per trasmettere il messaggio. L’attenuazione della capacità di tracciare manualmente i segni, dovuta all’abuso dei mezzi digitali, può comportare uno scarso coordinamento con il pensiero.

Mettiamo per ipotesi che nessuno scriva più con carta e penna, che si usino solo mezzi digitali. Il correttore automatico riduce la consapevolezza ortografica: non c’è bisogno di conoscere l’ortografia delle parole, il correttore automatico vi provvede al posto nostro. Peggio ancora. Il ricorso ossessivo alla funzione “copia e incolla” riduce la necessità di sviluppare una linea argomentativa coerente. Gli studenti con questa pratica cercano risposte prefabbricate alle diverse domande, ma questo non aiuta lo sviluppo della capacità di riflettere, di valutare la qualità delle fonti e di decidere in maniera consapevole. Durante gli esami, di fronte ad affermazioni imprecise o false, chiedo: «Dove ha letto questo?». Il ragazzo spesso risponde, arrampicandosi sugli specchi: «In Internet». E quando io replico: «Sì, ma chi lo scrive?», invariabilmente cala il silenzio. Lo studente non si è posto il problema di accertare la veridicità delle affermazioni che riporta. Eppure sa, come sappiamo tutti, che la rete è piena di notizie false e di bufale, che dovremmo porci l’obiettivo di distinguere il vero dal falso. La tecnologia abitua a pensare che c’è sempre una risposta all’esterno e non nella nostra testa. Ne consegue la caduta verticale della memoria: perché memorizzare una data, un nome, un verso? Cerco nella rete, lì c’è tutto.

Non sono il solo a pensare che l’uso massiccio di pc e internet a scuola non assicura miglioramenti nella resa degli alunni. Al contrario, probabilmente determina un calo negli apprendimenti. Uno studio dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE) rivela una realtà inaspettata: i quindicenni che mostrano i migliori risultati in lettura e in matematica sono quelli che utilizzano meno la tecnologia in classe. La qualità dell’istruzione scolastica, oggi piuttosto depressa, non aumenterà semplicemente aumentando la tecnologia. Se vogliamo che gli studenti diventino più acuti rispetto a uno smartphone è necessario riflettere su un dato fondamentale: la tecnologia non può rimpiazzare l’insegnamento del docente bravo né riesce di per sé a migliorare la qualità dell’apprendimento.

Guardiamo quello che succede ogni giorno nelle scuole, lì si gioca la partita vera. Leggo parole d’ordine insensate, tipo «Niente compiti a casa». Con slogan del genere si organizzano comitati di genitori intenzionati a salvaguardare l’equilibrio mentale dei propri pargoletti, vessati e costretti a sforzi inumani dalla crudeltà di professori insensibili, che osano assegnare compiti a casa. Tutto l’apprendimento dovrebbe avvenire in classe, non è lecito richiedere sforzi ulteriori, a casa non si studia, mai. Due genitori di Canicattì, in provincia di Agrigento, nel gennaio 2018 hanno presentato ricorso al Tar perché il figlio è stato promosso con un voto a loro avviso troppo basso: nove (secondo i genitori, il ragazzo meritava dieci). Anche se si tratta di casi limite, non se ne può più. La conflittualità continua delle famiglie nei confronti dei professori deve cessare, salvo che questi ultimi si macchino di effettive illegalità.

Come si può credere che si possa apprendere e memorizzare qualcosa senza un piccolo sforzo di concentrazione? Naturalmente ci vuole buonsenso, bisogna calibrare gli sforzi richiesti a seconda dell’età dei bambini e dei ragazzi e occorre tener conto di particolari condizioni dei singoli. Ma questo è cosa ben diversa dal rifiuto dello studio e dell’applicazione individuale. Un articolo di Ilvo Diamanti, apparso su «Repubblica» mesi fa, si intitolava: «Ragazzi, non studiate». Argomentava così: «Oggi la “cultura” passa tutta attraverso Internet e i New media. […] Per cui, cari ragazzi, non studiate! Non andate a scuola. In quella pubblica almeno. Non avete nulla da imparare e neppure da ottenere. Per il titolo di studio, basta poco. Un istituto privato che vi faccia ottenere in poco tempo e con poco sforzo, un diploma, perfino una laurea. Restandovene tranquillamente a casa vostra. Tanto non vi servirà a molto. Per fare il precario, la velina o il tronista non sono richiesti titoli di studio. Per avere una retribuzione alta e magari una pensione sicura a 25 anni, basta andare in Parlamento o in Regione. Basta essere figli o parenti di un parlamentare o di un uomo politico. Uno di quelli che sparano sulla scuola, sulla cultura e sullo Stato».

Diamanti ironizzava, ferocemente. L’istruzione di massa è un risultato di portata storica, ha consentito anche ai figli dei contadini e degli operai di raggiungere diplomi e lauree. Ma istruzione di massa non vuol dire, necessariamente, abbassamento della qualità. L’Unione europea ci chiede più diplomati e più laureati; e noi, invece di impegnarci a migliorare, abbassiamo il livello delle competenze necessarie per raggiungere quei traguardi, nella scuola e nell’università. Migliorano fittiziamente numeri e percentuali, peggiora enormemente la qualità. Regalare diplomi e lauree indifferentemente a chi merita e a chi non merita è una fregatura per i più poveri, che non troveranno lavoro neanche se sono bravi. I raccomandati e i ricchi invece se la caveranno, loro battono altre strade.

È tempo di invertire la rotta, la tecnologia da sola non può bastare. Scuola e università devono tornare ad essere luoghi dove professori, studenti e genitori agiscono con armonia, nel rispetto dei rispettivi ruoli. Dove si insegna e si studia con fatica, dove si imparano di nuovo a memoria brani scelti di poesia, le date significative, i nomi delle catene montuose alpine e di alcuni papi, si dà valore alla conoscenza e alla competenza. La facilitazione immeritata, concessa generosamente a tutti, non è democrazia.

Sono idee conservatrici e arretrate? Giudichino liberamente i lettori, corro questo rischio.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di domenica 13 maggio 2018]

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