di Gianluca Virgilio
Mercoledì 7 maggio 2014, in occasione della terza ristampa presso Bollati Boringhieri di Compassione, Antonio Prete ci ha concesso la seguente intervista.
Puoi dirmi come è nata in te l’idea di scrivere un trattato sulla Compassione, di fare la storia di questo sentimento?
Mi ha sempre attratto l’idea di capire qualcosa intorno alla storia dei sentimenti, pur essendo consapevole che una vera storia dei sentimenti umani non è possibile tracciarla, perché niente più del sentimento stesso è radicato nella singolarità, nella determinazione, nella irripetibile specificità. E dunque ogni individuo ha una sua propria storia del sentire. Tuttavia è possibile cogliere nel corso del tempo alcune figure, alcune costanti che riguardano i modi di rappresentare un sentimento. La compassione, tra i sentimenti, mi interessa perché è il luogo costitutivo del tu : dinanzi all’io il tu si mostra nella sua evidenza soprattutto nel momento del dolore, del disagio. La compassione è la rivelazione di un tu inerme, e tuttavia fortemente presente. E quando il tu si rivela è l’io, il soggetto, che comincia a interrogarsi. A conoscersi.
“Compassione è condividere il patire dell’altro, patire insieme all’altro” (p. 50). Potresti illustrare questa definizione?
Diciamo oggi compassione pensando al patire con, alla prossimità nei confronti di chi soffre. Ma c’è anche, reso opaco nell’uso, l’altro senso : aver passione insieme, condividere il pathos dell’altro, essere insieme nella passione, in una passione. Da questo punto di vista compassione e amore appaiono due sentimenti contigui, o sovrapponibili. La compassione ha a che fare, in questo caso, col desiderio. Quanto al patire con l’altro, tutta una storia si dispiega nella rappresentazione di questo sentimento, a partire dal teatro greco, per quanto riguarda la cultura occidentale. Il tema della catarsi, della liberazione o purificazione dopo avere assistito alla tragedia o al dramma, ha a che fare con la compassione, con il patire insieme con i personaggi, con l’essere nel vivo del loro dolore.
Compassione è il terzo studio di quella che possiamo definire una trilogia: Nostalgia. Storia di un sentimento (1992), Trattato sulla lontananza (2008), Compassione. Storia di un sentimento (2013): che cosa tiene insieme questi saggi, qual è il loro fil rouge?
È stato Valerio Magrelli in un articolo su “Repubblica” a dire di questa trilogia. In effetti così mi appare, ora, dopo il terzo libro sul sentire. Ma una trilogia può sempre diventare una tetralogia, chissà! Per ora non lavoro a questo. Diciamo che la nostalgia è il sentire in rapporto al tempo, al tempo (e al luogo, al tempo intimamente legato) che più non ritorna, al tempo irreversibile, la lontananza è il sentire un rapporto con quel che è assente, e lontano nel tempo e nello spazio, ma tuttavia transitabile con l’immaginazione e il pensiero, la compassione è il sentire in rapporto a una presenza, a una presenza dolente. Dunque, il sentire in rapporto al tempo, all’assenza, alla presenza.
La tua indagine spazia tra antico e moderno, da Omero, i tragici greci, gli autori latini (Virgilio, Ovidio, ecc.) fino al romanzo moderno (da Cervantes a Dostoevskij), passando per Dante e Shakespeare. Potresti dire quali sono gli elementi di continuità che hanno caratterizzato il discorso sulla compassione, e se vi siano anche degli elementi di discontinuità?
Certo, quello che Sofocle mette in scena, nella tragedia Il Filottete o nell’ Antigone, ha a che fare con un nostro attuale sentire. Pensiamo alla legge interiore, alla relazione col corpo del fratello ucciso, che Antigone oppone alla legge esteriore, alla legge del potere. Quello che leggiamo in Dante quanto a compassione –pensiamo all’incontro di Francesca da Rimini e al suo racconto d’amore e di morte- ci tocca profondamente e appartiene ancora oggi al nostro sentire. Possiamo forse aggiungere che una civiltà come la nostra che facilita la distrazione dall’altro, o allontana la percezione corporea, visibile, prossima, dell’ altro mettendo in mezzo il virtuale, la comunicazione a distanza, una civiltà che mette al centro l’immagine del sé, e del successo, tende a rendere assai difficile l’esercizio della compassione.
Il capitolo settimo è dedicato alle filosofie orientali, in cui appare centrale la compassione. Pensi che negli orientali l’approccio al sentimento della compassione sia diverso rispetto agli occidentali? Puoi dire quanto noi abbiamo appreso da loro?
Purtroppo la cultura nostra occidentale è poco attenta alla cultura, alle culture orientali. In quelle culture la relazione con l’altro è fondata spesso su un più forte senso del vivente, del mondo come abitato da esseri viventi. L’Occidente ha spesso privilegiato l’astrazione, la riduzione del vivente a cosa, a numero. Ma c’è anche da dire che in un mondo globale ormai si riducono le differenze : il mercato anche nell’Oriente e dovunque arrivi impone le sue leggi, che hanno al centro il profitto, non la condivisione, che invece è il principio della compassione.
Il sapere filosofico appare diviso sul sentimento della compassione; da una parte c’è chi lo considera “ipocrita, auto assolutorio, incapace di rispettare l’autonomia, la libertà e il pudore di colui che è stato colpito dal dolore”; dall’altra chi lo considera come “un forte senso della necessaria umana prossimità all’altro, alla sua sofferenza…” (p. 129). Come mai di uno stesso sentimento si dicono cose così diverse?
Una delle ragioni è che i filosofi, escluse alcune eccezioni che vanno da Rousseau a Schopenhauer, hanno in genere osservato soltanto il soggetto compassionevole, e da questo punto di vista hanno sottolineato l’ambiguità, l’ipocrisia, il gesto orgoglioso, il senso di superiorità di chi ha compassione. Mentre scrittori e poeti e artisti hanno osservato i due soggetti in questione : colui che ha compassione e colui che riceve compassione. In questa relazione hanno potuto vedere un ventaglio vastissimo di sentimenti, hanno di volta in volta rappresentato un aspetto singolare del sentire umano, e infine hanno fondato sul rapporto con l’altro la vera morale.
Una buona parte del capitolo decimo è dedicato a Leopardi, che, come si sa, è uno dei tuoi autori preferiti. Qual è la posizione di Leopardi sulla compassione?
Leopardi anche in questo caso è allo stesso tempo filosofo e poeta, e dunque tratta la compassione sia dal punto di vista del soggetto compassionevole sia dal punto di vista della relazione tra due soggetti. C’è un vero e proprio trattatello della compassione disseminato nello Zibaldone, di cui ho cercato di ricomporre i fili, mettendoli anche in rapporto con la poesia. Perché, a proposito di Leopardi, non si può dire del suo pensiero senza dire della sua poesia : l’uno e l’altra appartengono allo stesso respiro.
La compassione riguarda anche il dolore animale, a cui dedichi un intero capitolo (l’undicesimo). Me ne vuoi parlare?
Per me quel capitolo è il cuore del libro, dico per me, ogni lettore potrà trovarlo altrove. In effetti era questo il discorso che più mi premeva quando ho cominciato a scrivere . Il dolore animale ci richiama alla comune appartenenza alla comunità dei viventi. Ci scuote dalla distrazione, ci avvicina a un sentire che si pone in rapporto d’ascolto della natura, della sua vita, e fa sentire anche noi come elemento di quella vita. Inoltre è sorprendente vedere in quanti modi e con quante forme la letteratura ha messo in scena il dolore animale. Il capitolo poteva diventare un libro a sé : ho dovuto scegliere solo qualche passaggio, a cominciare dalla commovente lettera dal carcere che scrive Rosa Luxemburg nel dicembre del 1917, in piena guerra, raccontando a un’amica il pianto di un bufalo picchiato a sangue nel cortile del carcere e l’incontro fraterno con quel pianto.
Infine, nel dodicesimo capitolo delinei una storia della pietà nell’arte. Ti chiedo: come mai questo soggetto è stato così ricorrente nella storia dell’arte?
Una storia delle Pietà rappresentate nell’arte sarebbe una bellissima storia. Ho detto quasi solo delle Pietà che ho avuto modo di vedere nei Musei. L’artista davanti al tema della Pietà, al dolore della Madre nei confronti del Figlio ucciso e in attesa di sepoltura, fa ricorso a tutte le forme con le quali può raccontare il dolore. Una messa in scena del dolore insieme tragica e inventiva è ogni Pietà. Si sente, in forme ogni volta diverse, il sentimento dell’artista davanti al rapporto tra dolore e forma, tra scena della tradizione religiosa e devozionale e invenzione formale. Percorrere queste esperienze è stato per me come meditare a lungo sulla grande domanda : come può l’arte raccogliere il tragico? Come possono dolore e bellezza, lacerazione del sentire e grazia, ferita e forma stare insieme, comporsi in unità?