di Paolo Vincenti
Il grave errore della classe dirigente piddina è stato quello di ritenere che, nel nuovo ordine postindustriale e informatizzato, i desideri dei ceti medio-alti potessero diventare il motore del cambiamento, anche se effimeri, a volte velleitari. Li hanno voluti inglobare a costituire valori di riferimento, a diventare norme. Attraverso un mash up dei vecchi valori, centrifugati nel frullatore ideologico, complici gli opinion leaders, hanno partorito il pensiero nuovo, una nuova estetica che impone il punto di vista kaloskagathos agli sprovveduti, porta il verbo ai cercatori di senso, la salvezza ai naviganti nel mare magnum della confusione e della transizione. E questo pensiero nuovo, che è il pensiero unico modernista riformista laicista, è in realtà un non pensiero, che passa attraverso il potentissimo canale dei social media. Al non pensiero fa seguito il non fare, ovvero lo scalmanarsi per fare fare fare. Ma rottamare per rottamare, a vantaggio di un nuovismo di facciata, che non ha supporto ontologico, è un’operazione sbagliata nelle sue stesse premesse e alla fine suicida. Infatti, quello che abbiamo visto era allestimento, una disarmante messa in scena, la finzione del fare, vellicando solo la pancia del pueblo, un acciapinare per portare a casa un risultato purchessia, dare solo per dare, riforme di difficile attuazione e quindi annacquate, incomplete, se non impossibili da realizzare. La classe dirigente piddina si è espressa solo attraverso numeri e percentuali taroccati, slides, slogan vuoti di senso profondo. La narrazione ammannita dal Governo Renzi-Gentiloni era poco veritiera, addomesticata, truccata. Ma per l’eterogenesi dei fini, la loro propaganda miracolistica ha accresciuto il malumore e il pessimismo dei cittadini che hanno visto peggiorare quotidianamente le proprie condizioni di vita. Del tutto trascurata poi, negletta, la questione morale, richiamata dal Presidente Emerito Giorgio Napoletano nel suo ultimo discorso a Palazzo Madama, in occasione dell’elezione del Presidente del Senato. Ma non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire, a quanto pare, perché la dirigenza Pd ha dato comunque l’impressione che, nonostante la scoppola persa il 4 marzo, non si stia occupando di analizzare le ragioni della sconfitta ma soltanto di pianificare le mosse in vista del futuro congresso di partito. Invece di aprire un serio dibattito interno, una fascia minoritaria del partito pensa a come posizionarsi nello scacchiere politico di questa fase di transizione, lasciandosi addirittura irretire dalle offerte del Movimento Cinque Stelle, che vorrebbe governare col Pd, dopo averne detto peste e corna. Mentre la parte maggioritaria, la cosiddetta ala renzista, invece di cospargersi il capo di cenere e cercare di non ripetere gli sbagli del passato, pare attratta solo dal desiderio di vendetta nei confronti del Movimento Cinque Stelle, a cui vorrebbe negare qualsiasi appoggio. Tattiche, insomma, ripicche, odio e vendette personali, in un assurdo teatrino della politica politicante che resta ancora il Pd nell’ “indietro tutta” del suo inesorabile declino.