di Rosario Coluccia
Mi colpiscono due articoli in prima pagina nel «Nuovo Quotidiano di Puglia» di domenica 22 aprile. Il primo è un editoriale del direttore Claudio Scamardella che si intitola «Quel prof “bullizzato” è il fallimento della nostra eredità». Trae spunto da un video di cui tutti hanno parlato, molto diffuso in rete nelle ultime settimane: vi si vede uno studente che, in un Istituto tecnico di Lucca, insulta e minaccia un professore silenzioso e inerme. Purtroppo non si tratta di un episodio sporadico, le cronache riportano di continuo fatti di sopraffazione che avvengono nelle scuole di tutt’Italia, segnati da comportamenti irrazionali e da violenza. Ne risultano protagonisti, di volta in volta, con ruoli e atteggiamenti diversi, studenti, genitori, professori. Giusto l’allarme: «lo stato di salute dell’istituzione scolastica è da “codice rosso”». Alla fine di una disamina che, partendo dai comportamenti inquieti e a volte criminali che attraversano la scuola si allarga a coinvolgere l’intero assetto della nostra società negli ultimi quarant’anni, ecco la conclusione: «Riapriamo gli occhi, dunque, prima che sia troppo tardi». Accanto, nella stessa pagina, un secondo articolo di Erasmo Marinazzo denunzia il caso di uno diciassettenne leccese vittima dall’inizio dell’anno scolastico delle prepotenze e delle violenze sistematiche di un compagno di classe. Umiliazioni e botte, calci, pugni e schiaffi. Il perseguitato non parla, nemmeno in casa. Un altro compagno (uno solo) riprende la scena, la manda alla mamma della vittima che, opportunamente, fa una denunzia all’autorità giudiziaria.
Accostati, i due pezzi giornalistici fanno venire i brividi e sollecitano un dibattito a cui nessuno può sottrarsi. Non mi interessa discutere in questa sede le responsabilità individuali, i provvedimenti che sono stati presi o saranno presi dalle autorità a carico dei responsabili delle vicende. Mi auguro che siano provvedimenti meditati e seri, questo faranno le istituzioni a ciò delegate. Mi interessa altro. Non è più tempo di reprimende generiche o di lamentele senza costrutto. Ognuno faccia la propria parte, a seconda delle proprie competenze. A partire dalle cose che conosce, indichi percorsi e gesti anche minuti che possano contribuire ad arrestare la frana e ad invertire la tendenza. Senza aspettare la palingenesi né i miracoli.
La lingua esprime i nostri sentimenti e la nostra visione del mondo. Impegniamoci a usare sempre le parole giuste per qualificare quello che succede. Senza finti buonismi, le parole non vanno edulcorate. Ho consultato due o tre vocabolari per cercarvi la definizione di «bullo». Ecco: ‘giovane arrogante, spavaldo; smargiasso, teppista’; oppure ‘uomo, specialmente giovane, che si comporta con arroganza, prepotenza, spavalderia; teppista’; oppure ‘giovane prepotente e spavaldo; teppista’. D’accordo, «teppista» è una parola forte, strutturalmente associata a violenza e vandalismo. Ma «spavalderia» e «arroganza» sono vocaboli meno negativi, addirittura possono avere un certo fascino per individui ideologicamente vacillanti. Esiste una linea di profumi destinata a donne e uomini, alquanto diffusa, legata a questi termini. «Una fragranza che si rivolge ad una donna moderna, affascinante e consapevole». E ancora: «Un profumo per un vero e proprio gentleman di altri tempi, un uomo capace di trasmettere i propri valori ed il suo carisma in ogni azione». L’inversione dei valori semantici legati alle parole che questi messaggi pubblicitari trasmettono è compiutamente realizzata. Se non ci badiamo, non ce ne accorgiamo neppure. Attraverso quei messaggi nella nostra testa si insinua una visione capovolta del mondo.
Torniamo al filo principale del nostro discorso. Faccio una proposta linguistica. Abbandoniamo i vocaboli blandi, che non fotografano adeguatamente la realtà inaccettabile che è sotto i nostri. Chi compie gesti inqualificabili di violenza non è semplicemente un «bullo» o magari, applicando alla base un suffisso diminutivo che ne attenua il significato, un «bulletto» (come facciamo con «ragazzetto», «lupetto», «orsetto»). Rivolgo un invito a chi lavora nella comunicazione. D’ora in avanti, quando descriviamo gli episodi di violenza che avvengono nelle scuole di tutt’Italia, al nord, al centro e al sud, usiamo parole giuste, definiamo quegli individui, anche giovani, «sadici socialmente pericolosi» (o qualcosa di altrettanto esplicito), non addolciamo con altre formule una realtà moralmente e socialmente inaccettabile.
I fenomeni di cui parliamo non nascono oggi. Ma certo oggi sono in pericoloso aumento. Di fronte a fenomeni in crescita, la lingua si adegua. Nei giornali, in radio, in televisione e nella rete ricorre spesso il verbo «bullizzare», il neologismo entra nelle più recenti edizioni dei vocabolari; a «bullismo» si accompagnano espressioni come «bullismo rosa» (a partire da Thirteen – 13 anni, un film della statunitense Catherine Hardwicke del 2003), «bullismo antigay», «bullismo digitale», che indicano, nel loro insieme, la pervasività di questi comportamenti nella nostra società e nel mondo occidentale. È comunissimo «cyberbullismo» (meno frequente la grafia italianizzata «ciberbullismo»), atteggiamento favorito dall’anonimato del molestatore (anche se spesso l’anonimato è illusorio) e dall’assenza di limiti spaziotemporali (non occorre trovare un luogo e un momento specifico per la violenza, si esercita stando comodamente a casa, seduti davanti allo schermo). Ne consegue un indebolimento delle remore etiche. Pensando di non essere individuati, si commettono azioni riprovevoli che potrebbero generare perplessità nell’evidenza della vita reale (come quelli che buttano i rifiuti per strada, sperando di non essere visti). Si verifica anche l’atteggiamento opposto: diffondere in rete i filmati delle proprie azioni criminali diventa elemento di vanteria e accresce la considerazione presso i coetanei.
Si moltiplicano i libri, destinati a utenti di vario genere, che da varie angolazioni e con diverse prospettive analizzano quanto è sotto i nostri occhi, propongono ricette, suggeriscono strategie: «Chi sono i bulli» (per adolescenti); «Genitori nella rete del bullismo»; «Bullismo e cyberbullismo. Comprenderli per combatterli. Strategie operative per psicologi, educatori, insegnanti». E si moltiplicano le indagini che tendono a quantificare gli atti di violenza nella scuola, individuandone anche (fin dove possibile) le motivazioni profonde. Colpisce la percentuale elevata di chi dichiara di aver subito manifestazioni di violenza (a volte si avvicina al 50% degli intervistati). Ma soprattutto colpiscono i numeri di quelli che dichiarano di essere essi stessi autori di prevaricazioni, con atti o con parole: in Australia, rivela di averlo fatto nell’ultimo anno l’11% degli intervistati, in USA il 21% si qualifica come cyberbullo.
In un’intervista rilasciata al nostro giornale la madre del ragazzo leccese vessato si dichiara sconvolta per il fatto che nessuno dei presenti abbia mai pensato di intervenire. «Si vede anche una ragazza, seduta a un banco, che si sposta per far passare il ragazzo con una sedia in mano. È assurdo, non capisco perché tutta questa cattiveria». Ha ragione, un’aria di cattiveria collettiva avrà inquinato in quei momenti la classe silenziosa. Una parola definisce il comportamento di chi, per paura, per viltà o per indifferenza, avrà preferito tacere di fronte all’ingiustizia evidente. La parola è «omertà». In senso proprio qualifica la ‘consuetudine propria di organizzazioni malavitose specialmente di carattere mafioso, per cui viene mantenuto il silenzio su un delitto o sulle sue circostanze per sottrarre il colpevole alla giustizia’; estensivamente, la parola può essere usata per definire la ‘solidarietà che si stabilisce fra i membri di una determinata cerchia, volta a nascondere colpe o mancanze altrui per timore di ritorsioni e vendette o per salvaguardare gli interessi comuni’.
Il timore di ritorsioni e vendette o forse la sudditanza psicologica di fronte al soggetto dominante avrà reso silenziosi quei giovani di fronte alla violenza. Nella miseria culturale crescente, alcuni adolescenti infingardi vivono accanto ad alcuni adolescenti delinquenti. I ragazzi vedono quello che fanno gli adulti e lo replicano, assorbendo indifferenza e cinismo. Nel mondo degli adulti, la segnalazione di sopraffazione e di soprusi che non ci riguardano in prima persona è spesso percepita come qualcosa di negativo, chi parla viene considerato un delatore o una spia. Invece reagire alle ingiustizie è un imperativo etico, chi parla compie un gesto di civiltà. Niente silenzi. Se cambiamo i comportamenti la parola omertà sparirà dal vocabolario.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di domenica 29 aprile 2018]