Il messaggio inascoltato di Don Tonino Bello contro la diseguaglianza

di Guglielmo Forges Davanzati

“Oggi la gente digiuna per ottenere un posto, un aumento di salario, un diritto da cui è stato spossessato”. Sembrano parole pronunciate oggi, a dieci anni dallo scoppio della crisi: sono, invece, parole di venticinque anni fa, di Don Tonino Bello, vescovo di Molfetta, nativo di Alessano, una delle figure più carismatiche della Chiesa italiana della seconda metà del Novecento, morto il 20 aprile del 1993. Don Tonino, in un periodo dominato dalla diffusa convinzione che la globalizzazione avrebbe prodotto benefici per tutti, vedeva crescere povertà e diseguaglianze. Su scala globale e nel suo Sud.

L’Italia dei primi anni Novanta sperimentò le prime manovre definite all’epoca di “lacrime e sangue” (manovre antesignane di quelle di austerità dei nostri tempi): riduzioni consistenti della spesa pubblica e aumento della tassazione. Ci si poneva l’obiettivo di frenare la crescita del debito pubblico iniziata nel ventennio precedente e con forte accelerazione negli anni Ottanta. Gli effetti macroeconomici furono dirompenti: il debito pubblico non solo non si ridusse, ma, in rapporto al Pil, aumentò; così come aumentò il tasso di disoccupazione. Soprattutto si ridussero i salari reali, con conseguente aumento delle diseguaglianze, e cominciò il rilevante declino del tasso di crescita della produttività del lavoro. L’economia italiana entrò nella lunga stagione del suo declino. Alle classi agiate del tempo, Don Tonino chiedeva “privatevi del lusso, dello spreco, del superfluo, delle ridondanze dei vostri conti in banca”. Prediche inutili, secondo la felice definizione di Luigi Einaudi, e tuttavia profetiche.

Oggi, a distanza di venticinque anni, la crescita delle diseguaglianze su scala globale è quasi unanimemente considerato IL problema, non solo economico, di questi ultimi anni. Crescono le diseguaglianze di reddito e di patrimonio, crescono i differenziali salariali (si calcola, a riguardo, che la differenza salariale fra un amministratore delegato di una grande impresa e un dipendente della stessa è passata da 20 a 1 nel 1965 a oltre 300 a 1 nel 2017), crescono le divergenze regionali. Le diseguaglianze sono un freno alla crescita per numerose ragioni, ma soprattutto perché, associandosi a compressione dei salari e dunque al calo dei consumi, riducono la domanda, attivando una spirale viziosa di profezie che si auto-verificano. La caduta della domanda peggiora le aspettative degli imprenditori in ordine ai profitti che possono realizzare e dunque posticipano gli investimenti; ciò causa la caduta della domanda che rinforza l’aspettativa iniziale, causando ulteriori riduzioni dell’investimento.

La crescita delle diseguaglianze è innanzitutto e fondamentalmente imputabile alla compressione dei salari: fenomeno che ha riguardato, in una dinamica quarantennale, tutti i Paesi OCSE e che ha riguardato l’Italia in particolare a partire dalla metà degli anni Novanta e con la massima accelerazione, nel confronto internazionale, nel corso degli ultimi due decenni. Queste misure sono funzionali a una modalità di riproduzione basata sul tentativo di accumulare surplus crescenti della bilancia commerciale (ovvero di esportare più di quanto si importa): il c.d. neomercantilismo. La ratio sta nel fatto che la moderazione salariale serve alle imprese per ridurre i prezzi di vendita dei beni prodotti sui mercati esteri e, al tempo stesso, serve a ridurre i consumi di beni prodotti in altri Paesi. E’ palese che questo modello di sviluppo non è sostenibile per tutti, dal momento che occorre che esistano Paesi che importano. E, inoltre, poiché i Paesi esportatori non hanno raggiunto tutti il medesimo stadio di sviluppo capitalistico, il commercio internazionale tende inevitabilmente ad avvantaggiare i Paesi a più alto grado di sviluppo (i c.d early starters) e a danneggiare gli altri (i c.d. late comers).

Sul piano politico, ne deriva un vero e proprio cortocircuito. Che fa riferimento a una dinamica che parte dall’aumento dell’indebitamento pubblico (non solo in Italia, essendo un fenomeno che coinvolge tutti i Paesi OCSE, e che attiene anche all’impiego di risorse pubbliche per i ‘salvataggi bancari’) e che modifica sensibilmente gli obiettivi dei Governo – acquisire ‘credibilità’ nei mercati finanziari – che, a sua volta, condiziona gli indirizzi di politica economica. Dunque: consolidamento fiscale per generare risparmi pubblici e moderazione salariale per accrescere il saldo delle partite correnti. Nel caso italiano, strumenti entrambi totalmente inefficaci ai fini della crescita economica e dell’aumento dell’occupazione.

Se, dunque, l’obiettivo prioritario di un Governo è l’acquisizione di credibilità nei mercati finanziari, e dunque l’assicurazione fornita ai detentori di titoli di Stato che il debito verrà onorato, c’è ben poco spazio per l’attuazione di misure che migliorino il benessere materiale della gran parte dei cittadini. Ciò accade nella massima misura nell’Unione Monetaria Europea, dal momento che i vincoli imposti dai Trattati che ne definiscono l’architettura (Trattato di Maastricht e Fiscal Compact, in particolare) impediscono di fatto l’attuazione di politiche redistributive mediante, in primis, il potenziamento dei servizi di welfare.

Nel 1992, anno di stipula del Trattato di Maastricht, salvo poche voci isolate, la gran parte degli economisti italiani salutava con favore quell’accordo. Anche in questo caso profeticamente, don Tonino Bello ammoniva: “Verranno tempi duri proprio nel momento in cui ci stiamo preparando a vivere l’esperienza nella casa comune della nuova Europa, che a me si presenta anche con tristi presagi perché ha più il sapore di una convivenza economica, di una cassa comune che di una casa comune”. E ancora: “c’è una polarizzazione intorno a una nazione emergente, la Germania; e intorno alla sua moneta, il marco”. E infine: “L’Unione europea sembra svilupparsi non tanto in una convivialità di differenze quanto attorno al marco e probabilmente attorno a grandi nazioni che renderanno la nostra vita standardizzata un po’ sulla loro”. La sua fondamentale intuizione – che in quegli anni (e ancora oggi) sarebbe stata considerata un’eresia economica – è che la competizione fra Stati in un Unione fra Stati può essere distruttiva. E poiché l’Unione Monetaria Europea era (ed è) basata sull’assunto per il quale un’economia di mercato ‘fortemente competitiva’ genera crescita e benessere diffuso, apparivano inevitabili le preoccupazioni del vescovo di Molfetta. Preoccupazioni che oggi sono realtà.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di domenica 29 aprile 2018]

 

 

 

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