Andare per le vie

di Luigi Scorrano

Per le vie è suggestivo titolo di una raccolta novellistica di Giovanni Verga pubblicata nel 1883, quasi a ridosso delle più note e celebrate Novelle rusticane che hanno goduto di maggior fortuna sia per intrinseci valori d’arte, sia per la presenza in esse di un ‘pezzo’, dolce e patetico, come Il canarino del n. 15. Un’indicazione, questa, che non comporta né un’approvazione sentimentale né un più o meno severo giudizio critico. La novella è là, nelle pagine verghiane che non negano a questo scritto, anche a questo, la possibilità/capacità di emozionarci per diverse che possano essere le radici di differenti spinte emotive.  Per le  vie punta il suo obiettivo (ricordiamo ancora che Verga aveva una sincera passione per la fotografia?) su un mondo che si direbbe ancora in formazione o in evoluzione. Ma è davanti al titolo verghiano, quel Per le vie così spoglio, che il nostro occhio e la nostra attenzione si arrestano. Incuriositi, ci soffermeremo. Forse perché quel titolo ne richiama irresistibilmente un altro, Vagabondaggio, che inaugura la raccolta dal titolo eponimo. Ci attira, oltretutto, la situazione, la sorte, dei personaggi dei quali in poche righe si profila il destino. La loro dispersione, il loro disseminarsi nel mondo  sembrava configurare quello di una sostanza umana che cercava la sua zolla sulla quale posarsi e con la quale confondersi, si direbbe, come per una pianta, ad attecchire al risveglio della terra sotto il respiro delle prime piogge. Non un andare disordinato per il mondo, ma quasi l’obbedienza a un ordinato disegno. O ad una misteriosa disposizione del caso. O l’ordinata sistemazione dei pezzi di un gioco al quale si è invitati. La breve pagina verghiana d’esordio si affaccia su orizzonti in cui il caso gioca la sua parte, ma il cui ritmo non è niente affatto quello che muove sulle tracce rigorose di un’intelligenza da sfruttare pienamente ad ogni mossa; è Il ritmo della narrazione. C’è un filo robusto della cui composizione non si conoscono  né  le possibilità né la durata: solo la funzionalità. Verga non si sofferma su particolari come questi; mette in scena uomini con le loro necessità, con le loro irrequietezze:

<<Nanni Lasca, da ragazzo, non si rammentava altro: suo padre, compare Cosimo, che tirava la fune  della chiatta, sul Simeto, con Mangialerba, Ventura e l’Orbo; e lui a  stendere  la mano per riscuotere il pedaggio. Pagavano carri, passavano vetturali, passava  gente a piedi e a cavallo d’ogni paese, e se ne andavano pel mondo, di qua e di là del fiume.>>[1] 

Nella prosa del Verga in un tracciato itinerale, in un disegno apparentemente divagante ma rigorosamente determinato, la parola si dispone quasi spontaneamente al posto che le spetta, come per una decisione autonoma. A un simile rigoroso disegno sembra spontaneamente adeguarsi la costellazione di titoli inscrivibili al’insegna della mobilità che trapassa in erranza, ma torna ad inscriversi in un saldo riconoscibile ordine.  Quella mobilità si genera, nel vivaio dell’invenzione verghiana, a ridosso, eco studiata dalla legge esposta nella lettera a Salvatore Farina, nel duplice ruolo di confidenza epistolare e di enunciazione prefatoria.[2] Anche Fantasticheria, che sembra discostarsi da questa tematica ‘viaria’ celebrando – nel desiderio – le quarantotto ore in cui il protagonista potrebbe stare in un luogo meno consueto del solito, lascia emergere un duplice moto d’irrequietezza, perciò di movimento: l‘ansia di fuga della donna e quella di un più o meno riposante soggiorno per l’uomo che è con lei. Passava, … “Qui il percorso è mentale come vuole la situazione esposta nel titolo. Non solo; il moto di fuga investe le cose, si trasmette come un movimento tellurico con il suo epicentro profondo. Donde, se non da questo, scaturisce il battito insistente di una sorta di regolare, ma solcata da un filo d’inquietudine, annotazione d’un movimento spasmodico alla ricerca di un angolo di quiete, di una sosta: Passava …; passavano…: passavano …   Ci colpisce l’effetto di dispersione che alimenta tante pagine dell’opera verghiana. Possiamo sorprendervi murmuri ed echi di altre pagine famose: quelle sulla calata dei lanzichenecchi in Lombardia: sovrano s’accampa il verbo del transito, passare; ma in Verga non il semplice passare bensì prevale il senso di una stupefatta  intuizione della propria sorte: passare è trapassare. Benché casuale, è il destino che spinge  con violenza vendicativa nel petto di compare Cosimo il calcio del baio che da quell’uomo ha ricevuto continui maltrattamenti. Non è (o lo è solo in apparenza) un disgraziato gioco della sorte, ma una resa dei conti feroce. Per l’uomo, da allora condannato a una lunga agonia, non ci sarà scampo.

Con la storia delle sue peripezie Grazia sembra toccare il cuore di Nanni;  e in quella storia occupano un posto rilevante l’essere andata per le vie in un itinerario che è,insieme, pellegrinaggio verso un atteso miracolo per la sopravvivenza e vagabondaggio picaresco:

<<E cominciò a narrar la storia del suo misero vagabondaggio: la fame, il freddo, le notti senza ricovero, gli stenti e le brutalità che aveva sofferto; seduta sulla  balla della mercanzia, colla schiena curva, le braccia abbandonate sulle ginocchia, ma gli occhi lucenti di contentezza …>>.[3]

Esistenze sempre dipendenti dal caso che ne realizza confusamente i destini, i personaggi di Verga si muovono, si direbbe, come una massa informe, una materia nella quale non siano distinguibili singole persone o oggetti. Anche il loro  cammino non è determinato da itinerari preordinati ma sono zimbelli della casualità che li conduce:

<<Nanni girò ancora un po’ di qua e di là, finché spinto dalla fame tornò a Primosole …>>.[4]

Altre modalità di vagabondaggio (e si assuma la parola a sigla caratterizzante) emergono nelle pagine dello scrittore siciliano; valga ricordare quella Fantasticheria in cui si specchia l’incomprensione del mondo borghese per il mondo di miserabili che animano le pagine delle opere rusticane. Nel conto bisognerà anche far rientrare il continuo andirivieni finalizzato a comunicare o ad attingere notizie. O nelle pagine dei Ricordi del capitano D’Arce, la puntura penetrante della malinconia:

<<Felice lei che andrà così lontano, per tanto mare, per tanto mondo! Come vorrei volare anch’io, come vorrei venire.>> [5]

Sarà vero fino in fondo? Un altro elemento caratterizza l’evocazione del vagabondaggio nelle pagine di Verga: l’addio: «Addio, tramonti del paese lontano! Addio, abeti solitari alla cui ombra ella aveva  tante volte ascoltato le storie  che egli le narrava, […]. Addio! anch’essa è lontana» (Di là del mare, p. 351), confusi, gli amanti, tra coloro, tanti, che si dicevano addio. Un sentimento di dispersione domina le Novelle rusticane; una forte tensione lirica intride pagine che ci si aspetterebbe più assestate sul senso di una realtà rude, nuda. C’è, forse con un premuto pedale di malinconia, la ricerca di un ‘doloroso’ che non è patetico ma lancinante pungolo di realtà. L’addio verghiano, inopinatamente, imbocca una direzione manzoniana:

<<Addio, dolce malinconia del tramonto, ombre discrete e larghi orizzonti solitari del noto paese. Addio, viottole profumate dove era cosi’ bello  passeggiare  tenendosi abbracciati. Addio, povera gente ignota che sgranavate gli occhi al vedere passare i due felici>> [6] .

Quanti progettano un viaggio organizzato! quanti afferrano, un giorno qualunque, uno zaino, ci ficcano pochi strumenti indispensabili e vanno all’avventura. Per le vie troveranno compagni di viaggio, simpatici  o sgradevoli; gente che li terrà in sospetto o nella quale susciteranno un senso di sospetto. Ma la strada fa conoscere persone, avvicina o allontana. Soprattutto, la strada è come un grande libro da sfogliare e leggere pagina per pagina centellinando le impressioni, facendosi compagnoni di chi narra.

Dell’andare per le vie ci sono rimaste molteplici testimonianze: sia per gli  itinerari segui dai viaggiatori, sia per le infinite peripezie che hanno caratterizzato i loro percorsi. Il Medioevo europeo ci mostra pellegrini in viaggio verso i luoghi santi: Roma o Gerusalemme: e  ci si va con la colonna sonora improntata a compunzione o anche a una distensiva allegria. I pellegrini di Chaucer appartengono a questa famiglia! a contrasto, quasi eroe solitario, alto e severo come lo ha sempre immaginato un profilo retorico, ma non del tutto, un poeta: Dante Alighieri. Il poeta compie un viaggio singolare; non solo per le vie ma dalla confusione alla chiarezza, tanto che la  sua guida, Virgilio, deve diversamente instradarlo (“altro viaggio”, altra via”, altri porti: tutto è alterità in quel viaggio così dubitosamente intrapreso!). Il traguardo sarà assoluto! I Re Magi camminano per le vie che, affidatisi alle indicazioni di un corpo celeste, si mettono sulla strada che li porterà alla capanna di Betleem; andando per le vie degli Stati Uniti Sal e Dean matureranno esperienze decisive narrate nel romanzo Sulla strada di Kerouac. Si pensi, per esperienze italiane, alla scrittura di un Viani nelle pagine dei Vàgeri . In esse l’andare per le vie del mondo è affidato talvolta, curiosamente, a un elemento anagrafico, manciate di nomi o, meglio, soprannomi suggeritori di luoghi, di territori della realtà diventati contrade della mente, evocatori  di circostanze nella loro diversità tutte riportabili, poi, a quel tema, a quel filone del vagabondaggio sempre affascinante, sempre ricco di operanti suggestioni. Un breve esempio può suggerire per tutti una modalità di recupero d’una memoria suggestionata da un gioco di sillabe:

<<Soprannomi uditi navigando l’Oceano: Guazzino,Trivella, Sciapino,Cataclè, Trebesto, il Tallito, Nappino,Uccellino, il Catone, Agonia, Digiuno, Masticabombe, il Patalani, Stoppa, Calcafosse, Tacio, Mordino, Strappamanette, Mangiastoppa, il Gobbo di Gramignotto, Re Giovanni, Il Cenciaro, Dimmi dimmi, Fede, Faccenda, Argano, Tananera, Ecc>>..[7]

Viaggi si susseguono a viaggi, ma l’idea, e la tensione verso il viaggio, non finiscono. Più che il viaggio, però è proprio la realtà del vagabondaggio a prevalere: vi concorre, buona accompagnatrice l’immaginazione. La modulata sequela dei soprannomi vianeschi è, per se stessa,  un viaggio in cui casualità e senso dell’avventura fanno un curioso amalgama,  segnano itinerari tra libertà e disordine o solo una esperienza della malinconia che si fa dolore: dolore di una perdita; o di non si sa che! Viene quasi spontaneo un riferimento che si affaccia dubitosamente alla memoria; e la giustificazione di una cronica renitenza a un viaggiare che è, più che questo, un vagabondare, un lasciar libero corso a quello che l’ordinato viaggiare non procurerebbe. L’ombra dolcemente ironica di Ludovico Ariosto vagheggia la motivata renitenza del grande poeta estense mettendo in campo le più diverse privazioni, ma lo scatto della fantasia nasce e si configura come ragione primaria  di un rifiuto: sottesa vi è una ironica motivazione: un viaggiare con Tolomeo sulle carte.

 

Note

[1] G. Verga., Vagabondaggio, in Id.,, Tutte le novelle, Introduzione, testo e note a cura di Carla Riccardi, p. 457, Mondadori, Milano, 2001 (nei “Meridiani”

2[2] Si ricordi almeno, in essa, l’impegnativa dichiarazione riguardante il processo eziologico che caratterizza il fare artistico: «… io credo che il trionfo del romanzo, la più completa e la più umana delle opere d’arte, sarà così completa che il processo della creazione rimarrà un mistero (Ivi, 203».

[3] G. Verga, Vagabondaggio, cit., p. 480.

[4]  Ibid., p. 484.

[5] Id., I ricordi del capitano d’Arce, in G. VERGA, Tutte lr novelle, cit., p.. 615.

[6] Id., Di là dal mare, in G. VERGA, Tutte le novelle, cit., p. 355.

7 L. Viani, Angiò  uomo d’acqua, in Id. Storie di vàgeri, a c. di Nicoletta Mainardi  con un saggio introduttivo di Marco Marchi, Valleccchi Editore, Firenze, 1988, p. 65.

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