di Guglielmo Forges Davanzati
Il problema dell’eccesso di burocrazia in Italia, segnalato ripetutamente su questo giornale, va preso sul serio e non riguarda solo i vincoli posti all’attività d’impresa. La burocrazia è pervasiva, molto spesso selettiva (a beneficio di alcuni, a danno di altri) e rende difficile, se non impossibile, il lavoro anche nel settore pubblico e, in particolare, nelle Università.
Gli esempi sono molteplici: dalle procedure per l’acquisto di libri e l’abbonamento a riviste, ai tempi di rimborso delle spese anticipate dai professori per la partecipazione a Convegni e seminari (spesso di durata quasi annuale), ai tanti documenti che occorre produrre per certificare che il collega che viene invitato a tenere una lezione non è un parente (sic!), alle procedure concorsuali, che talvolta impiegano anni per arrivare a conclusione.
Cosa motiva l’esistenza di un apparato burocratico così evidentemente elefantiaco e irragionevole? Si possono suggerire due linee di lettura.
1) La burocrazia è un’appendice del potere accademico e contribuisce a rendere conseguibili i risultati perseguiti da chi ha realmente potere in Università. In tal senso, l’apparato burocratico è per sua natura selettivo/discriminatorio, mostrando il suo volto intransigente a chi potere non ne ha, mostrando il suo volto “umano” o quantomeno ragionevole a chi potere lo ha. Dunque, l’ipertrofia normativa non riguarda l’intero corpo docente. Norme che formalmente valgono per tutti sono facilmente aggirate (anche in modo lecito) laddove occorre risolvere un problema che riguarda chi di fatto decide.
2) La delegittimazione del ruolo del docente universitario, e della sua funzione sociale, ovvero la percezione diffusa (in larga misura influenzata dalla lunga campagna mediatica finalizzata a dipingere l’Università italiana come luogo di corruzione, baronie, nepotismo e null’altro) per la quale il professore è un nullafacente, ha contribuito a un radicale ribaltamento del rapporto fra personale docente e personale tecnico-amministrativo. Quest’ultimo sa che il suo interlocutore, se non altro perché non “timbra il cartellino” pretende qualcosa (dal rimborso di una missione a un convegno, all’acquisto di un libro) che semplicemente non merita. Da cui anche l’inversione dell’onere della prova. Mentre nella “vecchia” Università, a titolo esemplificativo, non era richiesto al docente di dimostrare di aver partecipato a un convegno, nella “nuova” Università il rimborso per la partecipazione a un convegno è subordinato alla dimostrazione del fatto: dimostrazione che in molte sedi avviene tramite presentazione all’Ufficio deputato di attestato di partecipazione, spesso corredato da marca da bollo di 2euro (a carico del docente), talvolta con firma autografa dell’organizzatore del convegno (o del Presidente dell’associazione scientifica che lo ha organizzato). Un attestato allegato a una mail non dimostra nulla: potrebbe essere stato scritto dal docente, anche se su carta intestata dell’associazione scientifica, alla quale – si suppone, fino a prova contraria – il docente ha avuto accesso in modo illecito.
Vi è di più. Se poi è vero (e purtroppo lo è) che le spese per l’istruzione universitaria sono concepite come una pura voce di costo, appare ragionevole assumere che l’apparato burocratico, e la funzione inevitabilmente “disciplinante” che assume (sebbene in maniera selettiva a beneficio dei nuovi gruppi di potere post-riforma), svolga anche la funzione di provare a ridurre i costi di funzionamento dell’Istituzione. Attraverso meccanismi di disincentivo, che fanno sì che i professori, nella sostanziale impossibilità di fare ricerca (e dunque di utilizzare fondi pubblici per farla), rinunciano a fare ricerca e per conseguenza a chiedere fondi per farla.
In termini generali, mentre il sistema universitario italiano, per quanto attiene all’ideazione dei modelli gestionali e alle procedure di valutazione, si sta costruendo sulla base della peggiore tradizione statunitense, per quanto riguarda l’applicazione di questi modelli si sta, per contro, costruendo sulla base della peggiore tradizione giuridica italica.
L’apparato burocratico, oltre alla sua funzione disciplinante, svolge (o dovrebbe svolgere) anche la funzione opposta, ovvero produrre un insieme di procedure pressoché automatiche che accelerino i processi decisionali. Nell’Università italiana, questa funzione è affidata all’Agenzia Nazionale di Valutazione della Ricerca (ANVUR). Il problema risiede nel fatto che ANVUR produce essa stessa oneri burocratici che rendono estremamente difficile il lavoro in Università: le procedure di valutazione della ricerca di valutazione della didattica sono basate su algoritmi matematici a tal punto complessi da rendere pressoché impossibile la sola lettura dei documenti che l’Agenzia pubblica.
In linea generale – e ciò vale sia per il settore privato, sia per il settore pubblico – come viene fatto osservare, il perseguimento di obiettivi di competitività (nell’acquisizione di quote di mercato per le imprese, per il perseguimento di standard di ricerca ‘eccellenti’, nel settore della ricerca scientifica), sui quali si fondano le politiche economiche europee, richiederebbe la massima semplificazione amministrativa. Richiederebbe l’uso di protocolli che riducano i margini di discrezionalità del decisore politico e che sostituiscano la discrezionalità con automatismi, dove gli automatismi sono generati dalla produzione di norme. A questa tendenza, si contrappone la tendenza contraria in un meccanismo intrinsecamente contraddittorio. Il perseguimento della competitività richiede – secondo il paradigma dominante – riduzioni di spesa pubblica (cosa che, nel caso italiano, si è tradotta in una drastica riduzione del numero di dipendenti pubblici, per numerosità ora inferiori alla media europea). La riduzione della spesa pubblica accresce il tasso di disoccupazione e riduce i salari, accrescendo la corruzione. L’apparato burocratico reagisce, per contrastarla, producendo bulimia regolatoria, che non genera altro effetto se non accentuare la recessione e avvantaggiare individui e gruppi sociali che hanno il potere di aggirare le norme.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di giovedì 12 aprile 2018]