Una volta un fabbro ferraio scrisse un libro di racconti. In realtà non lo scrisse, perché non sapeva scrivere, non sapeva leggere, e i conti se li faceva lentamente con le dita. Lo dettò al fornaio, che sapeva scrivere. In realtà neanche il fornaio sapeva scrivere, però aveva fatto la seconda elementare e ricordava che nel dettato più o meno se la cavava, fatta eccezione per le doppie che non sempre gli venivano proprio nel modo in cui dovevano venire.
Scrivevano la sera, dopo aver chiuso il forno e la bottega. Scrissero per mesi: uno dettava e l’altro scriveva.
Cominciarono che novembre era sul finire. Finirono che già si faceva primavera.
Poi chiamarono il maestro della scuola perché leggesse il manoscritto a tutti quanti, e una sera della metà di aprile nel giardino dietro la bottega con le pareti affumicate, tutto il paese si radunò per ascoltare.
A metà della narrazione, fabbro e fornaio vennero alle mani. Uno diceva che non era quello il racconto che lui aveva fatto. L’altro diceva che aveva scritto esatto esatto tutte le cose raccontate dal fabbro.
Aveva ragione il fabbro e aveva ragione il fornaio. La differenza, lo scarto, stavano nella voce. La mancanza della voce aveva cambiato il racconto, lo aveva stravolto, snaturato. Aveva perso il timbro, il ritmo, il tono, le curvature, le inclinazioni, le pause, le ondulazioni. Il racconto aveva perso il respiro. Aveva perso il sentimento, la commozione. Mentre raccontava, il fabbro ferraio ogni tanto rideva. Il racconto aveva perso quel ridere del fabbro. Mentre raccontava, nell’intreccio delle storie intrometteva una sua esperienza vera mascherata con la formula “ho sentito dire”. Il racconto aveva perso quell’esperienza mascherata.
Quella sera della metà d’aprile, nel giardino d’aranci dietro la bottega, anche nel piccolo paese del fabbro e del fornaio, del prete con le scarpe sporche e un dente verde, che viveva con la nipote, come i preti di Vittorio Bodini, del maestro di scuola, dei contadini, delle donne dai capelli infiniti, eternamente vestite di nero, eternamente bisbiglianti, si registrò la fine irrimediabile della narrazione orale.
Accadde quello che Walter Benjamin avrebbe detto in quel saggio magistrale sul narratore che sta in “Angelus novus”.
Avrebbe detto che l’arte del narrare si avvia al tramonto. “Capita sempre più di rado d’incontrare persone che sappiano raccontare qualcosa come si deve: e l’imbarazzo si diffonde sempre più spesso quando, in una compagnia, c’è chi esprime il desiderio di sentir raccontare una storia”.
Ma ormai si è andati molto oltre quella condizione. Non c’è più desiderio di sentire una voce che racconta, né di raccontare con la voce. Però non è vero che la narrazione orale sia scomparsa dagli scenari culturali e dalle esistenze quotidiane. È vero, invece, che la scomparsa del desiderio di sentir raccontare e di raccontare ne ha determinato una contrazione. La narrazione si è irrigidita. Si è raggrinzita. Le abbiamo sottratto tutte le energie che provenivano dalla descrizione o dalla digressione, dalla sovrapposizione di verosimile e vero, di realtà e di finzione. A colui che racconta ed a colui che ascolta interessa soltanto il fatto, nei suoi elementi basilari, essenziali.
Ogni tempo ha le sue forme di racconto. Anzi, le forme di racconto molto spesso rappresentano quelle del tempo, ne sintetizzano i significati fondanti. La contemporaneità si rappresenta con racconti brevi, ristretti, anche sfilacciati, disarticolati, che esprimono quasi un’ansia di concludersi rapidamente. Perché il modo in cui viviamo il nostro tempo è esattamente così: tramato dalla fretta, molto spesso senza coesione, molto spesso senza coerenza; è un modo che non contempla, non sopporta, non accetta le grandi narrazioni: si rifugia nei minimalismi, nelle microstorie, in segmenti narrativi che a volte aboliscono i raccordi, le strutture ordinate, le sequenze logiche. Ecco: forse si potrebbe dire che si tratta di un tempo destrutturato che di conseguenza si esprime attraverso una narrazione destrutturata che non porta e non riceve esperienze. Forse nonostante la gigantesca valanga di informazione e di comunicazione, questo è un tempo in cui le relazioni rifiutano la sistematicità, la significatività, la reciprocità delle esperienze.
Probabilmente, con la riduzione degli spazi e dei tempi della narrazione orale, abbiamo sostanzialmente perduto la possibilità dell’incontro tra le esperienze e quindi tra le esistenze.
Tutto ha principio, sviluppo e conclusione in un rapporto con noi stessi. Non sentiamo il bisogno o il desiderio di narrare l’esperienza, anche perché, probabilmente, abbiamo consapevolezza del fatto che l’altro non abbia bisogno o desiderio di ascoltarla.
Ma Benjamin aveva intuito anche il senso profondo di questo fenomeno, che certo non può essere definito né moderno né di decadenza, in quanto si tratta soltanto di “un accompagnamento di forze produttive storiche, secolari, che ha espulso a poco a poco la narrazione dall’ambito del parlare vivo”.
Tra i tanti motivi che hanno determinato la progressiva separazione dalla narrazione orale, ci può essere anche una presuntuosa, forse anche inconscia, urgenza di ampliare la platea dei destinatari e, soprattutto, la pretesa di far durare il proprio racconto oltre la propria esistenza.
Forse accadde proprio questo al fabbro ferraio. Accadde che ad un certo punto non gli bastò più narrare le sue storie soltanto al fornaio. Voleva, senza neppure saperlo, che i suoi racconti arrivassero a tutto il paese, che continuassero ad esistere anche quando avesse chiuso la bottega, quando avesse chiuso anche con la vita, e che i figli dei figli potessero dire “questi sono i racconti del fabbro ferraio”.
Così affidò i suoi racconti alla scrittura. Ma i racconti si vendicarono non facendosi riconoscere, non assorbendo l’ emozione della sua voce, non traducendo il suo respiro.
Si paga un prezzo per tutto. La bellezza della scrittura, la sua profondità, la possibilità che ha di restare al di là del suo autore, si pagano con la rinuncia all’autenticità e alla inimitabilità della voce.
Dopo quella sera, il fabbro ferraio non raccontò più niente a nessuno. Raccontava soltanto a se stesso, mentre lavorava, in modo che la sua voce si disperdesse tra il crepitio delle fiamme, nei rumori sordi del ferro battuto.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, domenica 8 aprile 2018]