di Augusto Benemeglio
Max Hmlet Sauvage mi continua a chiamare, a distanza di quindici anni, per la sua arte, che non considera inferiore neppure a Ernst. E continua a fare mostre dappertutto, questo salentino vicino ormai ai settant’anni! Hamlet è un condor che vigila sugli orologi molli di Dalì con una fede che supera il tempo; è un ragno che tesse tele preziose e geometrie di sogni; un gufo dalla coda di rondine che guarda le sue rovine; un felino in agguato nei cieli grigi del “Whaam” di Roy Lichtenstein. Hamlet si guarda allo specchio e si ammira con la grazia rifratta di un bicchiere di cristallo e l’odore buono di un limone sbucciato; è un istrione scabroso che va a zonzo per il corso Roma con un camioncino biancolatte pieno di cianfrusaglie, che gira da un ufficio all’altro del Comune e vorrebbe impiccare sindaco e gli assessori con una corda d’aria; va da un bar all’altro come un cospiratore del Nulla e della solitudine a farsi aperitivi gin tonic e cafè; sempre con quella sua maschera magnogreca da vecchio guerriero stanco, un Odisseo già tramontato che torna a Itaca-Gallipoli e non trova Penelope, ma solo Proci. E vetri infranti. Deambula con quell’ingenuità da bambino curioso e avido di tutto, della terra d’ombra e dell’aquilone, del teatrino e del concetto spaziale, con il fascino che gli si legge nella disperazione dei vuoti giorni, la trascuratezza narcisa, la perfetta diversità da tutti gli altri, inseguendo ancora desideri impossibili. È un’ombra. Inafferrabile. Voyeristica, un po’ demodé. Ha l’ambigua pupilla mefistofelica e parole che sono colori profondi e frustate, o strisciate di serpi, o che bollono come un crogiolo. È un dinosauro, un rettile preistorico ,un vecchio coccodrillo costretto a navigare in una pozzanghera; un cercatore di pietre filosofali che spietra dossi con le braccia ancora forti, il busto eretto da maniscalco messapico , gli occhi saraceni, le labbra carnose, i capelli ricci e bianchi ,metallici, argentati, ancora lunghi e raccolti nella coda da cavallo come una cindy sherman dei ritratti storici; è un pittore surreale, che vede tutti gli uomini con teste d’uccello, “un essere sul quale non bisogna troppo discutere perché – dice lui – a ogni quadro perde la vita in onor nostro e per l’elevazione del nostro spirito”. È pieno dei mattini e dei tramonti salentini (ora vive a Tuglie in una specie di garage). È pieno di quelle fiamme e di quelle trombe, che si fanno orchestra con i cembali di marzo; sta di fronte a me con la sua ingenuità e il suo cinismo; la sua stella di ferro e rame e il cerchio sudamericano; vive sospeso tra i suoi momenti da number one e la nona ora, la sua timidezza diventa freddezza, la sua vanità e l’autoironia qualcosa di grottesco… E poi c’è la sua maschera di cera, anzi le sue maschere di ferro gesso e creta. Ogni volta che lo incontriamo, Max Hamlet Sauvage ci sconcerta, ci sbalestra, ci manda fuori asse, fuori dalla storia e dalla critica d’arte, ma il suo impatto sulle nostre esistenze, volenti o nolenti, è grande, è esplosivo. È tornato (è stato costretto a tornare) da noi dopo quarant’anni di esilii in Francia Belgio Olanda e Germania, e ora ritrova una terra ferita, fatta di grandi contrasti e sconquassi, con una spruzzata di kitsch, surreale, come i suoi quadri, appunto.