di Rosario Coluccia
Nella lunghissima storia dell’evoluzione, l’uomo ha imparato a parlare forse da 150 – 180 mila anni: da allora lingue diverse si sono diramate in tutte le aree del nostro pianeta. Un progetto del «Summer Institute of Linguistic» (SIL) di Dallas in Texas (www.ethnologue.com) punta a censire le lingue esistenti nel mondo, una sorta di statistica delle lingue viventi usate come lingua primaria nelle diverse nazioni, dall’Afghanistan allo Zimbabwe. Nell’ultima versione (la XXI) il censimento individua 7.099 lingue diverse. I criteri con cui il calcolo preciso è stato fatto sono discutibili, ma non è questo il punto: sicuramente le lingue viventi sono migliaia. Alcune hanno diffusione quasi planetaria e sono parlate da centinaia di milioni di esseri umani, altre appaiono sull’orlo dell’estinzione, ridotte a mezzo di comunicazione di gruppi ristrettissimi. A dispetto della differente distribuzione numerica, tutte sono culturalmente importanti e segnano i valori identitari delle persone che le parlano. Perciò è importante difendere la varietà delle lingue e preservarne l’esistenza, come è importante salvare la biodiversità delle specie animali e vegetali. La torre di Babele non è una disgrazia, è una fortuna. Plurilinguismo vuol dire ricchezza.
Da un periodo molto più ristretto, quasi un soffio paragonato ai tempi lunghi dell’evoluzione, l’uomo ha inventato la scrittura, la capacità di tracciare su una superficie (papiro, pietra, carta, pergamena, schermo di un computer, ecc.) segni convenzionali che poi si possono leggere. Così l’uomo si è accostato un po’ al divino, rivelandosi capace di superare i limiti di tempo e di spazio connaturati all’oralità. Con la scrittura l’uomo aspira all’eternità, finché dura il mondo. Le più antiche testimonianze di sistemi organici di scrittura, risalenti a più di 5.000 anni fa, provengono da due regioni che videro l’origine della civiltà che consideriamo a noi affine: l’Egitto e la Mesopotamia. In Egitto, verso la fine del IV millennio avanti Cristo, venne elaborato il complesso sistema ideografico dei geroglifici, con cui si tendeva a rappresentare visivamente le cose e i concetti con disegni (a cui venivano aggiunti segni complementari con valori fonetici), non a rappresentare con segni i suoni e cioè le parole (come facciamo con il nostro sistema alfabetico di scrittura, di cui tra un momento vedremo la nascita). In Mesopotamia, intorno al 3.500 a. C., venne creato un sistema grafico cuneiforme, anch’esso basato su una complicata corrispondenza ideografica tra disegno e cosa o concetto (con un certo grado di corrispondenza fonetica).
Erano sistemi difficoltosi e poco funzionali, che richiedevano di mandare a memoria centinaia di segni (diverso, e ancora più complesso, il sistema di scrittura cinese, che nella sua espansione massima arriva a contare 30.000 segni). Fu decisiva l’evoluzione rappresentata dall’alfabeto fenicio, nato forse intorno al XIII secolo a. C., a Biblos: solo 22 segni che corrispondevano ad altrettanti suoni. Era un sistema semplice e razionale, facile da apprendere e pratico da usare. Dall’alfabeto fenicio derivò nell’VIII sec. quello greco, da cui a loro volta discesero quello etrusco nel VII secolo e quello latino nel VII-VI secolo. In alfabeto latino vengono messe per iscritto le lingue dell’Occidente europeo (compreso l’italiano) e americano: è un modello in espansione, anche nei paesi che usano altri sistemi di rappresentazione grafica (Russia, paesi arabi, Cina, Israele, Grecia) negli avvisi di aeroporti e stazioni, nei manifesti, ecc. spesso coesistono due diverse modalità di rappresentazione grafica, quella nell’alfabeto locale e quella nell’alfabeto latino. Uno dei tanti doni che la cultura classica romana ha regalato al mondo.
Le più antiche manifestazioni scritte della nostra lingua risalgono al IX-X secolo: graffiti, iscrizioni, testi giuridici e religiosi, atti notarili. Poi, poco alla volta, si mettono per iscritto altre tipologie di testi (compresa la letteratura), nate per soddisfare le varie esigenze del vivere associato, assolvere a funzioni differenziate e rispondere a impulsi differenti. Tuttavia, per secoli, solo pochi erano in grado di scrivere, la scrittura era appannaggio di cerchie ristrette, poche categorie avevano accesso all’alfabetizzazione (ecclesiastici, notai, cancellieri, mercanti, ecc.). Ancora al momento dell’Unità politica, nel 1861, l’Italia aveva una percentuale complessiva di analfabetismo del 75% e una generale condizione di arretratezza culturale. Vi erano fortissime differenze territoriali, fra aree ed aree del paese: la percentuale di popolazione analfabeta, critica nelle regioni del Nord, aumentava nel centro dell’Italia, crescendo ulteriormente e arrivando a sfiorare il 90% nel Mezzogiorno continentale e nelle isole. Analfabetismo (inaccettabile) e, di conseguenza, condizioni economiche miserrime per popolazioni in larghissima maggioranza contadine, veri servi della gleba nell’Italia unita. Quei nostri progenitori di un secolo e mezzo fa non sapevano scrivere, non sapevano parlare l’italiano e, per le necessità di una vita chiusa tutta in ambiti ristrettissimi, si esprimevano quasi esclusivamente in dialetto, in uno dei tanti dialetti della penisola, dal Piemonte alla Sicilia. Poi, a piccoli passi, abbiamo accresciuto la nostra padronanza linguistica, grazie a molteplici fattori extralinguistici di miglioramento economico e sociale e ad avvedute iniziative dello stato unitario, a partire dalla legge Coppino del 1877, che per la prima volta garantiva agli italiani l’istruzione pubblica e obbligatoria. Le ripetute iniziative statali nel campo dell’istruzione andrebbero ricordate a chi ancor oggi, ogni tanto, si lascia andare a nostalgie neoborboniche e anti unitarie. Dimenticando che il problema è altrove, risiede nell’insufficienza storica delle classi dirigenti meridionali, chiuse nel particolarismo e nel trasformismo, incapaci di esprimere una visione strategica.
Comunque sia, tra incertezze e contraddizioni, nuove situazioni collettive sollecitano il ricorso alla scrittura. Le grandi migrazioni di massa, interne ed esterne, e le due guerre mondiali provocano collateralmente il bisogno di scrivere per necessità. Emigranti, soldati e prigionieri trovano nella scrittura un rifugio contro l’esilio, uno spazio in cui combattere la solitudine e, in definitiva, una strategia di sopravvivenza. Molti uomini e donne, anche senza esserne pienamente capaci, presero la penna e, coscientemente o no, forzarono una barriera. Si assicurarono così il diritto di esistere in una società in cui scrivere era un privilegio. Scrivere per non morire, come dichiara il titolo di una raccolta di lettere scritte da un soldato bresciano della Grande Guerra pubblicata qualche anno fa. Con lo scorrere dei decenni, il rapporto degli italiani con carta e penna diveniva progressivamente meno ostico ma scrivere restava attività non facile né consueta. Molti ricorderanno un film del 1956, «Totò, Peppino e la Malafemmina». In un episodio famoso, Peppino teso e sudato, la penna che funziona male, la lingua fra i denti, con enorme fatica scrive una lettera che Totò gli detta; e alla fine, davvero esausto, si deterge il sudore provocatogli dall’impegno inconsueto.
Più o meno nell’ultimo venticinquennio la svolta. Nella nostra lingua si è verificato un fenomeno nuovo, mai capitato prima: una parte rilevante della popolazione italiana scrive. Siamo entrati in una diversa e inedita fase, caratterizzata dal dominio del digitale e della rete. Il fenomeno è sotto gli occhi di tutti: le varie forme di comunicazione tecnologica (posta elettronica, SMS, social, chat line, ecc.) provocano un clamoroso aumento della comunicazione scritta. Per decenni la “comune” popolazione adulta alfabetizzata, quella che non scriveva per motivi professionali (professori, avvocati, notai, giornalisti), ricorreva alla scrittura solo per prendere appunti occasionali (fissare un appuntamento, redigere un promemoria effimero), per compilare la lista della spesa, e poco altro; in forma saltuaria, si scrivevano lettere a parenti o conoscenti lontani e si mandavano biglietti d’amore. Oggi invece tanti scrivono, in qualsiasi occasione e più volte al giorno, al computer o preferibilmente al telefonino, portato con sé ovunque e usato anche camminando o magari guidando l’auto (pratica vietatissima!). Persone che fino a poco tempo fa non scrivevano un rigo, oggi producono una mole impressionante di testi digitati.
Siamo diventati un paese di scrittori? No, non è tutto oro quel che luccica. Lo scrivere digitale di massa comporta problemi nuovi non di poco conto, nella società e nella scuola. Ne riparleremo la prossima settimana.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, domenica 8 aprile 2018]