Zibaldone galatinese (Pensieri all’alba) III

di Gianluca Virgilio

Joseph Conrad, in un saggio del 1905 intitolato Autocrazia e guerra, in Appunti di vita e di letteratura, Bompiani, Milano 1950, pp. 163-164, scrive: “La guerra è tra noi, ora; e, che quella attuale finisca presto o tardi, la guerra sarà tra noi ancora”. Non si potrebbe dire la stessa cosa anche dei nostri giorni? Noi siamo in uno stato di guerra permanente, ma nessuno sembra accorgersene; e lo saremo anche in futuro. Ed è proprio questa la specificità delle guerre combattute dai Paesi del Primo Mondo – quello sviluppato -, di fare la guerra come se si fosse in tempo di pace, senza scomporsi più di tanto, senza angustiare le coscienze, senza turbare la cosiddetta opinione pubblica. Pertanto la nostra ignoranza di uomini che vivono nel Primo Mondo si spinge fino al punto che noi non sappiamo di essere in guerra; pensiamo di vivere, al contrario, in tempo di pace.

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In www.worldometers.info si può conoscere in tempo reale quanti sono i vivi e i morti sulla faccia della Terra, quanti muoiono ogni giorno e quanti nascono. Nascono sempre più persone di quante muoiono e la cifra complessiva dei viventi ha superato la soglia dei sette miliardi e mezzo.

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Per chi ha l’abitudine di tenere un diario o di descrivere la propria vita, valgano le parole di Tristram Shandy (in Laurence Sterne, La vita e le opinioni di Tristram Shandy, gentiluomo, Mondadori, Milano 1992, p. 280), dove si apprende che la scrittura diaristica insegue la vita senza mai raggiungerla, sebbene chi scriva la propria vita abbia il vantaggio (?) di vivere due volte: “Ne segue, se piace alle vostre signorie, che più scrivo, più mi resta da scrivere – e in conseguenza, più le vostre signorie leggono, più avranno da leggere.

Ma farà bene agli occhi delle vostre signorie.

Farà bene ai miei; e se non fosse che le mie OPINIONI saranno la mia rovina, mi avvedo che vivrò una bella vita accanto a questa mia vita stessa; o, in altre parole, che vivrò un paio di belle vite intere. (…).

… non mi raggiungerò mai – frustato e spronato fino allo stremo delle forze, alla peggio avrò un giorno di vantaggio sulla mia penna…”.

Chi scriva un diario o parli di sé nella sua opera non cerca forse di raggiungere la propria vita con la scrittura? Ma la scrittura autobiografica è sempre un passo indietro rispetto alla vita. Se mai la raggiungesse, le si sostituirebbe e allora lo scrittore non vivrebbe più, il che non può essere. Dunque, la scrittura è destinata a  vincere la sua corsa con la vita solo dopo la morte dello scrittore, sostituendosi alla vita e continuando a vivere in quanto scrittura. Sempre che qualcuno sia disposto a leggerla. E siccome questo è dubbio e sperarvi è poco saggio, lo scrittore autobiografico deve accontentarsi di vivere due volte, una volta nel tempo della vita e un’altra volta nel tempo della scrittura, qui ed ora, per sé, non per gli altri. Potrebbe apparire un privilegio, invece è una condanna, perché questa seconda vita che incalza in definitiva gli impedisce di vivere appieno la sua prima vita.

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A un certo punto della vita bisogna staccarsi da tutto e da tutti e dire a se stessi e agli altri: “Quel che s’è fatto, s’è fatto, e chi s’è visto s’è visto”, e nulla più. Pertanto, per essere preparati a questo momento, bisogna che l’attaccamento alla vita non ci impedisca di sviluppare dentro di noi – man mano che si va avanti negli anni – il convincimento che non si debba negare la vita, ma trattarla con sufficienza, con ironia, con distacco, con leggerezza, come dicendo a noi stessi: “Guarda che non può durare!”.

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Non dubito che a Oxford si concentri una buona fetta della sapienza inglese; ma per me visitare Oxford è equivalso a fare una passeggiata in una Disneyland intellettuale, nella quale non potevano mancare i fans di Harry Potter! Quando poi mi è capitato di dare un’occhiata ad una cerimonia di laurea, non ho potuto fare a meno di pensare: “Dio, dio, lo snobismo degli inglesi! Pensò Peter Walsh in piedi nel suo angolo.” (con Virginia Woolf, La signora Dalloway, Corriere della Sera, Milano 2013, p. 210).

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Citazione. “Il primo che, avendo cinto un terreno, pensò di affermare: questo è mio, e trovò persone abbastanza semplici per crederlo, fu il vero fondatore della società civile. Quanti delitti, guerre, omicidio, quante miserie ed orrori non avrebbe risparmiato al genere umano colui che, strappando i piuoli e colmando il fossato, avesse gridato ai suoi simili: <<Guardatevi dall’ascoltare questo impostore; siete perduti se dimenticate che i frutti sono di tutti, e che la terra non è di nessuno>>.” (J. J. Rousseau, Discorso sull’origine della disuguaglianza, II, in Opere, Sansoni, Firenze 1972, p. 60).

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Percorrendo la SS 275 per Leuca, tra Nociglia e Montesano, è possibile vedere una fabbrica molto particolare, una fabbrica di menhir. Ve ne sono a decine, alti circa tre metri, addossati ai muri della fabbrica ed esposti alle intemperie che li anneriscono con muschi e funghi, favorendo col tempo il formarsi della patina d’antico che deve contraddistinguere un menhir.  Ho pensato al libro di poesia di Antonio Prete intitolato Menhir e alla distanza che separa un mondo da un altro. Prete vede il menhir come l’oggetto misterioso che sembra conservare il ricordo di lontananze del passato e ci racconta dell’antica aspirazione dell’uomo ad attingere l’infinito degli spazi siderali; la fabbrica di menhir soddisfa la richiesta di qualche ricco che vuol nobilitare la sua vita e la sua stirpe ponendo nel parco della lussuosa villa un menhir in tutto simile a quelli presenti nelle campagne del Basso Salento, che negli ultimi tempi gli assessori alla cultura cercano di valorizzare ad uso dei turisti stranieri. Non finirò mai di stupirmi di come uno stesso oggetto possa dar luogo a sentimenti ed usi diversi nel genere umano.

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“Ho l’impressione che quello che un uomo considera già oppure ancora <<vero>> dipenda più che altro dal coraggio, dal grado di forza del suo coraggio…* (Io ho di rado il coraggio di affrontare quello che effettivamente so).” (F. Nietzsche, Epistolario 1885-1889, V, Adelphi, Milano 2011, p. 512, lettera n. 960 a Georg Brandes da Nizza 2 dicembre 1887).

Avere il coraggio di riconoscere la verità delle cose, questo è il problema; ovvero, vincere la propria viltà che ci tiene al riparo dai pericoli del sapere e ci fa vivere nell’ignoranza e nella sicurezza della nostra incolumità intellettuale e fisica. I più non vogliono più sapere, non hanno il coraggio di sapere, e questo costituisce la loro autodifesa personale. Sapere può minare la salute, può uccidere. Non parlo del sapere tecnico che ha l’apparenza ingannevole della salvezza, ma di un sapere più profondo, che coinvolge/sconvolge l’intero nostro essere, quello che richiede coraggio. Questa è la malattia vera di Leopardi, questa quella di Nietzsche.

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Quando i miei studenti si mettono a scrivere, improvvisamente acquistano le sembianze di animali pensanti e contemplativi. A volte sollevano lo sguardo dal foglio e guardano nel vuoto, in realtà stanno inseguendo un pensiero, una parola, un’idea. Il loro volto è trasfigurato! Certo, può accadere che qualcuno insegua il nulla, ma io sono convinto che anche questo giovi, perché è dal nulla che all’improvviso, quando uno meno se lo aspetta, si concretizza un’immagine, una figura, un pensiero. Il silenzio dell’aula dove trenta studenti sono così concentrati è il suono che accompagna la loro contemplazione. E talvolta si vede qualcuno che, dopo aver vagato con gli occhi per le vastità del soffitto, all’improvviso li riconduce sul foglio bianco e pare contento di sé. Egli si mette a scrivere: dal silenzio e dal nulla è venuta fuori una parola, più parole risolutive, e il compito d’italiano ha preso un felice avvio.

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“… hai un seno da sultana”, dice il conte Enrico Alidosi ad Ida (Alfredo Oriani, No, Licinio Cappelli Editore, Bologna 1935, p. 356), e noi sappiamo che lo scrittore non avrebbe saputo immaginare la sua Ida che con un grande seno. Uno spoglio attento del romanzo, infatti proverebbe la presenza in Oriani di una vera e propria ossessione, quella del seno. Dice Ida in risposta al conte, nella pagina citata: “Lo sai perché i seni vi piacciono tanto? Perché promettono molto latte al bambino, che nascerà. Tu non ci pensavi.”

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Sottrarsi alla logica violenta che domina le azioni degli uomini non è cosa facile. Il nostro standard di vita è fondato sulla violenza. Se noi non fossimo protetti da un sistema di difesa costosissimo (aerei, missili, navi, armi d’ogni tipo fino alla bomba atomica) non potremmo condurre la vita pacifica che c’illudiamo di condurre ogni giorno, il nostro benessere sarebbe messo in crisi. A tutto questo c’è chi non pensa affatto; c’è chi invece vive questa situazione con lo stato d’animo di chi s’approfitta delle circostanze, che pure disapprova, ma da cui non può prendere le distanze perché di fatto ne trae vantaggio. Noi viviamo come i tedeschi del tempo della guerra che vivevano sereni la loro vita quotidiana intorno ai campi di concentramento, molti vi prestavano l’opera e vi ricavavano un guadagno, vivendo dell’indotto; i quali non avevano ucciso nessuno e forse neanche sapevano esattamente quel che stava succedendo nei “campi di lavoro”; tenevano gli occhi semichiusi e così pure la coscienza. Erano ignavi, ma non per questo meno complici di chi li governava e che essi stessi avevano eletto a governare.

In realtà, tutto quello che ci è concesso è di scrivere queste cose, cioè far valere almeno nello spazio della scrittura un punto di vista estraneo alle logiche del potere che oggi sono in campo. Nessuno ci fucilerà, tutt’al più non saremo presi in considerazione, perché un punto di vista è solo un’idea, e un’idea, soprattutto di questi tempi, vale meno che niente.

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