L’Università al bivio: locale o globale?

di Ferdinando Boero

Quale è il ruolo di un’Università nell’ambito del territorio in cui opera? Deve essere un volano per lo sviluppo locale o deve diventare un attrattore per vasti territori, aspirando all’eccellenza internazionale? Ovviamente l’Università di Lecce (oggi del Salento) iniziò ad operare come “ascensore sociale” per le porzioni più povere del Salento.  I figli e le figlie dei ricchi andavano a studiare nelle università “storiche” del nord, mentre i figli e le figlie dei contadini restavano indietro. I contadini si tassarono e istituirono il primo nucleo dell’Università. Col senno di poi avrebbero dovuto fare Agraria, e investire sulla modernizzazione qualitativa dei sistemi produttivi. Invece scelsero altre strade per i loro figli, principalmente l’insegnamento. Magistero permise alle figlie dei contadini di diventare maestre, e poi, con Lettere e Filosofia, con Fisica e Matematica, si passò all’insegnamento superiore. L’Università diventò una fabbrica di insegnanti.

Il Salento ha grandi aspirazioni giuridiche ed ecco quindi Giurisprudenza. E poi grande era l’aspirazione a “entrare in banca” e quindi Scienze Bancarie, poi trasformata in Economia. E via così, fino alla recente istituzione di Viticoltura ed Enologia, del DAMS e di Economia del Turismo. Tutto è incentrato sul territorio.

Gli industriali si lamentano perché l’Università non produce le competenze utili al sistema produttivo. Sarà. Però bisognerebbe chiedersi: ma è giusto correre dietro alle esigenze del momento ed affannarsi a istituire nuovi corsi di laurea? Si riesce a offrire un “prodotto” valido perseguendo questa strategia? Costa di più, al sistema paese, istituire nuovi corsi di laurea (che richiedono enormi investimenti in capitale umano) per rincorrere le esigenze (sempre temporanee) del territorio, oppure sarebbe più conveniente mandare nelle migliori università un numero adeguato di studenti pugliesi che poi tornino a casa e operino avendo conseguito la migliore preparazione? Se si mette in piedi una “fabbrica di laureati” di livello locale, che “venderà” quella fabbrica una volta saturato il mercato locale? 
Lo so che sto parlando di Università come se fosse un’azienda, ma alla fine è così. L’Università produce capitale umano, un prodotto che poi si “vende” nel momento in cui trova occupazione. Quanto migliore è il “prodotto” tanto più facile è “venderlo”. Se ci si laurea in certe Università si trova lavoro più facilmente.
Le Università sono ad un bivio. Devono capire se vogliono soddisfare le esigenze del territorio, continuamente rincorrendole, o se, invece, vogliono “vendere” la loro formazione a un mercato più vasto, che vada dal locale al nazionale, e persino all’internazionale.

Siamo in un mondo globale. L’autarchia ristretta al proprio territorio è perdente. Le sfide si vincono con l’altissima qualità. Ognuno importerà quel che non sa fare, ma che gli serve, ed esporterà quel che sa fare benissimo, e che gli altri non sanno fare altrettanto bene.

La definizione dei dipartimenti di eccellenza va in questa direzione. Ci saranno porzioni di università dedicate al soddisfacimento delle esigenze locali, e altre che avranno valenza molto più ampia. Avere centri di eccellenza attira studenti da tutta Italia e anche dall’estero. Gli studenti salentini vanno a Milano a studiare discipline che a Lecce non sono eccellenti? Bene. Ma gli studenti milanesi devono venire a Lecce se vogliono imparare altre cose. Perché a Lecce si fanno meglio che a Milano. Dico Milano per dire tutte le altre città italiane, e non solo.

La nostra Università ha l’Istituto Superiore Universitario di Formazione Interdisciplinare, l’ISUFI, che serve proprio a questo scopo: attirare qui i migliori studenti, offrendo servizi di prima classe e formazione di prima classe. E l’ISUFI si deve raccordare con le forze eccellenti che attualmente operano nell’Università. É la valutazione del sistema della ricerca a dire quali siano. Ci sono personalità di valore internazionale nella nostra Università. Su quelle si dovrebbe puntare e da quelle si dovrebbe partire per allargare l’eccellenza (non autoreferenziale) quanto più possibile.

A questo punto, se qualche rotella del sistema produttivo locale lamentasse che la nostra Università non “produce” quel che le serve non sarebbe un gran male. I sistemi produttivi nazionali e internazionali, comunque, manderebbero qui gli elementi da formare per soddisfare altre esigenze. Perché per quei campi la nostra Università è il meglio.

Il mondo della formazione è cambiato. Gli studenti vogliono andare dove la formazione è di alto livello, perché chi li assume chiede che abbiano ricevuto una formazione di alto livello.

Oggi ogni Università deve chiedersi cosa abbia di meglio da offrire e su quello deve puntare, per offrire prodotti (cioè lauree) di alta qualità. La risposta alla domanda è già presente nella designazione dei dipartimenti di eccellenza, ma non solo. Ci sono molte eccellenze anche nei dipartimenti non eccellenti. Si tratta di riorganizzare quanto possibile l’offerta didattica in modo da offrire “prodotti” di alta qualità, valorizzando l’eccellenza già presente. Costruire una realtà competitiva a livello internazionale richiede decenni di lavoro, non si improvvisa.

Il bivio, per le Università, si apre proprio ora. Ci sono Università che stanno facendo “campagna acquisti” cercando di attirare elementi funzionali alle loro strategie di sviluppo, e li prendono alle Università che perseguono strategie miopi, focalizzate sul locale. Rincorrendo le “richieste del territorio” senza avere la forza di soddisfarle meglio di altre Università che sanno quello che vogliono e che non agiscono come banderuole in balia del vento del momento.

Le scelte di oggi determineranno il futuro dell’Università e devono essere frutto di attenta meditazione. Le università “locali” saranno di serie B e, alla fine, torneremo, con opportune correzioni, alla situazione di prima: i figli dei ricchi andranno a studiare nelle Università di serie A, quelli dei meno ricchi resteranno nell’Università locale, di serie B. Che, però, costerà di più al territorio di quanto costerebbe mandare i “capaci e meritevoli”, compresi quelli che non se lo potrebbero permettere, nelle Università di serie A. Riducendo la complessità della questione, tutto si riduce a: vogliamo che l’Università del Salento sia di serie A o di serie B? Vogliamo che sia un’Università “locale” o possiamo aspirare a valenze territoriali molto più ampie?

[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, lunedì 26 marzo 2018]

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