di Antonio Errico
Nella prima delle sette brevi lezioni di fisica, Carlo Rovelli racconta che da ragazzo Albert Einstein trascorse un anno a bighellonare oziosamente. Dopo aver abbandonato il liceo in Germania, aveva raggiunto la famiglia a Pavia. Leggeva Kant e seguiva le lezioni all’università, senza essere iscritto e senza fare esami: per divertimento. È così che si diventa scienziati sul serio, dice Rovelli. Se non si perde tempo, non si arriva da nessuna parte.
Certo, in epoca di pragmatismo senza mediazioni, di lucida praticità, di funzionalità implacabile, di utilità ad ogni costo, efficienza ostentata, efficacia assunta a fondamento di qualsiasi pensiero e qualsiasi condotta, di beneficio indiscutibile, di massimo profitto, una considerazione sull’importanza che ha il perdere tempo può sembrare un astruso anacronismo. Bisogna avere obiettivi precisi, chiarezza degli scopi. Bisogna leggere quello che è utile agli studi, al lavoro. Non farsi distrarre. Non divagare. Bisogna fare quello che serve, in un tempo esatto, con un esatto impiego di energie, di mezzi, di strumenti. Bisogna essere rapidi, lineari, concisi, programmati, organizzati. È fatto divieto di ogni dispersione, ogni digressione, qualsiasi parentesi di riflessione. Negotium sempre, otium mai. Però può anche venire il sospetto che, in questo modo, si possa diventare manager rampanti, di quelli che durano fin quando servono a qualcosa, a qualcuno, e poi spariscono nel nulla da cui sono venuti. Ma non si diventa scienziati e comunque neanche poeti, neanche filosofi, e neanche fisici e neanche matematici, di quelli che servono per sempre.
Perdere tempo, indugiare, sostare, guardare fuori dalla finestra mentre si sta studiando, rallentare l’auto per guardare il mare mentre si sta correndo da qualche parte, non imprecare se le sbarre del passaggio a livello non si alzano immediatamente, probabilmente è anche un modo per comprendere meglio, per approfondire le cose che si osservano, quelle che si fanno, quelle che si pensano.
Spesso, mentre si perde tempo, si scopre quello che un processo o un percorso accuratamente programmato non consente di scoprire.
Un viaggio. Una città. Si segue la guida. Si sa già dove si deve andare, che cosa si vedrà, si hanno sommarie informazioni su quello che si vedrà.
Poi, ad un certo punto, per la distrazione di un momento, di un momento soltanto, per un caso, per un altro, uno perde la comitiva, non vede più la bandierina che distingue il gruppo, imbocca una strada laterale, una parallela, un vicolo. Non voleva. Ma si ritrova da solo, vorrebbe tornare indietro e invece lo richiama un campanile non previsto nell’itinerario, poi il rosone sulla facciata di una chiesa, oppure una bottega d’artigiano – uno che ripara biciclette, un intarsiatore, un sarto – oppure un bugigattolo d’antiquariato. Ha scoperto un altrove. Qualcosa che non rientrava nell’itinerario. Non lo avrebbe scoperto se non si fosse distratto. Entra nella bottega dell’antiquario e lì comincia a perdere tempo, dimentica il gruppo, gli orari, il nome dell’albergo, e in quel tempo che perde gli si rivela un universo sconosciuto, e in quel tempo che perde incontra volumi e dipinti di cui non immaginava l’esistenza.
Perdere tempo è un metodo di apprendimento, una condizione di conoscenza, che in molti casi si costituisce come un sapere personalissimo, unico, che non si può paragonare a quello di nessun altro. E’ un sapere che avviene per caso, inaspettatamente, che di conseguenza provoca uno stupore che a sua volta rende quel sapere incancellabile, profondo.
Una ricerca, uno studio. Si sa da quali conoscenze si parte, si stabilisce a quale punto si deve arrivare, si definiscono i materiali di cui servirsi, i metodi da applicare con rigore, i testi da consultare, da schedare. Ma poi può accadere che nel corso della ricerca si perda tempo per una distrazione, si tradisca il metodo, si trasgredisca in qualche modo, non si rispettino i canoni, si segua una deviazione provocata da una nota marginale di un testo, dall’effetto imprevisto di un esperimento. Si sa che si dovrebbe tornare indietro, ricominciare dal punto in cui sono state violate le procedure. Dovrebbe essere così, perché si è perso tempo per incoerenza nel processo di ricerca. Invece si va avanti: con noncuranza, con incoscienza. Si va avanti e si arriva oltre il punto in cui si doveva arrivare, a qualcosa che nemmeno l’immaginazione era riuscita ad elaborare.
Probabilmente ha ragione Rovelli: è così che si diventa scienziati veramente.
Perdere tempo può anche essere un’arte. C’è un saggio di Patrick Manoukian che si intitola appunto L’arte di perdere tempo. Parla di viaggi, di soste, d’imprevisti. Ma ogni conoscenza, ogni scoperta è, essenzialmente, una stazione di posta nel corso di un viaggio, per cui anche per il viaggio della conoscenza si può ipotizzare che sia necessario imparare l’arte di perdere tempo, in modo da avere la possibilità di guardarsi intorno, di guardarsi dentro, a volte aspettando che siano i significati ad approssimarsi a noi. Perché ci sono significati essenziali che è assolutamente inutile cercare. Occorre aspettare che si presentino, al tempo giusto. Allora, forse, perdere tempo può anche significare aspettare il tempo giusto, perché per i significati essenziali delle storie e delle cose occorre aspettare che si faccia il tempo giusto. Se il tempo non è quello giusto, le storie e le cose non si capiscono appieno o si capiscono male, in modo equivoco. Perdere tempo è una maniera di assecondare la propria maturità, la propria conoscenza sostanziale. Non esiste creatura che apprenda in una maniera così determinante e assoluta in cui apprende un bambino che perde tempo a giocare. Mentre gioca costruisce universi. E’ un dio che dice sia fatta la luce e sia fatto il buio, che dà i nomi alle stelle e agli animali, che trasforma in concretezze le sue fantasie. Scopre e inventa, perdendo tempo, giocando. Ma noi gli diciamo che c’è questo e quest’altro da fare, gli diamo consegne precise, gli diciamo che deve smetterla di perdere tempo, deve smetterla di giocare, impedendogli di esercitare la sua funzione di dio.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, domenica 25 marzo 2018]