La primavera e la poesia dentro di noi

di Antonio Errico

Come ogni mattina entrò in classe, si mise davanti alla finestra, guardò fuori, si accese una delle sue “Serraglio”, sfiatò il fumo sul vetro. Poi prese il gesso, scrisse alla lavagna: oggi è primavera, possiamo essere felici.

Scrivete quello che pensate; soprattutto quello che sentite, disse.

Aveva fatto il cappellano militare. Era un sacerdote che conosceva il mondo. Sapeva com’erano le primavere, com’erano le estati. Stava vivendo il suo autunno. Aspettava l’ inverno.

Scrivete quello che pensate, quello che sentite, disse.

Noi avevamo poche stagioni alle spalle, la speranza di quelle a venire.

Arrotolavamo foglietti di carta fingendo di fumare, per imitare il maestro, per sentirci già grandi.

Gli anni Sessanta erano al finire. Pareva che passassero lentamente. Ci accorgemmo dopo che si sfrenavano, invece.

Scrivete quello che pensate, soprattutto quello che sentite.

Noi guardavamo fuori, e non era primavera. Lo scirocco si schiantava sulle chiome degli ulivi. Pioveva, spioveva, pioveva di nuovo. I passeri si rifugiavano sotto la pensilina della finestra.

Non serve guardare fuori, disse il maestro. Lasciate stare. Pensate alla vostra stagione, a quella che avete dentro. Se vi guardate dentro e non riuscite a vedere, allora provate un poco a immaginare. Riuscire a vedere quello che c’è dentro è difficile, lo so bene. Immaginare è più facile. Immaginate.

Allora uno disse: maestro, se io immagino, m’immagino aquiloni. Il maestro gli chiese che cosa volesse dire. Lui disse che quando pensava alla primavera, pensava a far partire il suo aquilone. Disse che per lui era primavera certi giorni delle feste di Natale che c’è un’aria che si può stare con la maglietta a maniche corte, e se ne andava con questo e con quello e fece i nomi dei compagni di classe, se ne andavano sulla macchia a far partire gli aquiloni.

Oggi a me non mi pare primavera, che l’aquilone con questo tempo non può partire.

Il maestro aprì un’anta dell’armadietto di truciolato che stava accanto alla cattedra. Prese un libro, cominciò a sfogliarlo. Noi guardavamo ancora fuori e non era primavera, non c’erano aquiloni. Pioveva, spioveva, pioveva di nuovo.

Poi il maestro cominciò a leggere. Era una poesia che parlava di aquiloni. Un po’ allegra, un po’ triste. Diceva di un aquilone che volava alto alto, che volava così alto che nemmeno si vedeva, diceva di un aquilone che poi precipitava.

Fra pochi giorni sarà primavera. Fra pochi giorni sarà la Giornata mondiale della poesia.

Ogni volta che viene primavera, ogni volta che viene la Giornata della poesia, mi accade di pensare a quella mattina di scuola elementare, a quella poesia un po’ triste e un po’ allegra che parlava di un aquilone.

Ciascuno ha una propria idea di poesia, che non è uguale a quella di nessun altro. La mia idea è quella di una mattina che pioveva e spioveva e di un maestro che ci leggeva una poesia che non sono mai riuscito a capire di chi fosse, che non ho mai più incontrato, tanto che non di rado mi è venuto il sospetto che nel libro preso dall’armadietto di truciolato quella poesia non esisteva, che l’avesse fatta lui, così, in quei minuti.

Poi, con gli anni e con le storie, quell’immagine della poesia si è impastata con un’altra: quella di un trabiccolo che può portare fino al cielo.

E’ un’immagine che si trova fra le ultime pagine di un libro di Antonio Verri che s’intitola “La betissa”: “ Ma a che serve poesia, dicevi un tempo: a che serve il cielo puoi dire adesso, a che questa immensa voglia di alzarsi, volare?”. Forse è questa la poesia: l’immensa voglia di alzarsi, volare. Ma anche “il correre stolto, e il correre continuo, con le ali bianche, quasi senza corpo, verso il solito albero d’oro, verso il solito vecchio profumato eldorado”.

Poi un’immagine ancora, più lontana.

“Nella fretta di alzarsi per aprire la porta/ rovesciò il cestino coi fili del cucito -/ i rocchetti si sparpagliarono sotto il tavolo, sotto le sedie,/ negli angoli più impensati, – uno, di un rosso sull’arancione,/ dentro il vetro della lampada; uno viola/ nel fondo dello specchio; quello là d’oro-/ non aveva mai avuto un rocchetto d’oro – da dove salta fuori?/Provò a inginocchiarsi per raccoglierli a uno a uno e rimettere/ tutto a posto/ prima di aprire la porta. Non fece in tempo. Suonarono di/ nuovo./ Rimase immobile, impotente, le mani lungo i fianchi./ Quando si ricordò d’aprire, – non c’era più nessuno./ Così, dunque, la poesia? Esattamente così la poesia?”

Sono versi di Ghiannis Ritsos.

Ognuno ha una propria idea di poesia. Può essere anche quella di una mattina che comincia primavera ma che primavera ancora non si vede, forse perché la poesia fa vedere anche quello che non c’è.

Può essere l’azzardo di un volo verso il cielo sopra un trabiccolo fatto di parole e di stupore. Può essere la magia di un rocchetto d’oro che compare all’improvviso fra i fili aggrovigliati con i quali cuciamo i nostri giorni, uno alla volta.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, domenica 18 marzo 2018]

 

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