di Luigi Scorrano
Girare tra cose vecchie è divertente. Si tratta di andare a scovare tutto ciò che solo vecchio si scambia per antico e come tale presuntuosamente, o anche in buona fede, come tale si propone. Bisogna avere occhio e buon discernimento. Oppure buttarsi all’avventura nella speranza di imbattersi, avventurosamente si capisce! nel ‘pezzo’ raro o inedito.
Ho avuto tra le mani parecchi libri d’antan: edizioni popolari a volte corredate di illustrazioni generose, oppure con pagine composte in modo da non lasciare un solo spazio per un respiro, senza margini sui quali, eventualmente, comporre un’osservazione, scrivere una giunta, tracciare il tentativo di un disegno, comporre un verso che non fosse proprio un estratto della materia stessa trattata nel libro: insomma non avere nessuna di quelle possibilità che un libro vecchio (o antico!) dispensa al lettore se non frequentemente almeno di tanto in tanto.
Tanto tempo fa mi capitò tra le mani un vecchio libro che era in casa. Lo ripresi e ebbi la sorpresa di vedere che tra le sue pagine un foglietto piegato registrava una poesia. Mia la grafia, mia l’abitudine di registrare in calce la data di composizione. Che farne? Intanto impedire che un così prezioso reperto andasse perduto. Trascriverlo, con la sua brava data: 24/09/2017. Non è poi così vecchio, a considerare bene le cose! E siccome per coloro che vorranno leggere il ritrovato oggetto non vi era altra via (si fa per dire!) non mi restò che trascrivere il testo, che propongo (ahimè loro!) all’attenzione dei miei non so quanti lettori.
“Libro vecchio // In casa passa per un libro antico / un vecchio libro che già molto usato / fu a giudicar da quanto è malandato:/ che cosa esso mi fa pensar non dico // perché mi suggerisce un accorato /senso dei giorni, il lor fuggir nemico / mi sgrana sotto gli occhi. Io benedico / l’oblio che l’ha da tanto accantonato // e sottratto alla vista restituendo /una nota di gioia trascurata / per un vecchiume che prezioso è detto. //Questo non è da credere e scommetto / che nessuno ci creda, e se in discarica / finisca chi lo seguirà piangendo?
Ma un libro vecchio che riemerga dalle nebbie del passato incuriosisce almeno e spinge la curiosità di chi se lo ritrova tra le mani ad aprirlo, a dargli un’occhiata di apprezzamento, di buttarlo via come un vecchiume da nascondere virtuosamente agli occhi casti degli “intellettuali” di famiglia (qualora ce ne fossero!). Lasciamo aperte le possibilità che un libro simile propone (o ripropone) e fermiamoci a considerare il contenuto del libro, a vedere se esso, a causa dell’età e solamente in beneficio di questa, ammette di essere esplorato. Ma quale libro mi son ritrovato in mano io? Oh maraviglia! è il vecchio Fanfani-Arlia, difensore della buona lingua italiana! E precisamente, come recita il frontespizio, Lessico dell’infima e corrotta italianità compilato da P. Fanfani e C. Arlia / Terza edizione / riveduta e con molte giunte / Milano / Paolo Carrara Editore. Che cosa possiamo farne? Naturalmente scorrerne le pagine e farci qualche considerazione, magari semiseria, senza mettere in dubbio la riverenza dovuta a un testo che ha combattuto (ai suoi tempi) la buona battaglia in difesa della lingua corretta.
Hanno ottenuto ai loro tempi, Fanfani e Arlia, di purificare la lingua, di trarla dal volgare uso e tetro? Parole non ci appulcro! E intanto un piccolo esercizio possiamo farlo proprio col sostegno dei benemeriti (leggi Fanfani e Arlia) che apprestarono per l’umanità futura un così necessario strumento. Oggi il prezioso strumento suona in un inglesito italofono che ha fondato le premesse e il resto per una lingua universale (è, per caso, sparito quell’esperanto sul quale si faceva assegnamento?)
Lasciamo stare tutte le illazioni e apriamo il vecchio (o antico?) libro e divertiamoci a estrarne qualche definizione che ci faccia sorridere ma non metta in dubbio la serietà di quell’impresa a quattro mani che fu il Fanfani-Arlia. Un assaggio, appena. O, come nei due citati, la voce degustazione. Eccola: Degustazione:
“E lasciamo pure a’ pedanti e a coloro che ebber le lettere in confessione, come diceva il Doni per Assaggio, Delibazione. Come: Nella mostra italiana in Inghilterra i vini piacquero alla prima degustazione”. Per rimanere sul semiserio, proviamo con un’altra voce: Marmo.
Trascrivo: ”La sapete la nuova? Ché, in mille non la indovinereste. Or bene, Marmo che fu sempre maschile, ora si è procurata la gnora Marma, che sarebbe la Pietra. Di fatti abbiamo non è molto, letto in certo libercolo Le marme litografiche. Attendiamo un dì o l’altro di sentire il Pietro sereno; Il Pietro arenario; Il P. ec. Pietro da macina, ec. invece di Pietra serena, Pietra arenaria, ec.”
Femminilizzare il marmo era ingentilirlo o rimuoverne certi usi? Forse questa l’inconfessata ragione. Ci pensava in giorni lontani Victor Hugo: “Je dormais sous la pierre où l’homme refroidit. / Je sentais pénétrer […] / l’oubli dans ma pensé et dans mes os le marbre”.
Ma come mai un simile percorso stravagante dal Fanfani-Arlia “al viale dei cipressi, nel campo della dea silenziosa”?