di Rosario Coluccia
Numerosi lettori mi sollecitano a scrivere dei dialetti e della loro presenza nella società italiana. Il tema interessa, suscita reazioni diverse. Ne ho discusso pochi giorni fa con Giuseppe Palaia, specialista di Medicina dello Sport, alle cui cure si affidano sportivi e privati cittadini, molto amato a Lecce dai tifosi della squadra di calcio. Il nostro giornale gli ha dedicato una puntata delle “Storie” nell’agosto 2017; alle pareti del suo centro medico sono appese foto di tennisti, di calciatori, di maratoneti, di altri atleti, spesso con dediche riconoscenti. Palaia mi racconta aneddoti divertenti, ricorda (distaccandosene) l’ostracismo antidialettale un tempo diffuso dalle nostre parti e oggi per fortuna in regresso.
In altri casi capita anche il contrario. Da chi vuole nobilitare la propria parlata sentiamo dire: il siciliano (o il napoletano, o il veneto, o il lombardo, ecc.) non è un dialetto, è una lingua. A voler considerare le cose astrattamente l’affermazione non è scorretta, non esistono elementi di carattere strutturale che consentano di tracciare un confine netto tra lingua italiana e dialetti: tutti derivano dal latino parlato, poi hanno avuto storia ed evoluzione diverse, ciascuno ha una grammatica propria e regole interne di funzionamento. Sul piano storico e concreto i due termini (lingua e dialetto) esprimono concetti diversi, la diversità terminologica serve a distinguere tra la varietà linguistica ufficiale, messa anche per iscritto e unica idonea a svolgere alcune specifiche funzioni (trasmissione del sapere scientifico, legislazione, amministrazione, ufficialità, ecc.), e le varietà dialettali, che tali funzioni non hanno mai svolto né possono svolgere. In Italia motivi culturali hanno spinto le varie aree del Paese a convergere linguisticamente, prima nell’uso scritto e poi anche nel parlato, verso il fiorentino letterario trecentesco (un po’ genericamente potremmo dire la lingua di Dante, Petrarca e Boccaccio, ancor oggi in buona misura comprensibile), che passo dopo passo, attraverso un processo molto lento e sotto la spinta di fattori diversi, è diventato l’italiano che tutti usiamo.
In Italia lingua e dialetti convivono da secoli, con ruoli e funzioni differenti. Contrariamente a quel che a volte si crede, i dialetti non sono morti né moribondi, li usiamo nelle conversazioni in famiglia, con amici, con estranei (con variazioni a seconda delle fasce sociali e dell’età), li ascoltiamo nei film e in televisione, spesso nelle canzoni, rinascono in rete. Non corrono oggi pericoli di estinzione. La storia recente dimostra che italiano e dialetti possono coesistere nella società moderna, la diffusione ampia dell’italiano non contrasta con la persistenza dei dialetti; anzi la lunga, plurisecolare convivenza con l’italiano li ha in un certo senso irrobustiti. Il possesso della lingua ufficiale da parte di percentuali crescenti di cittadini ha dato sicurezza linguistica ai parlanti, li ha resi più tolleranti, ha impedito ai dialetti di fare una brutta fine, perché non sono più considerati un ostacolo al normale svolgimento del vivere sociale. Oggi che quasi tutti conoscono l’italiano (magari un po’ ammaccato), il dialetto non fa più paura a nessuno. Anzi, in qualche modo affascina i giovani per la sua per la sua spontaneità comunicativa e per la sua eccentricità. Dall’incontro plurisecolare con l’italiano i dialetti sono usciti un po’ cambiati. Ma vivi.
Nel contesto attuale pacificato e abbastanza tranquillizzante, in cui italiano e dialetti non appaiono conflittuali ma coesistenti, assumono particolare rilevanza gli atteggiamenti e le opinioni collettivi. È importante capire come i dialetti vengono percepiti e valutati non solo dai linguisti ma soprattutto dagli stessi parlanti, lo ricordavo all’inizio. Da alcuni (pochi), le parlate dialettali vengono considerate simbolo di arretratezza culturale e sociale, ma questo atteggiamento è sempre meno diffuso. Altri (in maggioranza) invece considerano tali parlate espressione genuina della cultura tradizionale, da assumere come fondamento della propria identità. Non dobbiamo pensare che i contatti si svolgano in una sola direzione: l’italiano influisce sui dialetti, ma spesso si verifica anche il processo inverso. Nel corso della storia linguistica in molte occasioni e per le ragioni più varie gli idiomi locali hanno dato un contributo significativo alla costituzione del lessico nazionale. Molte parole che noi usiamo correntemente provengono dai dialetti. Anche se spesso non ce ne accorgiamo.
Fin da epoca remota dialettismi provenienti da località diverse sono entrati a far parte della lingua nazionale: oggi sono parole perfettamente italiane, nessuno penserebbe a un’origine dialettale. Da Roma irradiano voci come caldarrosta (1536), falegname (1565); da Venezia arsenale (1540), regata (1536), zattera (1449); da Napoli carosello ‘torneo spettacolare di cavalieri’ (1547). Il numero dei dialettismi entrati nella lingua aumenta in maniera consistente dopo l’Unità d’Italia e poi nel corso del Novecento. Le ragioni vanno ricercate, come spesso accade, nelle mutate condizioni economiche e sociali. A partire dall’Unità, si sono intensificati i contatti tra le varie aree della nazione e “cose” che in origine erano proprie della cultura di aree specifiche e ristrette poco alla volta sono diventate patrimonio generale, hanno assunto una dimensione nazionale perché note a tutti. Insieme alle cose si sono diffuse le parole.
Una percentuale considerevole, in continuo incremento, di dialettismi si registra nell’ambito alimentare (enogastronomico, usiamo dire di questi tempi). Molti cibi e bevande, partendo da una regione o da un’area ancora più ristretta, progressivamente entrano nelle abitudini alimentari collettive; conseguentemente la denominazione viene adottata su scala nazionale, la lista è lunghissima, occuperebbe pagine e pagine. Dal Piemonte vengono vini come il barbera, il barolo e cibi come la fontina, i gianduiotti, i grissini. E così, in sequenza e molto selettivamente: la Liguria offre pesto, trenette e vernaccia; la Lombardia gorgonzola, grana, ossobuco, panettone, risotto; il Veneto crauti, tiramisù; l’Emilia-Romagna culatello, tagliatelle, tortellini, zampone; la Toscana panforte, ricciarelli; Roma bucatini, porchetta, rigatoni, saltimbocca, sfilatino; Napoli calzone, capitone, panzarotto, pizza, provola, sfogliatelle; l’Abruzzo arrosticini, caciotta, scamorza; la Puglia orecchiette (dalla zona barese), negramaro, primitivo, rustico (dal Salento); la Sicilia cannolo, cassata, nero d’Avola, passito. Nella maggior parte dei casi i dialettismi quando entrano nella lingua si amalgamano alla nuova struttura perdendo le marche dialettali originarie. Solo in casi rari persiste l’aspetto dialettale. Si chiama bagna cauda un intingolo preparato con olio, aglio e acciughe in cui si intingono verdure crude: nel dialetto piemontese bagna è ‘intingolo’ e cauda è ‘calda’.
A volte le forme di provenienza dialettale entrano in concorrenza tra loro. Nei vocabolari per indicare lo stesso pesce si registrano spigola (originariamente romano) e branzino (proveniente da Venezia); è limitato alla Toscana ragno (ma quasi non si usa più neanche lì), appartiene solo al linguaggio zoologico labrace (nessuno lo userebbe in una conversazione non scientifica). È nazionale la denominazione di pagello attribuita al pesce di color rossiccio che invece nelle regioni dell’estremo sud definiamo lutrino, parola derivata dal greco erutrinos ‘rossiccio’ (nei dialetti meridionali sono molte le parole di origine greca); ancora al colore rinvia il nome di una variante di questa specie ittica: fragolino. Vengono entrambi dalla Lombardia e coesistono i nomi del formaggio a volte indicato come crescenza e a volte come stracchino (una pubblicità di qualche anno fa giocava sull’ambivalenza: «chi lo chiama crescenza, chi lo chiama stracchino…»). Nulla di strano, la lingua è variabile perché gli uomini sono variabili, non sempre le scelte sono fisse e rigide, i linguisti l’hanno imparato. Per indicare un elemento lessicale diffuso in una data area geografica al cui significato corrisponde, in altre aree, un lessema diverso, in linguistica esiste un tecnicismo apposito: geosinonimo.
I dialetti non regalano alla lingua solo nomi di bevande, di cibi e di pesci. Trasmettono anche parole che riguardano mestieri e attività, modi di vivere, di pensare, di organizzare la struttura sociale. L’italiano, lingua dell’Italia unita, si è formato anche grazie all’apporto prezioso di tante realtà periferiche. Scambio continuo tra centro e periferia, circolazione delle differenze, questa è la nostra storia. Non basta. Molte parole di origine dialettale, divenute italiane, si spingono oltre, diventano internazionali, ci rappresentano all’estero. Parleremo di tutto ciò la prossima volta.
[Nuovo Quotidiano di Puglia”, domenica 11 marzo 2018, p. 10]