di Gianluca Virgilio
“Oh, Agathe, non immagini cos’è, – gemette poi, soprappensiero, – ad esempio la scienza! Per un matematico, poniamo, meno cinque non è peggiore di più cinque. Uno scienziato non deve avere ribrezzo di nulla, e in certe circostanze un bel caso di cancro lo ecciterà piacevolmente più che una bella donna. Il sapiente sa che nulla è vero e che la verità assoluta si trova alla fine dei tempi. La scienza è amorale. Questo meraviglioso addentrarsi nell’ignoto ci disabitua dalla cura personale della nostra coscienza, anzi non ci concede neppure la soddisfazione di prenderla molto sul serio. E l’arte? Non è essa sempre la creazione di immagini che non coincidono con quelle della vita? Non parlo del falso idealismo o dell’inflazione di nudi in tempi in cui si vive vestiti fino alla punta del naso, – egli riprese celiando. – Ma pensa a una vera opera d’arte: non ti è mai sembrato, guardandola, di sentire l’odor di bruciaticcio che manda un coltello quando lo affili su una pietra? Un odore cosmico, di meteora, di temporale, divinamente angoscioso?”.
Robert Musil, L’uomo senza qualità, p. 1089.
Che cosa c’è alla fine dei tempi?
Se uno dei miei studenti liceali un giorno mi chiedesse che cos’è la scienza, a me che insegno letteratura, non esiterei a rispondere che noi, nel nostro piccolo, lui con la sua domanda ed io che tento una risposta, stiamo facendo opera di scienza, cioè stiamo cercando di capire qualcosa del mondo che ci circonda. Poiché nell’insegnamento è inevitabile procedere ex noto ad ignotum, richiamerei alla memoria del mio studente la famosa perifrasi astronomica di Dante, sulla quale a lungo ci siamo fermati a riflettere: “Già era ‘l sole all’orizzonte giunto / lo cui meridian cerchio coverchia / Ierusalèm nel suo più alto punto; / e la notte, che opposita a lui cerchia, / uscia di Gange fuor con le Bilance, / che le caggion di man quando soverchia; / sì che le bianche e le vermiglie guance, / la dov’i’ era, de la bella Aurora / per troppa etade divenivan rance.” (Dante Alighieri, Purgatorio II, vv. 1-9). Non è solo cornice. Dante evoca il sapere geografico medievale al fine di precisare il proprio essere nel mondo, la posizione particolare nella quale si trova il viandante che ha una missione ben precisa da compiere. A tal fine, bisogna stabilire il tempo e il luogo nel quale si colloca il viaggio ultraterreno, facendo ricorso al sapere geografico aristotelico-tolemaico messo al servizio della teologia. La teologia, ovvero la massima scienza del Medioevo, quel sapere che oggi si è ritirato nei seminari ecclesiastici e di cui a scuola si sente ben poco parlare, aveva lo stesso rango delle scienze fisico-matematiche in età moderna. Quante cose bisogna conoscere per comprendere che il cammino purgatoriale di Dante incomincia quando il sole sta sorgendo sull’orizzonte del purgatorio! Le terre emerse e abitate occupano la superficie della terra per una estensione di 180° nell’emisfero boreale; Gerusalemme è il centro di questo emisfero; il Gange è considerato come il confine orientale della terra abitata e Cadice quello occidentale; sicché se il sole è allo zenit di Cadice e tramonta invece sull’orizzonte di Gerusalemme, e la notte è allo zenit del Gange, la montagna del purgatorio, che si trova agli antipodi di Gerusalemme, non potrà che essere illuminata dai raggi del sole nascente. Lì è Dante, in compagnia del suo maestro Virgilio, in quel punto preciso dell’universo e in quel tempo preciso, da lì parte il cammino di purificazione che lo condurrà a Beatrice, l’allegoria della teologia. Sulla soglia dell’evo moderno, Dante è l’ultimo uomo dell’antichità, nel quale il sapere poetico si nutre di quello scientifico, è un tutt’uno con esso, non se ne distingue affatto, in particolare laddove raggiunge l’apice delle sue potenzialità nella visione di Dio. “Nel suo profondo vidi che s’interna, / legato con amore in un volume, / ciò che per l’universo si squaderna: / sustanze e accidenti e loro costume / quasi conflati insieme, per tal modo / che ciò ch’i’ dico è un semplice lume.” (Dante Alighieri, Paradiso XXXIII vv. 85-90). Tutto in un punto, verrebbe da dire, richiamando il titolo di una celebre novella di Italo Calvino, di cui si dirà più avanti. E allo stesso modo, mi risuonano nella mente le parole di Vladimir Nabokov, quando scrive in Parla, ricordo che “tutta la poesia indica una posizione: cercare di esprimere la propria posizione nei confronti dell’universo abbracciato dalla coscienza è un impulso antichissimo. (…) mentre lo scienziato vede tutto ciò che accade in un punto dello spazio, il poeta sente tutto ciò che accade in un punto del tempo.” (Nabokov, 2010, p. 236.)
Parafrasando Nabokov, si potrebbe dire che nella conclusione della Divina Commedia Dante ci mostra contemporaneamente la visione dello scienziato e il sentire del poeta, egli vede e sente in Dio, pur coi limiti della mente umana, ciò che accade in un punto dello spazio e del tempo, senza alcun residuo incompreso, nessuna scissione o contraddizione tra vedere e sentire. La condensazione o fusione di scienza (teologia) e poesia è totale, nel segno poetico del verosimile espresso dall’ “alta fantasia” del poeta.
Quando è iniziata la differenziazione, quando lo scienziato ha creduto di dover proseguire da solo per la sua strada, separandosi dal poeta? Quando, per dirla con Nabokov, lo scienziato ha cominciato a vedere tutto ciò che accade in un punto dello spazio e il poeta a sentire tutto ciò che accade in un punto del tempo?
Uno scienziato non deve avere ribrezzo di nulla
Il 12 marzo 1610 Galileo Galilei pubblica il Sidereus nuncius, nel quale comunica al mondo le sue importanti scoperte astronomiche. Lasciamo ad uno scrittore nostro contemporaneo, Antonio Prete, il racconto (ne L’ imperfezione della luna) di quanto si verificò nel gennaio 1610, quando per la prima volta Galilei sollevò al cielo il cannocchiale: “L’imperfezione della luna. Lei, la più prossima a noi tra gli infiniti corpi celesti, aveva fino a quel momento ingannato le umane viste. All’apparenza così nitida, così quietamente soddisfatta della sua luce verde, dei suoi nascondimenti dietro nuvole adoranti, in quella notte di fine gennaio milleseicentodieci, osservata con lo strumento del cannocchiale come fosse distante appena due semidiametri terrestri, mostrava le due parti della sua faccia, la chiara e l’oscura, per quel che veramente erano: se la parte chiara pareva circondare e cospargere di sé tutto l’emisfero, la parte oscura mostrava non solo le macchie che gli antichi già avevano visto, ma altre macchie prima mai scorte, e queste macchie indicavano, per la loro profondità e diseguaglianza, che la superficie lunare non era affatto liscia, uniforme e di sfericità esatta, ma al contrario scabra, ripiena di cavità, di rilievi, di avvallamenti, simile in questo alla faccia della terra.” (Prete, 2000, p. 89.) Nel secondo canto del Paradiso Dante aveva ricondotto la causa delle macchie lunari ad un principio metafisico, secondo il quale la luminosità maggiore o minore di una stella è dovuta alla maggiore o minore letizia dell’intelligenza angelica che la muove. Galilei vede col cannocchiale che le cosiddette macchie lunari sono invece l’effetto visivo prodotto da una materia del tutto uguale a quella terrestre e comprende che nessun corpo diafano abita il cosmo ma corpi simili ai nostri, altrettanto imperfetti, il che vuol dire che l’intero universo va riconsiderato e studiato secondo nuovi parametri di giudizio, da cui nascerà un uomo nuovo ed un pensiero nuovo. Questa scoperta cambia la relazione dell’uomo con l’universo, restituendogli il senso preciso del suo limite, il suo essere finito e imperfetto, in tutto simile a quelle dei corpi celesti, un tempo pensati come composti di materia incorruttibile. Scrive Prete: “Poi nell’onda del suo dubitare s’impose un altro, più forte convincimento: l’imperfezione lunare è benefica, perché cancella l’alibi di un altrove perfetto, di un perfetto compimento che ne compensi le mancanze. Inoltre rende più vera l’idea che nell’anima nostra ci sia un qualche riflesso del cielo esteriore, con le sue profondità inesplorate, con i suoi moti irregolari, imprevedibili. E’ insomma possibile che un lembo di cielo tremi nel sempreguale specchio degli affanni.” (Prete, 2000, p. 91). Nessuno potrà mettere in dubbio la visione di Galilei; e Antonio Prete ci spiega il senso che occorre trarre dalla scoperta: il ripudio di qualsiasi concezione eroica dell’uomo e la certezza della sua finitudine: noi siamo fatti della stessa pasta imperfetta dell’universo.
Con Galilei lo scienziato vede e ciò che egli vede non può essere smentito. Infatti, come ci ricorda Émile Benveniste ne Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee, 1976, p. 414, “la testimonianza della vista è irrefutabile; è la sola irrefutabile”. Il poeta invece esercita la sua “fantasia”, e così facendo certamente potrà essere ascoltato, ma non dovrà arrogarsi il diritto di essere creduto. In Il Saggiatore 6, polemizzando con il Sarsi, ovvero padre Orazio Grassi, Galilei afferma: “forse [il Sarsi] stima che la filosofia sia un libro e una fantasia d’un uomo, come l’Iliade e l’Orlando furioso, libri ne’ quali la meno importante cosa è che quello che vi è scritto sia vero. Signor Sarsi, la cosa non istà così. La filosofia è scritta in questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi a gli occhi (io dico l’universo), ma non si può intendere se prima non si impara a intender la lingua, e conoscer i caratteri, ne’ quali è scritto. Egli è scritto in lingua matematica, e i caratteri son triangoli, cerchi, ed altre figure geometriche, senza i quali mezi è impossibile a intenderne umanamente parola, senza questi è un aggirarsi vanamente per un oscuro laberinto.” (Galileo Galilei, 1953, p. 121).
Certo, molta acqua è passata sotto i ponti della storia dai tempi di Dante e un nuovo mondo sta nascendo sulle ceneri dell’aristotelismo; ma in Galilei rimane ferma la distinzione tra quanto si può accertare attraverso la “lingua matematica”, su cui non si può dubitare, in quanto ciò che è detto è passibile di verifica e dimostrazione (“il vero”), e quanto è raccontato nei poemi antichi e moderni, per i quali altro è il metro di misura, altra è la “importante cosa”, non certo la verità matematica. Un linguaggio particolare, quello matematico, ha preso il posto della scienza, sembra essere diventato esso stesso scienza, espellendo ogni altro linguaggio, ogni altro sapere. Come il linguaggio della scienza medievale era quello della teologia, così il linguaggio della scienza moderna sarà quello matematico.
Quattro secoli dopo, Albert Einstein nei Pensieri degli anni difficili conferma quanto Galilei aveva già detto: “La scienza rappresenta il tentativo di far corrispondere la varietà caotica della nostra esperienza sensibile a un sistema di pensiero logicamente uniforme. In questo sistema le singole esperienze debbono essere correlate alla struttura teorica in maniera tale che la coordinazione risultante sia unica e convincente. (…) Ciò che noi chiamiamo fisica comprende quel gruppo di scienze naturali che fondano i loro concetti sulle misure e i cui concetti e proposizioni si prestano a una formulazione matematica. Il suo dominio, di conseguenza, è definito come quella parte del complesso della nostra conoscenza che è suscettibile di venir espressa in termini matematici. Con il progresso della scienza, il dominio della fisica si è espanso in modo tale da sembrare ormai limitato soltanto dalle limitazioni del metodo stesso.” (Einstein, 1974, pp. 114-115.) L’“esperienza sensibile”, come scrive Einstein, deve corrispondere ad un “pensiero logicamente uniforme”, che in fisica si esprime attraverso la matematica.
Per tornare a Galilei, in lui non c’è solo il matematico puro, ma anche colui che coltiva il sapere tecnologico, assunto a strumento imprescindibile della nuova visione dell’universo; senza il cannocchiale infatti potremmo vedere ben poco. Volgendo al cielo il cannocchiale nel gennaio 1610 Galilei ha detto al mondo che la matematica da sola non poteva bastare, ma andava congiunta alla tecnologia in grado di potenziare i sensi dell’uomo, e che la loro congiunzione sarebbe stata decisiva nella conoscenza del mondo.
Un coltello affilato su una pietra, ovvero che cos’è la tecnica
Per dire che cos’è la tecnica, vorrei riportare la storia de La morte di Archimede raccontata dallo scrittore ceco, Karel Čapek (1890-1938), che di quella morte dà una suggestiva interpretazione. Siamo nel 212 a.C., a Siracusa, attaccata e sconfitta dopo lungo assedio dai romani: “È che la storia di Archimede non andò proprio come è stato scritto; è vero sì che fu ucciso quando i romani presero Siracusa, ma non è esatto dire che entrò in casa sua un soldato romano per saccheggiarla e che Archimede, intento a disegnare una qualche costruzione geometrica, gli ringhiò con aria scontrosa: “Non mi rovinare i miei cerchi!”. In primo luogo Archimede non era affatto un distratto professore che non sa quel che gli succede intorno; anzi, era per sua natura un autentico soldato, che aveva progettato per Siracusa delle valide macchine da guerra, destinate alla difesa della città; in secondo luogo poi, il soldatino romano non era affatto un predone ubriaco, ma un colto ed ambizioso capitano di stato maggiore, Lucius, che sapeva bene con chi aveva l’onore di parlare, e non era venuto per saccheggiare, ma sulla soglia fece il saluto militare e disse…”. (Čapek, 2007, p. 255). Čapek immagina con ogni verosimiglianza che il generale romano Lucius, al corrente non solo della fama di Archimede, ma anche degli effetti deleteri delle macchine da guerra da lui costruite, abbia voluto cooptare Archimede nella realizzazione del grandioso progetto imperiale romano e che in cambio abbia ricevuto un netto rifiuto. Lo scienziato-soldato Archimede rifiuta di mettere la scienza, e in particolare la sua capacità di tradurre in tecnologia bellica la scienza, a disposizione del nemico, e muore perché rimane fedele alla polis che aveva contribuito a difendere con le sue invenzioni. Lucius avrebbe fatto volentieri a meno di uccidere Archimede, ma non poté esimersi dal farlo perché Archimede rifiutava la collaborazione col vincitore romano.
Come si comprende, qui sono in gioco due forze: la prima è la tecnica, generata per un fine di carattere pratico (“datemi una leva e solleverò il mondo”); la seconda è il potere della polis, che utilizza la tecnica al fine della propria conservazione e, se possibile, del proprio accrescimento. In un frangente così drammatico, la caduta di Siracusa e la morte di Archimede, la scienza pura, quella che gli antichi chiamavano epistéme, rimane dietro le quinte come puro pensiero, utile solo a generare la tecnica.
A ben guardare, però, qui è in gioco una terza forza, senza la quale nulla potrebbe essere detto riguardo al nostro tema: la letteratura. E’ lapalissiano che quanto si è fin qui appreso si deve al racconto della morte di Archimede scritto da Čapek, che riprende e reinterpreta il racconto degli antichi; lo fa in chiave del tutto moderna, come chi ha conosciuto gli orrori della guerra, almeno quelli della prima guerra mondiale (il racconto fu pubblicato per la prima volta nel 1932); e tanto era bastato a fargli comprendere l’importanza della tecnica nel decidere le sorti di qualsiasi conflitto.
Come si è detto, nel racconto di Čapek non si parla di scienza se non in quanto essa produce una tecnica in grado di realizzare macchine belliche. Ma che cos’è in realtà la tecnica? Ecco cosa ne dice Umberto Galimberti in Psiche e techne. L’uomo nell’età della tecnica: “Rispetto all’ordine sapienziale, la tecnica inaugura un nuovo tipo di sapere, che oggi siamo soliti chiamare ragione strumentale, la cui competenza è data dal suo limite. Ciò che essa conosce è infatti solo la congruità dei mezzi ai rispettivi obiettivi, mentre ciò che non conosce e intorno a cui è incompetente è se gli obiettivi devono essere perseguiti oppure no.” (Galimberti, 2002, p. 262)
“Rispetto all’ordine sapienziale”, cioè rispetto all’epistéme degli antichi, la tecnica opera come “ragione strumentale” tesa a raggiungere un obiettivo pratico immediato; una forza tremenda e irresponsabile, che dunque può cadere nelle mani di chiunque e diventare strumento efficacissimo destinato a realizzare qualsiasi progetto, buono o cattivo che sia, perché essa non sa “se gli obiettivi devono essere perseguiti oppure no”. La storia della morte di Archimede ci ricorda che al potere non importa minimamente salvare lo scienziato se non nella misura in cui lo scienziato traduce l’epistéme in tecnologia, cioè quanto occorre per il consolidamento e il potenziamento del dominio sul mondo; e nel momento in cui lo scienziato non è disposto a collaborare, il potere lo uccide. Se non ci fosse un sapere etico in grado di tenere a bada (fino a che punto?) questa forza, i suoi effetti potrebbero essere addirittura mostruosi, come la storia ha tante volte dimostrato.
Scrive ancora Galimberti: “A differenza dell’uomo, inoltre, la tecnica non si propone fini, perché il suo incedere è un crescere sui propri risultati, che non hanno in vista alcuna meta da raggiungere se non il proprio potenziamento. La tecnica non redime, non salva, semplicemente cresce.” (Galimberti, 2002, pp. 497-498). L’uomo ha dunque creato una forza immane che egli stesso continua a incrementare, non in vista di un fine, ma semplicemente perché è incapace di fermarne la crescita, che è divenuta fine a se stessa, come si evince anche dal discorso economico dominante in cui la parola chiave è appunto crescita. La tecnica appare come un gigante senza cervello che più avanza più cresce, cibandosi di tutte le brame, le paure, le incertezze, le debolezze, e diventando così la rappresentazione plastica della hybris dell’uomo contemporaneo. Essa risponde infatti alla pressante richiesta di conforto dell’uomo che, gettato nel mondo, trova in essa un facile anche se inutile appiglio. Ma “la tecnica non redime, non salva, semplicemente cresce”. Pertanto, prosegue Galimberti, “Occorre evitare che l’età della tecnica segni quel punto assolutamente nuovo nella storia, e forse irreversibile, dove la domanda non è più: “Che cosa possiamo fare noi con la tecnica?”, ma: “Che cosa la tecnica può fare di noi?” (Galimberti, 2002, p. 715). Bisogna fermare in qualche modo una tale crescita irrazionale che l’uomo produce, ma perché ciò accada deve aver luogo una vera e propria rivoluzione antropologica, di cui per ora non si vedono i segni, sicché tutti i discorsi sulla questione assumono inevitabilmente le sembianze del velleitarismo o dell’utopia. Naturalmente non si tratta di pensare ad una regressione tecnologica, bensì ad un autentico progresso tecnologico che metta al servizio dell’uomo la strumentazione di cui finora egli si è dotato e che oggi appare sottomettere l’uomo stesso.
Potere, tecnica, etica: la scienza è amorale?
L’attuale assetto economico e politico del mondo è dominato da una serie di dispositivi tecnologici che spingono verso il potenziamento del gigante senza cervello che è la tecnica. Il finanzcapitalismo è il sistema economico e sociale entro il quale la tecnica cresce ad infinitum, minacciando ogni altro approccio alla realtà. Ecco la definizione che del finanzcapitalismo dà Luciano Gallino in Finanzcapitalismo. La civiltà del denaro in crisi: “Il finanzcapitalismo è una mega-macchina che è stata sviluppata nel corso degli ultimi decenni allo scopo di massimizzare e accumulare, sotto forma di capitale e insieme di potere, il valore estraibile sia dal maggior numero possibile di esseri umani, sia dagli ecosistemi. L’estrazione di valore tende ad abbracciare ogni momento e aspetto dell’esistenza degli uni e degli altri, dalla nascita alla morte o all’estinzione. Come macchina sociale, il finanzcapitalismo ha superato ciascuna delle precedenti, compresa quella del capitalismo industriale, a motivo della sua estensione planetaria e della sua capillare penetrazione in tutti i sotto-sistemi sociali, e in tutti gli strati della società, della natura e della persona.” (Gallino, 2011 p. 5). Gallino spiega bene che cosa sia una mega-macchina: “Mega-macchine sociali: così sono state definite le grandi organizzazioni gerarchiche che usano masse di esseri umani come componenti o servo-unità. Mega-macchine potenti ed efficienti di tal genere esistono da migliaia di anni. Le piramidi dell’antico Egitto sono state costruite da una di esse capace di far lavorare unitariamente, appunto come parti di una macchina, decine di migliaia di uomini per generazioni di seguito. Era una mega-macchina l’apparato amministrativo-militare dell’impero romano. Formidabili mega-macchine sono state, nel Novecento, l’esercito tedesco e la burocrazia politico-economica dell’Urss.” (Gallino, 2011, p. 5). Nel un mondo solo apparentemente caotico nel quale viviamo, la mega-macchina del finanzcapitalismo produce un’ideologia dominante che impone di rinunciare ad una visione critica delle cose e di affidarsi esclusivamente alla tecnica, che sembra risolvere tutti i nostri problemi, come se la tecnica fosse essa stessa la scienza del presente. Lo sa bene Emanuele Severino quando scrive ne Il destino della tecnica: “Scienza e tecnica formano ormai un’unità organica. La loro distinzione o separazione presuppone che la scienza abbia ancora il carattere dell’epistéme, cioè sia conoscenza di verità incontrovertibili che la tecnica si limiterebbe ad “applicare” con un indice più o meno elevato di successo pratico. Ma col tramonto dell’epistéme le teorie scientifiche non possono essere adottate per la loro verità innegabile, ma perché consentono una potenza, cioè un dominio sulla realtà superiore a quello delle teorie concorrenti, sì che il criterio della scientificità di una teoria viene a coincidere col criterio del suo successo pratico, cioè col criterio che è proprio della tecnica. La distinzione tra scienza e tecnica è la distinzione tra due forme di tecnica.” (Severino, 1998, p. 184). Questa sostanziale indistinzione tra scienza e tecnica per Severino è il risultato del tramonto dell’epistéme antica che nutriva l’illusione di poter dominare la tecnica, mentre invece, per una inversione dei ruoli, il mezzo è diventato lo scopo: “Se le grandi forze della cultura e della civiltà tradizionale s’illudono ancora di potersi servire della tecnica come di un semplice e docile strumento per la produzione dei loro scopi, la tecnica è destinata a servirsi di quelle forze, a dominarle e a diventare, da semplice mezzo che esse credono di controllare e guidare, il loro scopo supremo, perché essa è ormai la suprema forza salvifica dell’umanità. Può persino proporsi di costruire in terra quel paradiso che le religioni promettono invano. E chi vuol salvarsi è costretto a volere, prima ancora della propria salvezza, la potenza del proprio salvatore. Sì che alla fine è questa potenza a divenire lo scopo supremo di chi vuol salvarsi, e dunque, esser più che il semplice mezzo per la realizzazione della salvezza. Accade con la tecnica quanto è già accaduto con Dio: si comincia a rivolgersi al salvatore per essere salvati e si finisce col volere che sia fatta la sua volontà: la volontà di Dio, la volontà della Tecnica.” (Severino, 1998, pp. 209-210). La scienza del presente è dunque la tecnica come nel Medioevo era la teologia. Severino riassume bene l’ideologia del finanzcapitalismo, che eleva la tecnologia al rango di scienza. Pertanto, vale qui il richiamo di Paul K. Feyerabend che in Ambiguità e armonia. Lezioni trentine ci esorta a diffidare di ogni totalitarismo in campo scientifico: “Un’idea che sta aleggiando su di noi, e verso la quale mi piacerebbe che imparassimo ad avere un approccio più rilassato è quella che la scienza ci dica tutto ciò che ci sia da sapere sul mondo e che le idee in contrasto con la scienza non siano degne di essere prese in considerazione (…). A quanto pare la scienza è una forza irresistibile. E lo è davvero, ma solo se si crede nelle sue promesse e se si diviene succubi delle “pubbliche relazioni” promosse dalla mafia scientifica. E’ irresistibile se le è permesso di essere tale. (Feyerabend, 2009, p. 395.)
Che fare, allora? La risposta di Feyerabend è molto pragmatica: “Si può decidere di assumere la scienza come guida non solo nelle faccende pratiche, ma anche in questioni di significato, ideologia o contenuto della vita. Ma si può anche decidere di farsi guidare dalla scienza solo nelle questioni pratiche – e qui la scienza ha dato ottimi risultati, anche se solo fino a un certo punto – e di costruire il resto della propria concezione del mondo partendo da fonti totalmente differenti” (Feyerabend, 2009, p. 396). Massima libertà, dunque, nell’approccio dell’uomo alla realtà. Ma resta fermo il rifiuto di affidarsi ad un’unica voce per la comprensione del mondo. È di Feyerabend la definizione della scienza come “mostro” da cui bisogna guardarsi: “Il mostro unitario della SCIENZA, che parla con un’unica voce, è un collage messo insieme da propagandisti, riduzionisti e educatori” (Feyerabend, 2009, p. 397), cioè quelle persone che ruotano intorno al sistema finanzcapitalistico e sono i portavoce più convinti dell’ideologia che questo sistema ha elaborato e diffuso in tutti campi del sociale, dalle scuole alle università, dagli ospedali ai luoghi di lavoro, soffocando la libera ricerca e il pensiero critico. Il gigante senza cervello in realtà ha una testa, e questa testa ha elaborato un’ideologia che fa della scienza, di questa scienza asservita al finanzcapitalismo, e da esso finanziata, il pensiero unico dominante contemporaneo, già prefigurato e atteso e direi invocato nell’Ottocento dal campione della filosofia positiva Auguste Comte, che così scriveva nel suo Corso di filosofia positiva: “Quando la stessa condizione intellettuale [quella derivante dall’influsso della filosofia positiva applicata alla politica e alla società] sarà stata infine soddisfatta anche relativamente ai fenomeni sociali, essa vi produrrà necessariamente conseguenze analoghe, facendo penetrare nella ragione pubblica i germi salutari di una consapevole rassegnazione politica, generale o particolare, provvisoria o indefinita. (…) Nessuno spirito giusto temerà d’altronde che una stupida apatia possa mai risultare da questa rassegnazione razionale, che non ha affatto il carattere passivo della rassegnazione religiosa. Poiché una simile filosofia non impone una sottomissione abituale che alla necessità pienamente dimostrata…” (Comte, 2008, pp. 145-146). Il sogno positivistico-totalitario di Comte, oggi, in un’epoca di diffusa “consapevole rassegnazione politica” o “rassegnazione razionale” o ancora “sottomissione abituale” al dominio della tecnica, sembra essersi realizzato.
Si consideri il modo in cui, polemizzando con Czeslaw Milosz, Feyerabend descrive “le scienze di oggi”: “Le scienza di oggi sono imprese di affari gestite con criteri di business aziendali; pensate soltanto alla contrattazione per il finanziamento del progetto Genoma e dell’acceleratore di particelle texano. La ricerca nei grandi istituti non è guidata dalla Ragione e dalla Verità, ma dalla moda più remunerativa e le Grandi Menti del nostro tempo si volgono sempre più spesso verso la direzione che prende il denaro, il che da molto tempo significa: verso la ricerca militare. Nelle nostre università non si insegna la “Verità”, ma l’opinione delle scuole di pensiero più influenti”. (Feyerabend, 2009, p. 421). Questo il quadro desolato che Feyerabend traccia delle scienze nel mondo attuale; un quadro nel quale la tecnica è al servizio di un sistema di potere fondato su un apparato militare-industriale, per il mantenimento e accrescimento del quale sono spese tutte le risorse del pianeta. E’ “il sistema tecnocratico” di cui parla Konrad Lorenz nel suo celebre Il declino dell’uomo: “La tecnica minaccia di diventare il tiranno della società umana: per questo diamo all’ordine sociale attualmente dominante il nome di “Sistema tecnocratico”. Un’attività che per sua essenza dovrebbe essere “mezzo” in vista di uno scopo è diventata fine a se stessa. Si sopravvalutano i rami del sapere che stanno a fondamento degli sviluppi tecnologici, mentre ogni altro ramo del sapere viene sottovalutato. La mentalità di tipo scientistico (capitolo terzo), con tutti i suoi effetti perversi, è in rapporto di rafforzamento reciproco con lo sviluppo della tecnocrazia.
Il sistema tecnocratico è così complesso che comprendere esattamente in tutti i particolari la sua struttura e il suo funzionamento è a priori impossibile. Dobbiamo avere chiaro fin dall’inizio che lo spirito umano ha creato un sistema tanto complesso che la complessità dello spirito è insufficiente ad abbracciare la complessità del sistema da esso creato. (Lorenz, 2010, pp. 559-560). Quella che nei primi anni ottanta del secolo scorso Lorenz considerava una “minaccia” oggi, nel tempo di internet, è una realtà consolidata.
Nulla oggi sfugge al sistema tecnologico, tanto che consideriamo una pia illusione quella di chi immaginava che l’etica potesse un giorno correggere le storture del sistema e riservava alla tecnica un ruolo positivo e ancillare. Penso a quanto andava scrivendo Carlo Emilio Gadda negli anni quaranta del secolo scorso in Eros e Priapo (da furore a cenere) a proposito dei rapporti tra tecnica e etica: “La tecnica (in senso lato) e l’etica (in senso lato) le sono germane l’una all’altra: ma la prima più piccinina e fantolina mencia, la seconda la è donna e signora: ché una forbitezza tecnica, cioè il bene comportarsi, abluirsi, pettinarsi, il badar molino o cavalli o mercati, o scioglier vele, il montare bene in tramme, si sale dietro si scende avanti, l’andare premurosi le Messe o il pagar volentieri le tasse, tutto sto servire e destreggiar la vita di tra Scilla d’appetiti e Caribdi d’ogni migragna, di tra Cesare e Cristo, è come l’introduzione a quel maggior grado di coscienza morale e civile che è l’etica, che l’è in generale la disciplinata osservanza di una ragione collettiva e il senso di una propria missione umana.” (Gadda, 1998, pp. 365-366). Gadda ripropone il sogno umanistico di un rapporto razionale tra tecnica ed etica, la prima propedeutica alla seconda, nell’aspettativa di una società ordinata e civile, ovvero l’esatto opposto della società nella quale all’autore capitò di vivere, funestata da ben due guerre mondiali, durante le quali la tecnica ha fatto la sua prova generale, imponendo il proprio dominio sul mondo, mentre l’etica ha cercato scampo dalle bombe. Ma appunto quello di Gadda è un sogno nel quale si fondono desiderio d’ordine e utopia civile, un sogno che oggi, nel mondo dominato dall’ideologia del finanzcapitalismo, possiamo solo continuare a sognare.
Immagini che non coincidono con quelle della vita
Il mondo è molto più vasto e vario di quel che il pensiero unico dominante vorrebbe far credere; e in questa vastità gli uomini, isolati o a gruppi, hanno continuato a indagare spinti dalla curiosità e dall’amore per il sapere; e la letteratura ha sempre fatto valere il desiderio di conoscenza, appropriandosi dei risultati parziali, mai definitivi delle scienze, attraverso un punto di vista particolare, quello che Galilei definiva come la “fantasia” dei poeti. Ma siamo sicuri che questa “fantasia” sia meno reale del mondo fisico? Scrive in proposito Lorenz nel già citato Il declino dell’uomo: “A ogni fenomeno, sia che provenga dalla percezione della realtà esterna al soggetto, sia che provenga dalle emozioni e dai sentimenti che sono dentro di noi, corrisponde qualcosa di reale. Non è affatto vero, dunque, che sia reale soltanto ciò che è definibile in senso fisicalista e verificabile con procedimenti quantitativi.” (Lorenz, 2010, p. 618.). La letteratura, in quanto fenomeno reale, sebbene sia stato fatto di tutto per imbrigliarla in schemi analitici strutturalisti, sfugge tuttavia ad una comprensione “fisicalista e verificabile con procedimenti quantitativi”; ed è proprio alla letteratura che vogliamo dare l’ultima parola, certamente anche questa non definitiva, sulla conoscenza del mondo e del posto che l’uomo vi occupa.
Penso ad una delle più belle Novelle per un anno di Luigi Pirandello intitolata Una giornata, in cui il protagonista, “buttato fuori dal treno in una stazione di passaggio”, fa esperienza della propria alienazione e di come la sua vita sia trascorsa senza che se ne accorgesse: “Strappato dal sonno, forse per sbaglio, e buttato fuori dal treno in una stazione di passaggio. Di notte; senza nulla con me.
Non riesco a riavermi dallo sbalordimento. Ma ciò che più mi impressiona è che non mi trovo addosso alcun segno della violenza patita; non solo, ma che non ne ho neppure un’immagine, neppure l’ombra confusa d’un ricordo.
Mi trovo a terra, solo, nella tenebra di una stazione deserta; e non so a chi rivolgermi per sapere che m’è accaduto, dove sono.” (Pirandello, 1997, p. 782). La potenza visionaria di Pirandello ci mostra la condizione dell’uomo moderno “gettato” improvvisamente nel mondo, proprio alla maniera pensata da Martin Heidegger in Essere e tempo, cap. 29, “l’esser gettato di questo ente nel suoi Ci” (M. Heidegger, 2005, pp. 168). In Pirandello l’uomo si trova “gettato” nel mondo ed ha perso col ricordo la sua stessa identità, non riconosce la sua città, la sua donna, la famiglia, i figli e i nipoti e sperimenta la relatività del tempo e dello spazio nell’arco di una giornata, nel quale l’intero corso della sua vita si conclude: “Seduto, li guardo, li ascolto; e mi sembra che mi stiano facendo in sogno uno scherzo.
Già finita la mia vita?
E mentre sto a osservarli, così tutti curvi attorno a me, maliziosamente, quasi non dovessi accorgermene, vedo spuntare nelle loro teste, proprio sotto i miei occhi, e crescere, crescere non pochi, non pochi capelli bianchi.
-Vedete, se non è uno scherzo? Già anche voi, i capelli bianchi.
E guardate, guardate quelli che or ora sono entrati da quell’uscio bambini: ecco, è bastato che si siano appressati alla mia poltrona: si son fatti grandi; e una, quella, è già una giovinetta che si vuol far largo per essere ammirata. Se il padre non la trattiene, mi si butta a sedere sulle ginocchia e mi cinge il collo con un braccio, posandomi sul petto la testina.
Mi vien l’impeto di balzare in piedi. Ma debbo riconoscere che veramente non posso più farlo. E con gli stessi occhi che avevano poc’anzi quei bambini, ora già così cresciuti, rimango a guardare finché posso, con tanta tanta compassione, ormai dietro a questi nuovi, i miei vecchi figlioli. (Pirandello, 1997, p. 788). In un giorno (ma tutto avrebbe potuto svolgersi in un solo istante) si esaurisce la vita dell’uomo e sembra che presente passato e futuro non esistano più, e che i luoghi si contraggano e diventino irriconoscibili. Pirandello descrive benissimo la condizione umana nell’epoca segnata dalla teoria della relatività di Einstein, come Dante aveva descritto benissimo la condizione del pellegrino oltremondano nell’epoca dominata dalla scienza teologica. L’uomo privo di identità, di ricordi, completamente alienato, è il ritratto dell’uomo contemporaneo quale risulta dal dominio di una scienza-tecnica i cui scopi gli sono divenuti estranei.
L’approccio tragico al mondo attuale di Pirandello diventa parodico in Italo Calvino. Nelle Cosmicomiche del 1965 rileggo la novella, già sopra citata, Tutto in un punto, nella quale lo scrittore racconta a modo suo il big bang come era stato ipotizzato dall’astrofisico statunitense Edwin P. Hubble (1889-1953): “Si capisce che si stava tutti lì – fece il vecchio Qfwfq, – e dove, altrimenti? Che ci potesse essere lo spazio, nessuno ancora lo sapeva. E il tempo, idem: cosa volete che ce ne facessimo, del tempo, stando lì pigiati come acciughe?
Ho detto <<pigiati come acciughe>> tanto per usare un’immagine letteraria: in realtà non c’era spazio nemmeno per pigiarci. Ogni punto di ognuno di noi coincideva con ogni punto di ognuno degli altri in un unico punto che era quello in cui stavamo tutti. Insomma, non ci davamo nemmeno fastidio…” (Calvino, 1992, p. 118). Tra tutti i personaggi del racconto spicca la signora Ph(i)NKo, “la sola che nessuno di noi ha mai dimenticato e che tutti rimpiangiamo”: “la signora Ph(i)NKo, il suo seno, i suoi fianchi, la sua vestaglia arancione, non la incontreremo più, né in questo sistema di galassie né in un altro.” (Calvino, 1992, p. 120). E’ lei la vera artefice del big bang originario e del moto espansivo dell’universo: “Si stava così bene tutti insieme, così bene, che qualcosa di straordinario doveva pur accadere. Bastò che a certo momento lei dicesse: – Ragazzi, avessi un po’ di spazio, come mi piacerebbe farvi le tagliatelle! – E in quel momento tutti pensammo allo spazio che avrebbero occupato le tonde braccia di lei muovendosi avanti e indietro con il mattarello sulla sfoglia di pasta, il petto di lei calando sul gran mucchio di farina e uova che ingombrava il largo tagliere mentre le sue braccia impastavano impastavano, bianche unte d’olio fin sopra il gomito; pensammo allo spazio che avrebbero occupato la farina, e il grano per fare la farina, e i campi per coltivare il grano, e le montagne da cui scendeva l’acqua per irrigare i campi, e i pascoli per le mandrie dei vitelli che avrebbero dato la carne per il sugo; allo spazio che ci sarebbe voluto perché il sole arrivasse con i suoi raggi a maturare il grano; allo spazio perché dalle nubi di gas stellari il Sole si condensasse e bruciasse; alle quantità di stelle e galassie e ammassi galattici in fuga nello spazio che ci sarebbero volute per tener sospesa ogni galassia ogni nebula ogni sole ogni pianeta, e nello stesso tempo del pensarlo questo spazio inarrestabilmente si formava, nello stesso tempo in cui la signora Ph(i)NKo pronunciava quelle parole: – … le tagliatelle, ve’, ragazzi! – il punto che conteneva lei e noi tutti s’espandeva in una raggiera di distanze d’anni-luce e secoli-luce e miliardi di millenni-luce e noi sbattuti ai quattro angoli dell’universo…” (Calvino, 1992, pp. 122-123). La signora Ph(i)NKo, “lei dissolta in non so quale specie d’energia luce calore”, il suo “slancio generoso”, “un vero slancio d’amore generale”, ecco l’origine dell’universo, la nascita di tutto ciò che è. Penso alla Venere di Lucrezio, Aeneadum genetrix, che passa nel mondo e diffonde dappertutto la brama di amare e procreare, secondo necessità naturale: “ita capta lepore / te sequitur cupide quo quamque inducere pergis: così, preso da incanto, ti segue con desiderio ogni animale, là dove sempre lo spingi” (De rerum natura I vv. 15-16). La Venere di Lucrezio è il simbolo della forza vivificante della natura che si rinnova ad ogni primavera e diffonde nel mondo il piacere di vivere; la signora Ph(i)NKo, invece, è la creatrice parodica primordiale del mondo e lascia negli uomini il grande rimpianto di sé, sempre rinnovato da “una specie d’energia luce calore” diffusa nell’universo. Sicché, fuor di metafora, viene da chiedersi: che cosa l’uomo contemporaneo ha perduto? Che senso ha il suo rimpianto?
Se uno dei miei studenti liceali un giorno mi chiedesse che cos’è la scienza, a me che insegno letteratura, gli risponderei che forse la scienza è tutta nel rimpianto di quanto abbiamo perduto e nel tentativo di riacquistarlo. L’azione dell’uomo penetra in territorio ignoto, dove è sempre in agguato una forza inumana che cerca di fare della tecnica una potenza indiscutibile, cui occorre resistere. Il potere dell’uomo sull’uomo è il potere della tecnica. Proprio perché le vicende della storia mostrano la realtà ineludibile di questo potere, e i suoi effetti perversi, occorre che l’azione dell’uomo di scienza, oggi, sia inscritta entro un orizzonte utopico ed etico, a salvaguardia della comune umanità. La letteratura, come s’è visto, assolve al suo compito raccontando le vicende dell’uomo che accompagnano questa ricerca, il suo stato di profonda prostrazione come il rimpianto del tempo trascorso, la vita come è possibile che sia. Non è semplice testimonianza, ma ricerca anch’essa dell’ignoto, comportante gli stessi pericoli, dentro lo stesso orizzonte utopico ed etico. Laddove la comprensione dell’uomo si fa piena, laddove si chiarisce meglio il senso della vita, direi al mio studente, inevitabilmente sentirai “un odore cosmico, di meteora, di temporale, divinamente angoscioso” (Musil), il segnale inequivocabile della vera letteratura, della vera scienza, senza distinzione.
Riferimenti bibliografici
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