di Guglielmo Forges Davanzati
Poche analisi del voto del 4 marzo si sono soffermate sull’andamento delle astensioni. Si calcola che i votanti crescono solo in tre regioni: Basilicata, Calabria e Campania, mentre scende in tutte le altre regioni e i cali maggiori si registrano al Nord. La quota degli astensionisti rimane ancora superiore al 25-26%.
Le ragioni della crescita (o della non riduzione) dell’astensionismo – fenomeno che riguarda pressoché tutti i Paesi OCSE – è da attribuirsi a numerosi fattori, non da ultimo al ruolo che la Politica è chiamata a svolgere nel capitalismo finanziario. Il capitalismo finanziario, che si manifesta con l’acquisizione di profitti (da parte delle grandi imprese e delle Istituzioni finanziarie) attraverso attività puramente speculative, è, per sua natura, ‘breveperiodista’; le attività speculative – e dunque l’acquisto e la vendita di titoli nei mercati finanziari – consentono l’acquisizione di profitti (e di rendite finanziarie) in un orizzonte temporale molto limitato. E i titoli oggetto di negoziazione nei mercati finanziari sono anche titoli del debito pubblico, in uno scenario, peraltro, nel quale il debito pubblico in rapporto al Pil è in continuo aumento in tutti i Paesi OCSE, almeno dagli anni settanta a oggi.
In questo contesto, i Governi si trovano nella condizione di dover perseguire un obiettivo assolutamente prioritario, ovvero acquisire credibilità agli occhi dei creditori, ovvero di coloro che detengono titoli del debito pubblico. Non possono non farlo, dal momento che, in caso contrario, non avrebbero risorse per finanziare la spesa corrente e, nel caso estremo di impossibilità di ripagare il debito, non avrebbero altre alternative se non dichiarare default. Si badi che si tratta di un caso estremo, ma non puramente ipotetico. L’Argentina agli inizi degli anni Duemila e la Grecia nel 2010 e nel 2015 si sono trovate in questa condizione.
Se i governi rispondono innanzitutto ai mercati finanziari e devono farlo per acquisire le risorse necessarie per ripagare debiti pubblici in continuo aumento, occorre chiedersi quali fattori trainano questo aumento. Vediamo il caso italiano.
E’ bene chiarire, contro la vulgata, che, nel caso italiano, l’esplosione del debito pubblico è solo in minima parte imputabile alla crescita della spesa pubblica, ma a fattori che non attengono alla gestione della finanza pubblica. In particolare, come mostrato dall’evidenza empirica, la spesa pubblica, in Italia, e la sua dinamica nel corso degli ultimi trent’anni sono stati costantemente inferiori alla media dei Paesi dell’eurozona, a fronte del fatto che il debito pubblico è stato costantemente superiore. Questo apparente paradosso è stato spiegato alla luce delle seguenti considerazioni. Per quanto attiene alla dinamica dei tassi di interesse sui titoli di Stato, questa non si arresta riducendo la spesa. Ciò per queste ragioni. In primo luogo, i tassi di interesse sui titoli di Stato sono stati (e vengono) mantenuti elevati per attrarre capitali speculativi con l’obiettivo di mantenere in pareggio la bilancia dei pagamenti, a fronte dei deficit di partite correnti imputati alla scarsa competitività internazionale delle nostre imprese. In secondo luogo, gioca qui un ruolo cruciale l’elevata evasione fiscale, dal momento che impedisce recuperi di gettito di entità tale da consentire più agevolmente di ripagare il debito. In terzo luogo, e soprattutto, si può rilevare che gli elevati tassi di interesse sui titoli di Stato italiani sono, in ultima analisi, l’esito di una dinamica di lungo periodo di costante riduzione della domanda interna connessa a una costante riduzione del tasso di crescita della produttività del lavoro. Con una struttura produttiva composta prevalentemente da imprese di piccole dimensioni, il finanziamento bancario della produzione e degli investimenti assume massima rilevanza, dal momento che poche imprese italiane riescono a reperire risorse sui mercati finanziari.
Si può, quindi, dedurre che la dinamica degli interessi sui titoli del debito pubblico è anche influenzata dalla dinamica dell’offerta di credito, dal momento che la sua riduzione comporta una riduzione del tasso di crescita e la conseguente necessità (per l’aumento della probabilità di insolvenza) di collocare titoli di Stato sui mercati finanziari con tassi di interesse crescenti. Il che dà luogo a un circolo vizioso di causazione cumulativa, che va dalla bassa spesa pubblica al basso tasso di crescita alla restrizione del credito alla contrazione degli investimenti e alla necessità di accrescere i tassi di interesse sul debito. E’ significativo osservare che questa dinamica non è affatto neutrale sul piano della distribuzione del reddito, per una duplice ragione.
In primo luogo, la riduzione della spesa pubblica (in quanto si associa a un aumento degli interessi sui titoli del debito pubblico) costituisce un trasferimento netto di ricchezza alla rendita finanziaria.
In secondo luogo, nell’impossibilità di “monetizzare” il debito (ovvero di cederlo alla Banca Centrale Europea), l’accresciuto onere del debito richiede incrementi di tassazione. Occorre chiarire che la ripartizione dell’onere fiscale, così come la distribuzione dei tagli di spesa, risente del potere contrattuale dei lavoratori e delle imprese nella sfera politica e, in tal senso, non risponde a criteri di efficienza di sistema. In una condizione di elevata disoccupazione, è dunque ragionevole aspettarsi che il maggior peso della tassazione (e dei minori trasferimenti pubblici) venga fatto gravare sul lavoro, accreditando la tesi di Marx secondo la quale “la causa del fatto che il patrimonio dello stato cade nelle mani dell’alta finanza [è] l’indebitamento continuamente crescente dello stato”.
Il cortocircuito che ne deriva fa riferimento a una dinamica che parte dall’aumento dell’indebitamento pubblico (non solo in Italia, essendo un fenomeno che coinvolge tutti i Paesi OCSE, e che attiene anche all’impiego di risorse pubbliche per i ‘salvataggi bancari’), che modifica sensibilmente gli obiettivi dei Governo – acquisire ‘credibilità’ nei mercati finanziari – che, a sua volta, condiziona la selezione degli strumenti di politica economica, che diventano funzionali alle richieste dei creditori. Dunque: consolidamento fiscale per generare risparmi pubblici e moderazione salariale per accrescere il saldo delle partite correnti. Nel caso italiano, strumenti entrambi totalmente inefficaci ai fini della crescita economica e dell’aumento dell’occupazione.
Se, dunque, l’obiettivo prioritario di un Governo è l’acquisizione di credibilità nei mercati finanziari, e dunque l’assicurazione fornita ai detentori di titoli di Stato che il debito verrà onorato, c’è ben poco spazio per l’attuazione di misure che migliorino il benessere materiale della gran parte dei cittadini. In tal senso, la ‘legittimazione’ del sistema – ovvero la sua coesione sociale – è demandata alla comunicazione. Vince chi comunica meglio.
Ciò non significa evidentemente che le tradizionali differenze fra partiti di destra e di sinistra scompaiano del tutto. Significa che i loro margini di scelta sulle politiche economiche sono sempre più limitati e che le reali differenze riguardano provvedimenti a costo zero (o con costi non particolarmente rilevanti) che riguardano norme sui diritti civili e, oggi in particolare, sulle politiche di controllo dei flussi migratori.
Non è casuale, stando a questa ricostruzione, che dal 1994 a oggi nessun partito di Governo è stato riconfermato. “Andiamo a governare, per perdere”, come è stato fatto osservare, sembra essere la cifra politica di questi anni.