di Rosario Coluccia
La scorsa settimana abbiamo parlato della presenza incipiente nella nostra lingua di due parole inglesi tra loro collegate, piuttosto opache nel significato e di pronunzia non semplice (le ho sentite pronunziare diversamente da parlanti di media cultura): whistleblowing ‘denuncia, di solito anonima, presentata dal dipendente di un’azienda alle autorità pubbliche, ai mezzi d’informazione, a gruppi di interesse pubblico, di attività non etiche o illecite commesse all’interno dell’azienda stessa’ e whistleblower ‘colui che, dopo aver constatato sistematiche irregolarità all’interno dell’organizzazione pubblica o privata per cui lavora, decide di denunciare l’illecito per il bene della collettività’.
A partire dal 2013, la seconda parola ha avuto una certa diffusione nella stampa italiana. È stata spesso riferita a Edward Joseph Snowden, utilizzando questo neologismo di provenienza straniera in genere senza spiegarlo o senza nessun tentativo di usare un corrispettivo italiano il cui significato fosse trasparente. Snowden è un informatico e attivista statunitense, ex tecnico della CIA, noto per aver rivelato pubblicamente informazioni dettagliate su diversi programmi di sorveglianza di massa (su atti di spionaggio, per capirci) del governo statunitense, fino ad allora tenuti segreti. Notizie inedite in proposito sono apparse ripetutamente su vari quotidiani statunitensi e inglesi («The Guardian», «The Washington Post», «The New York Times»), sul tedesco «Der Spiegel» e, di rimbalzo, sui giornali e nei mezzi di comunicazione di tutto il mondo. I procuratori federali degli Stati Uniti hanno accusato Snowden di aver sottratto proprietà del governo e di aver diffuso pubblicamente, senza autorizzazione, informazioni segrete sulla difesa nazionale. Di fronte al rischio concreto di arresto, Snowden ha chiesto asilo in Russia. A quanto pare, vive oggi in una località segreta vicino Mosca.
Forse sulla spinta di quanto accadeva altrove, l’Italia si è dotata di una legge che mira a regolare fenomeni come quelli che abbiamo descritto prima. La legge 30/11/2017, n° 179, «in materia di tutela del dipendente o collaboratore che segnala illeciti», intende garantire una tutela adeguata al dipendente che segnala a strutture come l’Autorità nazionale anticorruzione, l’autorità giudiziaria ordinaria, l’autorità contabile, le condotte illecite o gli abusi di cui sia venuto a conoscenza in ragione del suo rapporto di lavoro. Il dipendente che fa tali segnalazioni non può essere – per motivi collegati alla segnalazione da lui fatta – soggetto a sanzioni, licenziato, trasferito, declassato a mansioni inferiori o sottoposto a misure in qualsiasi forma punitiva. L’identità del dipendente che segnala atti discriminatori non può essere rivelata per nessun motivo.
Nei mesi precedenti l’approvazione della legge si è sviluppata una polemica tra chi insisteva sulla opportunità di portare rapidamente a termine il provvedimento legislativo e chi invece ne sosteneva la sostanziale inutilità. La disputa ha coinvolto anche due personaggi noti al grande pubblico, Piercamillo Davigo (Presidente della Associazione Nazionale Magistrati) e Raffaele Cantone (Presidente dell’Autorità Nazionale Anticorruzione). Davigo giudicava la legge «fumo negli occhi» e «cosa stucchevole», praticamente inutile perché esistono già norme generali in proposito. Cantone invece riteneva l’approvazione di una normativa specifica «una battaglia giusta», mirante a evitare le ritorsioni spesso subite da chi ha il coraggio di denunziare l’illegalità, non certo rivolta a «tutelare chi denuncia anonimamente» senza assumersi la responsabilità delle proprie azioni; e aggiungeva: «su questa legge ci sono anche troppi equivoci, troppi dicono che favoriamo le delazioni».
L’ultima parola è decisiva, al di là della differenza di valutazioni giuridiche che ha visto su posizioni differenti esperti di alto profilo: sugli argomenti giuridici non mi permetto nessuna valutazione, non posseggo la competenza che sarebbe necessaria. Rifletto invece sull’uso della lingua, che esplicita modi di pensare frequenti nella società. Capita spesso che chi denunzia pubblicamente irregolarità o malversazioni riscontrate all’interno del proprio ufficio sia considerato una persona poco affidabile, da isolare all’interno del proprio ambiente di lavoro e anche all’esterno, se possibile da punire, insomma un delatore. La segnalazione potrebbe esser percepita come qualcosa di negativo (fare la spia) o generare il timore di ritorsioni. Di conseguenza, potremmo essere indotti a ignorare il problema, a non segnalare un sospetto di irregolarità. E invece no, dobbiamo imparare a reagire ai fatti e alle condotte scorrette, anche se in apparenza non ci riguardano. Niente silenzi, niente omertà.
In rete circolano resoconti di numerosi episodi che segnalano veri e propri casi di persecuzione ingiustamente subita da varie persone, solo per aver pubblicamente denunziato illegalità avvenute nel proprio ambito lavorativo. Non faccio i nomi delle persone coinvolte, chi vuole può facilmente individuarle. E naturalmente non ho elementi per accertare la veridicità degli illeciti denunziati, non sono un investigatore né un giudice. Mi interessa la dinamica interna dei fatti e l’esito finale degli stessi (come vengono riferiti dalla rete). C’è l’impiegato che rivela le spese pazze fatte dal presidente di Ferrovie Nord (carte di credito aziendali usate a fine personali, anche per pagare capi di abbigliamento, oggetti di arredo e di elettronica) e per questo viene licenziato, nel silenzio dei suoi colleghi e del sindacato. C’è il funzionario del Comune di Pavia che, avendo denunciato gli appalti gonfiati per due milioni due euro (vicenda confermata dalla Cassazione) e la vendita illecita a privati di alloggi dell’Università, è stato trasferito e mai più reintegrato nell’incarico originario. A volte le cose prendono una piega positiva. C’è il calciatore che, avendo rifiutato di accettare 200.000 euro (offerti a lui e ad altri suoi compagni) per truccare una partita, fa partire un’ampia inchiesta su un giro di scommesse illegali nel mondo del calcio, che porta all’individuazione di molti corruttori e corrotti. Ma, al contrario dei casi precedenti, chi ha avuto il coraggio di rifiutare l’offerta illecita e di denunciare l’imbroglio riceve elogi da dirigenti e associazioni sportive, gli vengono offerti ruoli operativi e incarichi dal forte contenuto simbolico, compreso il compito di insegnare ai calciatori del settore giovanile di una squadra le regole della lealtà sportiva.
In conclusione. La società può reagire diversamente di fronte alla denunzia pubblica di illegalità o malversazioni. E qualificare con parole assai diverse chi, pur non essendo coinvolto in prima persona, spinto da onestà intellettuale e rigore morale, rivela le malversazioni di cui viene a conoscenza. A chi agisce in questo modo non può essere applicata l’etichetta di delatore o di spia. Ho fatto una piccola verifica, ho cercato le parole con cui la stampa americana ha più frequentemente definito negli anni scorsi Snowden: whistleblower (naturalmente) e anche, a seconda dei casi, traitor ‘traditore’, dissident ‘dissidente’, patriot ‘patriota’, hero ‘eroe’. Non potrebbero esserci oscillazioni più ampie e le scelte linguistiche tradiscono l’estrema varietà con cui gli stessi fatti possono essere giudicati da differenti individui. Le parole, come sempre, esprimono i nostri sentimenti e le nostre idee.
Ho letto il testo della legge italiana di cui parlavamo prima, quella che tutela il dipendente pubblico che segnala illeciti. Si tratta di un testo piuttosto breve, chiunque può verificare facilmente. Si usa sempre «segnalante», un vocabolo corretto perché neutro, che non dà giudizi ma si riferisce semplicemente all’azione descritta. In questo caso, lo sottolineo con piacere, il legislatore si è comportato in modo linguisticamente (ed eticamente) inappuntabile.