di Antonio Errico
Quando qualcuno entra in casa sua per la prima volta e vede quei libri negli scaffali che arrivano fino al soffitto, e quegli altri accatastati in ogni stanza, in ogni angolo, sopra il mobilio, puntualmente, inevitabilmente gli fa due domande. La prima riguarda la spesa che ha fatto per tutti quei libri. La seconda se tutti quei libri li ha letti davvero. Di solito queste domande gli vengono rivolte da chi di libri non ne ha tanti, ne ha molti di meno, ne ha pochi.
Alla prima domanda lui non risponde. Non saprebbe che cosa rispondere. Sa che per comprarli ha risparmiato sulle scarpe, sui vestiti, su quasi tutto, ma il conto non saprebbe farlo, non gli interessa. Certo, qualche volta considera che molte cose adesso si possono trovare con un clic sulla tastiera. Ma la cosa gli è indifferente: assolutamente indifferente. Alla seconda domanda invece risponde in relazione alle circostanze e al livello di simpatia o di antipatia che prova nei confronti di chi gliela pone.
Talune volte dice che sì, li ha letti tutti, molti di essi li ha perfino riletti, che non gli è costata nessuna fatica, che in quei libri ha conosciuto creature straordinarie e luoghi favolosi, e ha vissuto esperienze che non hanno paragone.
Altre volte risponde che fa collezione. Invece di raccogliere monete antiche, francobolli, santini, souvenir, porcellane, lui raccoglie libri. Oggetti come altri. Forse un po’ più pesanti, un po’ più ingombranti. Li tiene lì così, tanto per tenere, senza nessuna aspirazione di cultura, nessuna ambizione. Dice che è una sorta di furore, citando senza dirlo un libro di Sellerio che ripropone “Del furore d’aver libri”, uno scritto di Gaetano Volpi, sacerdote ed editore che operò in Padova nella prima metà del Settecento.
Qualche altra – rara- volta risponde seriamente. Dice che quei libri non potrebbe leggerli tutti, che nemmeno vuole farlo. Però ad averceli si sente più sicuro. Già, i libri gli danno sicurezza. E’ come un sapere a chi rivolgersi in caso di bisogno. Sono come un paese che conosci. Certe parti le conosci bene, certe altre meno bene. Però sai come muoverti comunque. Anche al buio sai come muoverti, perché quel paese ti appartiene, dice: le strade, le cose, i lampioni, la piazza, la periferia. Passi vicino al cimitero e rivolgi lo sguardo per un saluto, a coloro che c’erano, che ci sono nel tuo ricordo.
Sai che in quell’angolo puoi trovare il calzolaio, in quell’altro il meccanico, il forno, lì, dove adesso vendono occhiali da sole, abitava una ragazza che hai amato, oppure no, forse non l’hai amata, forse ne eri soltanto appassionato, ti faceva venire le vertigini, le pulsazioni alle tempie. Poi c’è una strada: quella che facevi in discesa e in salita, da bambino, con la bicicletta senza freni, perché i freni non servivano, bastavano i piedi, fin quando non si sbriciolavano le suola. E’ cambiato tutto in quella strada. Ma c’è un tufo rettangolare, ricoperto di muschio, che è rimasto davanti ad una porta, per abbassare l’altezza della soglia. Così dice.
Dice che i libri sono così, come un paese che ti appartiene, in cui sai sempre a chi rivolgerti, dove andare. Alcuni li conosci bene, altri meno bene. Alcuni li hai appena sfogliati, distrattamente. Però quando ti servono sai dove cercarli. Sai in quale angolo si trovano. Sai dove si trova un autore, un argomento, dove sono le storie tristi, quelle che lo sono un po’ di meno, dove sono quelli pesanti, quelli più leggeri, quelli che hai comprato da ragazzo, quelli che hai preso appena ieri, dov’è la geografia, la storia, la mitologia, quelli che hai amato, che amerai per sempre, quelli che una volta ti hanno appassionato, che forse non ti appassionano più, che ti hanno fatto venire le vertigini, le pulsazioni alle tempie, i libri che ti sembravano strade in salita, quegli altri che ti sembravano strade in discesa, i libri che hai letto più volte, quelli che non leggerai mai.
Così dice, quando risponde a qualcuno verso cui prova simpatia. Dice che i libri sono come il suo paese. Non come quello in cui vive ora, ma come quello in cui viveva allora. Cinquant’anni fa. Ci torna due volte l’anno. Va in alcuni luoghi, non in tutti. In quelli per i quali ha più nostalgia o di cui sente più forte il richiamo. Anche con i libri fa così: di tanto in tanto ritorna verso quelli per i quali sente più nostalgia o che lo richiamano con più insistenza. Dice che di Seneca sente nostalgia e richiamo nello stesso tempo.
Ci ritorna spesso. Seneca gli ha insegnato molto; continua ad insegnargli molto. Spesso si è detto che se ha avuto un metodo di studio, se ha avuto un metodo di lavoro glielo ha insegnato Seneca. Seneca gli ha insegnato l’umiltà e la temperanza, la misura delle cose, la loro essenza. La profondità. Il senso del tempo, delle storie.
Quando lui ritorna a Seneca, ritorna al suo paese, dice. Ad un tempo che è un po’ vero e un po’ immaginario, un po’ esuberante e un po’ malinconico. Com’è il tempo dell’infanzia stuporosa, quello dell’adolescenza inquieta e soporosa, quello della giovinezza ancora acerba.
Seneca è il suo nostos, il suo ritorno, dice. Realtà e mitologia. Passato presente futuro. Quando dice così gli vengono in mente le “Confessioni” di Agostino ma poi ad esse si sovrappongono immediatamente certi versi di una poesia di Eduardo De Filippo che dicono “Dimane nun esiste./E ‘o juorno primma,/siccome se n ‘è gghiuto,/manco esiste./Esiste sulamente/stu mumento/’e chistu rito ‘e vino int’ ‘a butteglia./E che ffaccio,/m’ ‘o perdo?/Che ne parlammo a ffà!/Si m’ ‘o perdesse/manc’ ‘a butteglia me perdunarria./E allora bevo…/E chistu surz’ ‘e vino/vence ‘a partita cu l’eternità!
I libri sono come un paese, come il tuo paese in cui non ti senti mai solo. Ripete a se stesso un passo de La luna e i falò: un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti. Di Cesare Pavese è stato appassionato quando aveva quindici anni. Lo ha letto tutto in un’estate. Poi non ha voluto ritornarci più. Gli piace pensare che il paese resti ad aspettarlo. Questo pensiero lo consola. Gli piace pensare che i suoi libri restino ad aspettare i suoi occhi. Anche questo pensiero lo consola.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, lunedì 26 febbraio 2018]