Di mestiere faccio il linguista 7.  Anglicismi incipienti

di Rosario Coluccia

Nella lingua italiana entrano di continuo parole inglesi, che molti giudicano inutili nei casi in cui la nostra lingua possiede corrispettivi propri, perfettamente funzionali, trasparenti e più facilmente comprensibili per i parlanti. La discussione sul morbus anglicus che rischia di minacciare l’italiano appassiona i lettori, sono numerose le manifestazioni allarmate e le dichiarazioni di insofferenza nei confronti dell’abuso di vocaboli inglesi giudicati non necessari. Ne abbiamo scritto altre volte. Torniamo sulla questione a partire da un singolo caso. Parliamo specificamente di una parola inglese che si usa ancora molto raramente e fino ad oggi ha scarsa diffusione nei giornali, in radio e televisione. Pochi giorni fa la sento pronunziare da un mio amico giurista: whistleblowing. Francamente ne ignoravo il significato, mi era del tutto sconosciuta. Per rimediare, consulto i vocabolari monovolume che ho in casa, ottimi, quelli che consiglio ai miei studenti, ma non vi trovo quanto cerco. Non mi do per vinto, continuo a cercare e finalmente ci arrivo, mi viene in soccorso la sezione “neologismi” del Vocabolario Treccani. Lì la parola è registrata: whistleblowing s.m. inv. ‘denuncia, di solito anonima, presentata dal dipendente di un’azienda alle autorità pubbliche, ai mezzi d’informazione, a gruppi di interesse pubblico, di attività non etiche o illecite commesse all’interno dell’azienda stessa’ (prestito dall’ingl. whistleblowing, formato a partire dalla locuzione to blow the whistle ‘soffiare nel fischietto’. Già attestato nella forma whistle blowing nel volume Etica pubblica, a cura di Stefania Bertolini, Pubblicazioni dell’ISU Università Cattolica, Milano 2006, pp. 130-32).

Si tratta dunque di una forma lessicale che recentemente dal mondo angloamericano si affaccia nella nostra lingua. Il sito della Crusca informa costantemente sulle attività che l’Accademia esercita per promuovere la nostra lingua. Tra queste, una è rivolta a studiare le modalità dei contatti che si stabiliscono tra lingue diverse e le reciproche influenze che ne derivano, i travasi da una lingua all’altra. Il gruppo di lavoro denominato Incipit, costituitosi di recente (nel 2015), formato da alcuni accademici italiani e da altri studiosi anche stranieri (www.accademiadellacrusca.it/it/attivita/gruppo-incipit), si occupa in particolare di analizzare e valutare gli anglicismi che sono in fase di ingresso nell’italiano, neologismi e forestierismi “incipienti” (ecco spiegato il nome), impiegati in vari campi della vita civile e sociale. Il gruppo esamina i forestierismi che si affacciano ora nella nostra lingua, in molti casi di difficile comprensione da parte dei parlanti comuni e propone, caso per caso, opportuni sostituenti italiani.

Per capirci. Non vengono messi in discussione i termini di matrice inglese che da decenni si sono stabilmente installati da noi e tutti usiamo correntemente, senza difficoltà: bus, camping, film, leader, set, shopping, sponsor, tunnel, zapping e tanti altri. Questi ormai fanno parte della nostra lingua (anche se la terminazione in consonante ne denunzia la provenienza esterna), nessuno è così sciocco da volerli eliminare e sostituire. Non esistono, tra i linguisti seri, remore puristiche fuori tempo, nessuno sogna di riassumere oggi il ruolo dei puristi ottocenteschi come l’abate Cesari o il marchese Puoti (che peraltro agivano in contesti molto diversi da quello attuale), né vuole riprodurre le posizioni dell’autarchia lessicale del periodo fascista. La censura esercitata da Incipit si rivolge a parole o ad espressioni inglesi quasi sconosciute per i parlanti italiani, per le quali un corrispettivo italiano sarebbe non solo possibile ma auspicabile: ne verrebbe facilitata la comprensione da parte dei singoli e la comunicazione reciproca. Coloro che emettono leggi, regolamenti, disposizioni, circolari, coloro che lavorano in parlamento, nei ministeri, nelle regioni, nelle provincie e nei comuni, nelle università e nelle scuole potrebbero sfruttare quei suggerimenti. Potrebbero avvalersene anche i giornalisti e gli operatori dell’informazione, nell’uso quotidiano e nelle comunicazioni con il largo pubblico. Contribuirebbero a diffondere una lingua facile, più bella perché all’insegna della chiarezza.

Ecco qualche esempio delle sostituzioni proposte dal gruppo di lavoro della Crusca. In ogni coppia, viene prima la forma inglese giudicata difficile o inutile, poi il possibile sostituto italiano: abstract → sommario o sintesi; analisi on desk → analisi preliminare o analisi a tavolino; bail in → salvataggio interno / bail out → salvataggio esterno; debriefing → resoconto; distance learning → apprendimento a distanza; e-learning → teleapprendimento o apprendimento on line; executive summary → sintesi; feedback → riscontro; hot spot → centro di identificazione (per migranti); peer review → revisione tra pari; public engagement → impegno pubblico; road map → piano operativo, cronoprogramma; smart working → lavoro agile; student (o clientsatisfaction → soddisfazione dello studente (dell’utente); stepchild adoption → adozione del figlio del partner; tool → strumento; valutazione della performance → valutazione dei risultati; voluntary disclosure → collaborazione volontaria.

Di fronte a suggerimenti come questi alcuni si mostrano disinteressati, il problema sembra non esistere o non riguardarli. Altri sono molto più avvertiti. Maurizio Villani, un avvocato tributarista leccese, pochi mesi fa ha promosso una petizione che esplicitamente afferma: «basta forestierismi in campo economico-fiscale». Egli giustamente avverte: «Credo che a livello fiscale alcune volte si voglia utilizzare il termine straniero per confondere il cittadino-contribuente; infatti, in preparazione della legge di bilancio 2018, si parla costantemente di tax expenditures che per chi non sa l’inglese si potrebbe tradurre in ‘riduzione della tassazione’, quando invece si tratta della riduzione o correzione delle spese fiscali e, quindi, indirettamente, di un aumento della tassazione!». La petizione promossa da Villani elenca ben 53 forestierismi utilizzati anche dal legislatore italiano in campo economico e fiscale. Per ognuno di essi si suggerisce una traduzione italiana, che potrebbe essere utilizzata da chi ha l’autorità di emanare leggi e regolamenti fiscali. Le cose non vanno così, al di la delle dichiarazioni. Il Direttore Generale dell’Agenzia delle Entrate, Ernesto Maria Ruffini, in un’intervista elenca i criteri a cui intende ispirare la sua azione: «Meno burocrazia, carta e timbri, meno adempimenti, ingiustizie, meno distacco dalla vita reale di chi produce, meno distanza dalla lingua italiana e, se saremo bravi, anche meno balzelli» (il corsivo è mio). Ma, contraddittoriamente, il provvedimento dell’Agenzia delle Entrate del 28/08/2017 è affollato di termini stranieri, quali ad esempio Branch Exemption, Mismatching e Recapture. Saranno forse chiari per gli addetti ai lavori, sicuramente risultano incomprensibili per i comuni cittadini. L’incapacità o la mancata volontà di farsi capire aumenta la distanza tra la macchina dello stato e i cittadini, su cui molti politici versano lacrime di coccodrillo. E riduce la democrazia reale.

Torniamo al whistleblowing da cui siamo partiti. La sostituzione proposta da Incipit è “allerta civica”. Di pari passo comincia a marciare nella nostra lingua whistleblower, letteralmente ‘soffiatore nel fischietto’, che potrebbe essere sostituito con il più chiaro “allertatore civico” (analogamente a quanto succede nella lingua francese, dove si usa “lanceur d’alerte”, e nella lingua spagnola, che ha coniato “alertador”).

Tutto sistemato? Non proprio. La prossima settimana vedremo come effettivamente vanno le cose in Italia, nella lingua e nella società.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di domenica 25 febbraio 2018, p. 10.]

 

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