di Augusto Benemeglio
Nel libro di Mirko Urro, “Ugento e il suo Zeus nella Messapia”, ritrovo una vecchia foto in bianco e nero in cui l’autore è in posa con un monumento vivente di questa nostra antica terra, quasi una reliquia della cultura, parlo di Gerard Rohlfs, salentino di Germania, con il candore dei suoi capelli color nuvola bianca, un dio che è sceso qui tra noi, con la sciarpa che vola in aria come in un quadro di Magritte e si fa nuvola e pioggia, e poi la sciarpa bianca che fluttua dolcemente e si trasmuta in innumerevoli gocce di pioggia, che il vecchio dio raccoglie nelle palme riunite delle sue mani e benedice. “Oh, dio Rohlfs, coi tuoi occhi celesti e profondi, epitome occidentale dell’anima, sai quanti normanni salentini hanno abbandonato le loro masserie (“casa del re”) per un giovedì cerimoniale di marzo come questo, fatto di nodi scorsoi e incontri definitivi? Qui sei venuto a ritrovare l’anima perduta dei tuoi antenati, cantando lo spazio, fai incontri e ti trasformi come un Proteo. Il segreto del nostro lavoro, mi dici, non sta nell’agire, ma nel “ reagire”, reagire senza la fluidità del latte che addormenta, reagire ad una lingua in pericolo di morte, che non deve perdere il dinamismo, il disegno, la musica. Dovete essere gelosi della vostra lingua! Guai a passare l’idioma ad un altro, il suo tono si deforma, diventa vuoto movimento, un’ameba cinetica. Intanto mi accorgo, che, passo passo, siamo arrivati nel territorio di Castrignano del Capo. Si sente l’odore del mare. Rohlfs, a un certo punto, lascia il bastone e va verso la riva incontro alle mistiche onde di Leuca per rinascere, a novant’anni, intatto, dall’acqua, che custodisce l’anima mundi.
L’uomo unificato
“Chi siamo noi, – s’interroga Calvino – chi è ciascuno di noi se non una combinatoria d’esperienza, d’informazioni , di letture, di immaginazioni? Ogni vita è un’enciclopedia, una biblioteca, un inventario di oggetti, un campionario di stili, dove tutto può essere continuamente rimescolato e riordinato in tutti i modi possibili”. E con il destino come la mettiamo, Italo? Gli uomini – sussurra lo scrittore ungherese Sandor Marai – contribuiscono al loro destino, a determinare certi eventi, che sono le loro “braci”. Invocano il loro destino, lo stringono a sé e non se ne separano più. E così è per la verità, sappiamo sempre qual è la verità, quella verità diversa che viene occultata dai ruoli, dalle maschere, dalle circostanze della vita… Pensiamo sempre che tutto possa essere rimandato a domani. Ma non è così. Tutto urge, e tutto preme intorno a noi per essere detto e fatto. Non tollera omissioni e indugi, la vita.
“Perché l’anima ci fa così male?”
Perché dobbiamo stare vicini, perché dobbiamo parlarci , rivelarci gli uni agli altri, confessarci i dubbi, le speranze, la sete di verità e le disperazioni, dobbiamo condividere il senso di una vita che non è solo di uno, ma comune.
E “Dopo la vita cosa? Ma altra vita,/ si capisce – dice Raboni -.
Dove?
Ma qui, dove siamo ora, nei luoghi dell’altrove, a Leuca, “nella finibusterrae che” – dice Antonio Errico – “non esiste, è solo una nostalgia che la scrittura cerca di alleviare”. Ed ecco che nel luogo che non esiste appare l’infinito, dove sbocciano fiori come anime prigioniere, e tutte le cose del caos interiore, delle anime parziali, si congiungono in una sola: l’uomo unificato.
Roma, 11 febbraio 2018