di Antonio Errico
Si dice che questa civiltà stia assistendo alla scomparsa della memoria, che sia diventato pressante e rapidissimo e irreversibile il processo di oscuramento prodotto dall’oblio, che non c’è nulla che perduri, nulla che resista, che si costituisca come riferimento al quale il presente possa rivolgere interrogativi per ottenere risposte elaborate dall’esperienza. È difficile capire quanto questo sia falso e quanto sia vero. Probabilmente, come molte delle faccende che riguardano l’umano, è un po’ falso e un po’ vero allo stesso tempo, ma in ogni caso è sempre soggetto ad una interpretazione individuale e collettiva, che in quanto interpretazione muta in relazione alle circostanze che intervengono su di essa, che ne determinano l’orientamento, la conformazione, la consistenza. È difficile capire se veramente il tempo che viviamo stia assistendo alla scomparsa della memoria o se, più semplicemente, si stiano trasformando il concetto di memoria, le forme con cui essa si conserva o si tramanda, le relazioni emotive e culturali che richiama.
Forse, se ci si sofferma un istante sulla soglia del presente ad osservare le conformazioni dei paesaggi sociali e culturali, si avverte l’impressione che tutt’intorno si stenda un deserto di memoria, che ciascuno e tutti insieme si viva in una condizione di smemoratezza. A volte consapevole, a volte inconsapevole, a volte triste, a volte perfino spensierata, quasi che il non avere memoria ci liberasse da un gravame. Può sembrare così, dunque, se ci si sofferma ad osservare distrattamente. Ma quando poi si affonda lo sguardo, quando si lacera il velo dell’apparenza attraverso un approfondimento, una più attenta riflessione sulle situazioni, una focalizzazione dei particolari del paesaggio, comincia ad insinuarsi il sospetto che la realtà sia alquanto diversa da quello che sembra, che la memoria rappresenti ancora una condizione di riferimento. Sono cambiati, invece, i modi con i quali avviene la consegna da generazione a generazioni. Sono cambiati le forme e gli strumenti con i quali la memoria si custodisce. Sono cambiati i sistemi di categorizzazione, organizzazione, rappresentazione. Di conseguenza è cambiato tanto il bisogno di memoria quanto la modalità e la frequenza con cui si ricorre ad essa.
Non saprei dire se questo possa significare che è cambiata anche la sostanza della memoria. Potrebbe anche essere, però, per il fatto che, come si sa, per molte cose è la forma che determina la sostanza. Forse, quello che si potrebbe affermare, con qualche certezza, è che noi, oggi, abbiamo una memoria diversa da quella degli uomini di qualsiasi altro tempo. Non è maggiore o minore, ma semplicemente diversa. È diversa la struttura, sono diversi il tessuto, lo spessore, la densità, la tempra, la resistenza; è diverso il valore che le si attribuisce, la funzione, il senso.
Forse questo è un tempo che non richiede più una memoria tramandata; è un tempo che richiede, o pretende, una continua rigenerazione della memoria, una ristrutturazione dei suoi modelli, una rielaborazione dei suoi simboli. Forse anche, forse soprattutto, una sua narrazione in forme diverse.
In fondo, da sempre, non si narra altro che la memoria: perché non si può narrare altro che quella, nei suoi riflessi, nelle sue stratificazioni, nelle sue implicazioni. Però, probabilmente, ora si rivela necessario elaborare nuove forme di narrazione, che rispecchino quelle forme con le quali la memoria si custodisce, si tramanda, che ne trasformano il concetto, la struttura, la sostanza, la funzione, il senso, il sentimento. Si dovrebbe forse intraprendere una nuova ricerca del tempo perduto, che sarebbe inevitabilmente più complessa perché implicherebbe una dimensione collettiva, un’interazione di differenti visioni e concezioni e coscienze del passato, uno sprofondamento nelle trame e negli intrecci della storia e dell’antropologia.
Non saprei dire se i metodi e gli strumenti narrativi che abbiamo a disposizioni siano compatibili con la narrazione collettiva della memoria. Finora, ogni narrazione relativa al tempo è avvenuta in modo soggettivo e intimo. L’opera di Proust si configura come modello esemplare, ineludibile per chiunque intenda in qualche modo confrontarsi con la narrazione della memoria. Ma nel tempo di un secolo sono radicalmente mutati i sistemi sociali, psicologici, culturali che condizionano i processi della memoria e che da essi sono condizionati. Le necessità di memoria sono andate gradualmente orientandosi verso una condizione plurale, collettiva. Ecco, dunque, il motivo per il quale la narrazione della memoria, la sua rappresentazione, dovrebbero realizzare il passaggio dalla dimensione individuale a quella collettiva.
Forse per essere insieme abbiamo bisogno di ricordare insieme: per mettere insieme esistenze abbiamo bisogno di condividere le storie di quelle esistenze; per consentire la comprensione di identità, abbiamo bisogno di confrontare il racconto di identità; per mettere in contatto culture abbiamo bisogno di dire l’origine e le forme di quelle culture. In un saggio che s’intitola “La memoria culturale”, l’egittologo Jan Assmann sostiene che la memoria individuale si struttura in virtù della sua partecipazione ai processi comunicativi; la memoria vive e si mantiene nella comunicazione: se questa s’interrompe, la conseguenza inevitabile è l’oblio. Viene da chiedersi se senza una rete a maglie fitte di memoria collettiva sia possibile la sopravvivenza della memoria individuale. Viene da rispondersi che forse non è possibile, che se anche ciascuno riuscisse a far sopravvivere la propria memoria, quella memoria soggettiva sarebbe improduttiva perché sottratta al confronto, alla comparazione, all’ interazione. Sarebbe una memoria solipsistica, priva di dialogo, ripiegata su se stessa. Come tutte le cose della natura e della cultura, anche la memoria per riprodursi ha bisogno dell’altro con cui farsi compagnia.
Da soli diventa difficile, forse impossibile, finanche ricordare.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, Domenica 11 Febbraio 2018]